lunedì 22 maggio 2017

CAPACI









Quello che ha rappresentato per me e per tanti come me che nel 1992 eravamo giovani l’operato di Falcone e di Borsellino è indicibile, ci ho provato a parlarne con amici siciliani, con quelli del nord in cui vivo o con altri stranieri che conoscono poco la situazione politica e sociale del nostro Paese; ci ho provato anche su questo blog e prima sul suo predecessore ne il Cannocchiale, aggredendo questa vicenda da diversi punti di vista, ma il risultato che ne ho ottenuto non mi ha soddisfatto.
Falcone e Borsellino hanno sfidato e vinto la mafia dei corleonesi, un’organizzazione criminale che all’epoca era la più potente al mondo, che ha sfidato lo Stato uccidendo magistrati, poliziotti, giornalisti, politici, un presidente di regione, un prefetto, gli stessi Falcone e Borsellino con una potenza di fuoco e con una spettacolarizzazione inauditi, un prete antimafia, ordito attentati con morti feriti e seri danneggiamenti a città e ad opere artistiche, e ne progettava uno che avrebbero mietuto molte vittime allo stadio Olimpico di Roma.
Di questa mafia resta ben poco, Totò Riina e Bernardo Provenzano sono stati arrestati, con loro molti esponenti di spicco della cupola e moltissimi picciotti, il dispositivo ideato da Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ha funzionato sia quando loro erano in vita, durante il famoso maxi-processo, sia dopo la loro morte, perché il sequestro dei beni, le intercettazioni, il carcere duro, l’uso sapiente dei pentiti, e la rotazione della Cassazione, hanno decimato le file di quella mafia, schiacciato la testa della serpe, disperso in latitanza ciò che ne rimaneva che potesse prenderne le redini (ad esempio Matteo Messina Denaro, che alcuni dicono addirittura voglia solo vivere in pace svincolandosi da ogni affare mafioso), impoverito enormemente il giro e la mole degli affari (oggi il traffico di droga e l’edilizia è passato in mano alla ‘ndrangheta, la mafia ha solo un ruolo molto marginale in questo, forse gli rimane solo il traffico di esseri umani che gravita sull’Isola), e indebolito l’enorme potere che si era venuto a creare quando al grande affare di Pizza Connection, il controllo mondiale della cocaina sudamericana e dell’eroina afghana, si è aggiunta la ferocia, la mancanza di scrupoli e il potere di fuoco dei corleonesi.
Non hanno sconfitto le mafie, organizzazioni criminