Questo post è la naturale continuazione di quest'altro: FREUD, LACAN E LA BELLA MACELLAIA 1.
“Effetto prismatico della seduzione. Altro spazio di rifrazione. Essa consiste non nell’apparenza semplice, non nell’assenza pura, ma nell’eclissi di una presenza. La sua unica strategia è: essere là/non essere là, e assicurare così una sorta di ammiccamento intermittente, dispositivo ipnotico che cristallizza l’attenzione al di là d’ogni effetto di senso. Qui l’assenza seduce la presenza”.
Il terzo tipo di identificazione
è ciò che Lacan chiama “essere il fallo”, che non è tipicamente isterica, anche
se nell’isteria questa identificazione raggiunge uno stallo, ma tipicamente
femminile; Lacan ci fa notare che nella nostra cultura non esiste un
significante strutturante e fondamentale per la femminilità, mentre ne
possediamo uno unico per significare sia il maschile che il femminile: il
fallo.
E’ intorno al fallo che ciascuno
di noi, non importa se uomo o donna, struttura la propria sessualità, con una
differenza fondamentale: mentre il maschio possiede il fallo, con tutto ciò che
esso rappresenta in termini di superiorità, privilegio e di “bastone del
comando”, la femmina si struttura nell’ “essere” il fallo, non nel possederlo,
lei interamente, anima e corpo, è il fallo … nessun maschio dopo aver accettato
la castrazione potrebbe raggiungere il godimento senza passare per la donna,
riappropriandosi così del fallo che gli manca … insieme, l’uomo e la donna,
fanno una coppia completa, virile, potente e possono accedere al godimento … alla jouissance.
La donna è ciò che manca all’uomo
per essere felice, è il fallo restituito dopo la castrazione, è l’oggetto del
desiderio maschile, è saper suscitare nell’uomo la mancanza e saperla riempire
di sé; con la differenza che mentre la donna non isterica raggiunto lo scopo
della sua seduzione riesce a godere del desiderio dell’Altro, del fatto che
l’altro desideri lei, l’isterica rimane sospesa nel suo essere mancanza, perché
il mancare all’altro, l’essere il tassello del puzzle che completerà e renderà
perfetto il maschio prescelto, da un potere inebriante che si teme di perdere
se ci si concede e ci si abbandona al maschio.
Sarà capitato anche a voi di
avere a che fare con un isterico/a, è estremamente difficile che non ne abbiate
mai incontrato uno/a nel vostro cammino, e ciò nonostante il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders) e l’ICD (International
Classification of Diseases) abbiano derubricato già da tempo la vecchia
categoria nosologica dell’isteria disperdendola nei Disturbi Dissociativi, nel
Disturbo da Conversione e nel Disturbo Istrionico di Personalità, l’incidenza
dell’isteria nella nostra società è talmente elevata che la cancellazione di
questo tipo di disturbo dai manuali di psicopatologia non gli impedisce d’esistere
… come disse Jean Martin Charcot a
proposito di un’altra questione: “La théorie, c'est bien, mais ça n'empêche pas
d'exister”.
Un isterico è un tizio a cui non
va mai bene niente, i suoi desideri hanno sempre i contorni indefiniti, non si
sa mai cosa vuole esattamente, e quando riesce ad esprimere qualcosa che abbia
la parvenza di un desiderio, guai a soddisfarlo (vorrei il caviale, ma guai se
me lo regali), mentre è sicuro, di una sicurezza incrollabile, di essere (lui
in persona, non in effige o tramite rappresentanti o significanti) ciò che va
assolutamente bene per voi, ciò che vi ci vuole (lo sappiate o no), ciò che vi
manca per essere perfetti.
Ma Lacan non poteva finirla così,
anche se è andato molto oltre le intenzioni interpretative di Freud, che pure
si era spinto molto avanti, perché avrebbe potuto fermarsi quando individua il
desiderio della sua paziente, e invece non resiste a gettarsi a capofitto
nell’interpretazione di quella fetta di salmone a cui si associa il caviale;
proprio non poteva terminare senza i fuochi d’artificio, che prendono l’avvio
anch’essi dal salmone.
È così che una fetta di salmone
diventa un salmone intero e questo salmone, così configurato, diventa il fallo
(è noto che in gergo col termine generico di pesce o con quelli specifici di
alcuni pesci come il cefalo, il grongo, l’anguilla … si alluda al membro
maschile), il fallo che è l’amica, un fallo invero un po’ sottile visto che è
una fetta a rappresentarla, così come è magra l’amica, ma è pur sempre quel
fallo che significa negli uomini la mancanza e che suscita il loro desiderio.
La bella macellaia ha compreso
che per piacere al marito non basta essere formosa, pure una fetta di salmone
affumicato secca secca come l’amica può piacergli, purché significhi quel fallo
attraverso il quale egli potrà sentirsi virile e potente; ecco, allora, che si
identifica all’amica attraverso un significante simile (salmone-caviale) e,
soprattutto, attraverso quel gioco comune che indica la mancanza.
Entrambe desiderano piacere al
maschio, al macellaio (anche l’amica desidera ingrassare), entrambe vorrebbero
incarnare quel fallo che il maschio tanto desidera per essere completo,
entrambe cercano di modellare il proprio corpo perché sia appetibile al
maschio, e magari agitarlo in pose seducenti e allusive come facevano
anticamente le naiadi e le baccanti per suscitare il desiderio maschile.
Non era raro che nelle feste in
onore di Dioniso le donne che danzavano portassero un fallo posticcio, come
testimoniano molte fonti, o che un uomo danzasse travestito da donna, con una
sottana femminile, e che nel corso del rituale, nel pieno dell’ebbrezza
bacchica, lo lasciassero intravedere nel gesto rituale dell’anásysma, o del sollevare la sottana, un
gesto considerato estremamente erotico, come possiamo notare ancora oggi in
alcune statue (come quella di afrodite Callipigia, del Museo Archeologico di
Napoli), o nei rari affreschi che si sono conservati fino ai nostri giorni,
come quelli di Pompei.
Per questo motivo, forse, Lacan
volle sulla copertina del suo libro Télévision
la donna atterrita della Villa pompeiana dei Misteri, quella che sta
all’estrema destra dell’affresco e solleva in aria le braccia e il velo scuro,
un gesto che lascia trasparire il biancore del suo corpo, il turgore della sua carne
e dei suoi seni, ma il cui lembo scuro del mantello copre pudicamente e
maliziosamente il plesso solare.
Sarebbe stata altrettanto
indicata la danzatrice nuda sull’altra parete, il cui velo volteggia nell’aria
e lascia completamente scoperto il corpo diafano, ma la vediamo solo di
schiena, molto opportunamente, altrimenti non ci sarebbero più altri misteri da
svelare, come il mistero della donna supposta fallica, che con una magica e
sovrannaturale negazione della castrazione, diventa essa stessa il fallo.
Con le parole dello stesso Lacan:
“Si da però il caso che il
desiderio non si faccia eludere così facilmente, perché è troppo visibile,
piantato com’è nel bel mezzo della scienza sulla tavola delle agapi [è il
banchetto rituale] come qui, con l’aspetto di un salmone; bel pesce per
fortuna, che basta presentare, come si fa al ristorante, sotto una tela fine,
perché l’alzata di questo velo s’eguagli a quella cui si procede al termine
degli antichi misteri”.
Ora, sia Freud sia Lacan sono
stati dei geni assoluti, senza il primo la psicoanalisi stessa non esisterebbe,
al secondo si deve senza dubbio il rispetto e il dialogo che il pensiero
filosofico e scientifico tributano ancora alla scoperta freudiana, oltre ad
aver mutato radicalmente le fondamenta epistemologiche stesse di questa
disciplina.
Non avrebbero potuto fare niente
di tutto questo se non avessero posseduto un’intuizione fulminante, se non
avessero compreso prima e meglio di altri alcuni enigmi della mente umana, se
non avessero svelato il funzionamento della dinamiche inconsce; ma entrambi
erano dei teorici, e una volta messa a punto la loro teoria, una volta
strutturato l’apparato teorico e la modellistica della mente che li ha resi celebri,
sono passati, purtroppo, dall’ascolto attento della realtà alla ricerca di
conferme sulla realtà.
Questo vuol dire che sono
numerosi gli esempi in entrambi in cui, più che interrogare la realtà,
sovrapponevano le loro teorie alla realtà in cerca di conferma, magari forzando
un po’ le cose, modificandole quanto basta per poter dire: “Vedete? Avevo
ragione io!”. Il procedimento che entrambi seguono sul caso della nostra
macellaia è emblematico: Freud procede con molto tatto, come è solito fare, di fronte
alla paziente che non crede alla sua teoria che il sogno sia l’appagamento
allucinatorio di un desiderio rimosso, egli ammette cautamente che il sogno che
lei le riporta non sembra rientrare in questa categoria, ma la invita ad
analizzarlo ugualmente.
Lei, rassicurata, lo segue fino
al punto in cui anch’ella deve ammettere che pure un desiderio realizzato nel
sogno esiste, solo che non era quello che appariva in un primo tempo: non si
trattava del desiderio di dare un pranzo, ma di quello di evitarlo perché un
pranzo farebbe ingrassare il marito, che invece vuole dimagrire e farebbe
ingrassare l’amica, che vuole essere più formosa e piacente e potrebbe così
essere ancora più gradita a suo marito.
Freud in sostanza si butta a
pesce sul contenuto del sogno della sua paziente per verificare la sua teoria,
perdendo a mio avviso di vista la paziente stessa per strada (la stessa cosa
era accaduta con Dora, nel caso clinico famoso); mentre Lacan non perde per
strada la paziente, perché non è una sua paziente, perde per strada invece
Freud, che è il suo punto d’avvio, mentre i suoi interlocutori sono i colleghi
e gli uditori dei suoi seminari e i lettori dei suoi scritti.
Quando Lacan bandisce il ritorno
a Freud come una crociata, probabilmente sa perfettamente che il suo non è un
autentico ritorno a Freud, ma un condurre Freud da Lacan, spesso fa dire a
Freud cose che quest’ultimo non solo non ha mai detto, ma mai avrebbe mai
pensato di dire, e in questo ritorno Lacan scaglia i suoi discepoli come segugi
alla ricerca di ciò che lui indica Freud avrebbe detto … e che ovviamente si
illudono di aver trovato.
Scandagliano e dragano i libri di
Freud spremendo al maestro viennese il pensiero che Lacan formula nei suoi
discorsi, ne viene fuori un Freud esistenzialista, strutturalista, linguista,
matematico, surrealista e quant’altro, un Freud irriconoscibile ed estemporaneo
che altri non è che lo stesso Lacan, il quale era arciconvinto di non poter
basare un pensiero innovativo sul nulla, ogni verità, ogni novità deve necessariamente
fondarsi sulle radici del passato, non può dirsi niente se non a partire dal
“nome del padre” (come ha sentenziato lo stesso Lacan), persino il Cristo parla
in nome del padre e assicura i suoi discepoli che non è venuto a cambiare la
legge, ma a perfezionarla.
In alcuni casi l’atteggiamento di
Lacan rispetto al pensiero altrui o ai suoi pazienti era molto libero, leggero,
approssimativo, poco rigoroso o rispettoso della realtà, la sua prima paziente
Aimée si lamentò per tutta la vita di essere stata completamente travisata e
poco capita da Lacan, ma se volete un esempio di ciò più immediato possiamo
averlo sotto gli occhi nell’analisi che fa del testo freudiano di questo sogno.
Egli afferma:
“Quel macellaio del marito se ne
intende, quanto alle soddisfazioni di cui tutti abbiamo bisogno, a mettere i
puntini sulle i, e non ha peli sulla lingua con un pittore che gli lecca il
didietro, Dio solo sa con quale oscuro disegno, col suo faccione interessante:
‘Balle! Un bel tocco di sedere di una bella figliola, è di questo che lei ha
bisogno, e se aspetta me ad offrirglielo, se lo può attaccare dove dico io’ – e
subito dopo - Ecco qua un uomo di cui è impossibile che una donna abbia di che
lamentarsi, un carattere genitale, e che certo bada debitamente a che la sua
metà, quando lui se la fa, poi non abbia più bisogno di masturbarsi”.
Insomma, per Lacan il macellaio è
un uomo di indubbia virilità, uno che sa bene come soddisfare una donna, e se
la moglie non è soddisfatta è solo colpa sua che è isterica, cioè
incontentabile e difficilmente soddisfacibile, perché incastrata in quella posizione
per cui è costretta a rifiutare ciò che in realtà desidera.
Tutto questo Lacan lo deduce
semplicemente dalla battuta salace che lui avrebbe rivolto al pittore che la
moglie riporta a Freud, ma una moglie insoddisfatta (isterica o meno) non
depone quasi mai a favore della capacità del marito di saperla soddisfare, né
la sua incipiente pinguedine, segno probabile che quest’uomo cercasse a tavola
quelle soddisfazioni che non trovava a letto.
Se analizziamo l’aneddoto del
pittore sotto un altro punto di vista forse potremmo scorgervi il desiderio di
quest’uomo che qualcuno si interessi alla sua bella faccia, come quel pittore,
come egli certamente si interessa al sedere di qualche bella figliola (gli
piacciono belle formose, ci dice la moglie). Il fatto che lo racconti alla
moglie ci rivela quasi sicuramente che quella che il macellaio desidera che si
interessi a lui è proprio lei, così come potremmo giurare che magari vorrebbe tentare
di ingelosirla (riuscendoci) quando si mostra interessato all’amica, e potremmo
altresì mettere la mano sul fuoco che il fatto che la macellaia racconti tutto
questo a Freud vuol dire che, identificandosi col desiderio del marito,
vorrebbe essere interessante per il suo analista.
Troppo complicato? Rileggetelo e rifletteteci,
una volta colto questo che sembra un ricamo arabescato diventa di una
immediatezza persino imbarazzante: è il corollario del fatto intuitivo che
tutto ciò che viene detto, viene detto a qualcuno, e tutto ciò che viene fatto,
viene fatto per qualcuno; l’essere solleciti, premurosi, gentili e disponibili
spesso tradisce il desiderio inconscio di ricevere le stesse attenzioni proprio
dalla persona a cui questo atteggiamento è rivolto.
Altro esempio della disinvoltura
di Lacan? Da quando sono passato da Freud a lui, se vi siete accorti, la signora
è diventata “bella”, così la chiama lui anche se non c’è alcun riscontro nel
testo di Freud, che pure è l’unico che l’ha conosciuta davvero e che non
possedeva la pruderie di omettere questo dato nella descrizione delle sue
pazienti né, talvolta, il disagio che ciò poteva procurargli, proprio lo
respiri in alcuni casi dalla sua lettura.
Forse questa donna diventa bella nel
racconto di Lacan perché è più interessante parlare di una donna bella invece
di una brutta o insignificante, introdurre il termine bello a proposito del
racconto di una persona crea inoltre delle aspettative consone alla bellezza e
condisce tutto questo caso, il caso cioè di una donna isterica alle prese con
problemi sessuali e affettivi, di un po’ di peperoncino, così come accresce
l’interesse l’insistere sulla battuta volgarotta del marito.
Ella diventa inoltre “macellaia”,
cioè qualcuno che evoca coltelli affilati, tagli e lacerazioni alla carne, sangue,
e questo la rende artificiosamente ancora più interessante per l’uditorio,
nonostante il fatto che l’essere moglie di un macellaio, all’ingrosso per di più
(cioè di uno che non ha una macelleria, non taglia, spezza, trita direttamente
la carne, ma un magazzino dove conserva quarti di manzo e di maiale, polli e
galline da rivendere in blocco), non ha mai reso nessuna donna macellaia (a
meno che questa non vada a dare una mano al marito in bottega), così come
essere la moglie del maresciallo non ti rende marescialla.
Che un certo termine una volta
inserito tende a mutare il significato di una frase e di tutto un evento lo
scoprii all’inizio del secondo anno di liceo, quando credendomi stupidamente
più bravo di quanto in realtà fossi, e credendo altrettanto stupidamente di
poter affrontare una versione latina senza quasi toccare il vocabolario,
tradussi “Forte pater familias …” con “Un forte padre di famiglia …”.
Dal momento poi che questo padre
di famiglia va a discutere con Socrate riguardo al figlio, io interpretai
“discutere” con “altercare”, altrimenti perché avrebbero specificato che il
padre di famiglia era forte? Insomma, la versione venne stravolta, alterata,
avevo trasformato una discussione in una lite; pensate quanto diversa sarebbe
stata la stessa versione se avessi tradotto più correttamente con “Per caso un
padre di famiglia …”, perché forte in latino non è un aggettivo (forte), ma un
avverbio (per caso, accidentalmente).
Se volete sapere come la penso io
su questa “bella” macellaia, vi dirò che io ritornerei proprio alle parole di
Freud, che è l’unico che ha conosciuto davvero la nostra macellaia, perché
nessuno di noi può interpretare il sogno di chi non conosce e un sogno non è
interpretato dall’analista, ma dalla coppia analizzando-analista all’interno di
una relazione terapeutica, unico ambito in cui ha senso la traumdeutung.
E questo lo dico anche ai
colleghi che hanno un sito web o che tengono una rubrica in qualche rivista
patinata, che si lanciano in sperticate ed improbabili interpretazioni oniriche
a persone che non hanno mai visto; tutto ciò avviene in maniera meccanica, ad
un determinato simbolo corrisponderebbe un preciso significato, i simboli
diventano così universali (cosa che non è assolutamente vera perché il cane che
sogna la signora Giuseppina non è lo stesso cane che sogna il signor Luigi), e
il meccanismo dell’interpretazione diventa unidirezionale, l’analista
interpreta e l’analizzando apprende la verità dalle limpide labbra del suo
stregone.
In questo modo tutto ciò che
possiamo fare è ragionare un po’ sopra l’interpretazione di Freud, ed anche su
quelle di Lacan che vi si è sovrapposto, non certo l’interpretazione del sogno
della signora; dunque, torniamo indietro … vediamo un po’ … “Voglio offrire una
cena, ma non ho altre provviste tranne un po’ di salmone affumicato …” … no,
ancora più su … «”Lei dice sempre che il sogno è un desiderio esaudito”,
incomincia a dire una mia spiritosa paziente: “Ora le voglio raccontare un
sogno il cui contenuto rivela invece un desiderio non esaudito. Come lo mette
d’accordo con la sua teoria?”.
Tutto ciò che viene detto viene
detto da qualcuno a qualcuno, dicevamo, è un principio talmente semplice,
talmente evidente, talmente banale, che spesso lo dimentichiamo, buttandoci a
capofitto nel comprendere il contenuto di ciò che viene detto e trascurando chi
parla e anche chi ascolta, che sono indubbiamente i protagonisti principali di
questo dire, senza i quali non ci sarebbe alcun detto … fra parentesi è l’errore
che compiono sia Freud sia Lacan in questa circostanza.
Il fatto che qualsiasi cosa venga
detta da qualcuno a qualcuno, non vuol dire solo che selezioniamo la persona a
cui dire qualcosa e scartiamo quelle persone a cui non dirla, non vuol dire
soltanto che una cosa cambia a seconda di chi è il nostro interlocutore perché cambiamo
di volta in volta la versione adattandoci a lui, ma che noi creiamo ciò che
raccontiamo in base di chi è il nostro interlocutore … provate ora a pensare
come le cose possono complicarsi se applichiamo questo discorso anche a chi
ascolta.
Non finirò mai di stupirmi del
fatto che spesso vengo fatto oggetto di confessioni anche di fatti intimi da
parte delle persone, e non mi succede solo con gli intimi, anche con estranei,
non mi capita da qualche tempo, mi capita da sempre, da quando ero bambino, ho
sempre creduto che fosse così per tutti, di non essere una sorta di confidente
privilegiato, ma ho dovuto ricredermi perché la maggior parte delle persone non
accede ad alcuna intimità con gli altri o lo fa solo con pochi altri e mai
davvero in profondità.
Ciò che mi sento dire spesso è
che metto le persone a proprio agio facilmente, si crea subito quel clima di
intimità, loro si sentono sicure, comprese, sentono di affidare le parti più
profonde ed inconfessabili della loro esistenza a qualcuno che non solo non le
giudicherà, ma che è umanamente interessato a loro e che possiede quella
sensibilità di maneggiare con cura i brandelli della loro esistenza.
Dire di sé, esprimersi,
affermarsi per ciò che siamo non è soltanto una necessità, ma è anche un dono
che facciamo all’altro, e un dono si fa a chi pensiamo possa meritarlo, a chi
saprà apprezzarlo; poi, possiamo anche sbagliare completamente le nostre stime,
la nostra valutazione dell’altro, ma ciò che abbiamo in mente e nel cuore nel
momento in cui confidiamo qualcosa a qualcuno è che questa persona merita
questo dono che facciamo a lei di noi.
C’è come una consapevolezza di
cui non sapremmo dirci l’origine né le fondamenta, qualcosa che proviene dal
profondo di noi, che ci dice che la nostra confidenza potrà essere accolta e
che sarà in buone mani, ancor prima che decidiamo di dirla; la confidenza
diventa dono di noi stessi all’altro, diventa legame, e questo legame è in sé
molto più importante del materiale di cui si serve per legarci.
Il sogno ad esempio, non esiste
cosa più intima che potremmo confessare di noi stessi, non esiste regalo più
prezioso che potremmo fare a un altro, ci sono pazienti che ci mettono molto
tempo prima di portarmi un loro sogno, altri che me ne raccontano uno alla loro
prima seduta di terapia (il che è a mio parere beneaugurante per il procedere
della terapia stessa), ci sono pazienti per cui ogni cambiamento profondo è
scandito da un sogno emblematico, di quelli che poi ricordi per sempre, come se
fossero rivelazioni divine o incantesimi sciamanici, per altri il sogno è come
una lastra, una radiografia in cui ti fanno vedere il loro mondo interno oltre
quello esterno.
Ci sono, poi, quelli che non
sognano affatto, in tal caso ti chiedi per prima cosa se tu sei disposto ad
accogliere i loro sogni, oppure sono loro che si aggirano circospetti
studiandoti per decidere se di te si possono fidare e se tu sei in grado di
accogliere e di comprendere la loro verità.
Ma, visto che il sogno è diretto
a te, visto che sognano per te, non è difficile pensare che il sogno parla si
di loro, ma parla anche di te; confrontandomi con alcuni miei colleghi mi sono
accorto che i pazienti dei lacaniani e degli junghiani fanno sogni densi di
simbologia (rispettivamente lacaniana o junghiana), i pazienti dei bioniani
fanno sogni rigorosamente bioniani, quelli dei kernberghiani o dei kohutiani
sogni assimilabili all’ortodossia di queste due teorie psicoanalitiche, i miei
pazienti hanno seguito l’evoluzione delle mie idee sul sogno: da momento culminante
ed esplicativo che accompagna e conferma un avvenuto cambiamento profondo al
suggerimento di soluzioni possibili per i problemi reali.
Poi c’è anche chi ha pazienti che
non sognano e, caso strano, questo analista non è molto propenso non dico ad
interpretare il sogno, come facevano gli analisti freudiani ortodossi, ma anche
solo a prenderlo in considerazione; sembra quasi che i pazienti fiutino nell’aria
con chi hanno a che fare, facciano timidi tentativi di proporsi in un certo
modo o capiscono senza esporsi che non è il caso di proporsi in un certo modo,
e che prendono per esprimersi il linguaggio teorico del loro analista, così
come riescono a coglierlo nelle sedute e senza avere alcun bisogno di studiarlo
nei libri.
La paziente di Freud gli sta
dicendo soprattutto che il suo sogno è incompatibile con la sua teoria, che si
sente cucito addosso un abito che non è il suo, che non si sente affatto
compresa da Freud per ciò che veramente è: egli, come quel pittore che voleva
fare il ritratto al marito, forse crede realmente che lei sia interessante, ma
in realtà vorrebbe dipingere il sedere di qualche bella ragazza molto più
interessante di lei. L’amica ostenta attestati di stima e affetto, in realtà
vorrebbe essere invitata a pranzo e magari rubarle il marito, c’è da dubitare
che sia veramente interessata a lei; e il marito, sembra desiderarla moltissimo
… la mangerebbe a morsi la mangerebbe … ma è un peccato che si metta a dieta, dice
poi che gli piacciono le donne formose, ma poi non fa altro che interessarsi a
quella sua amica secca secca come una fettina di salmone affumicato.
Lei stessa dice di desiderare
tanto un panino al caviale, ma di non prenderla troppo alla lettera, perché se
le dai il caviale lei non lo vuole, ma cosa vuole allora una donna che ti ha
appena regalato un sogno, Sigmund? È possibile che voglia essere ascoltata
davvero e più attentamente, al di fuori degli schemi delle tue teorie e al di
fuori dei paludamenti con cui lei stessa ammanta il suo desiderio, un desiderio
che non è il caviale, che non è qualcosa di simboleggiato dal caviale, ma è
qualcosa che ha a che fare col fatto che vorrebbe essere presa davvero in
considerazione per ciò che è, amata così com’è … vorrebbe un uomo che le
regalasse un sogno.
"Eppure io credo che se ci
fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa
potremmo capire". (Federico Fellini, dal film La voce della luna, 1990).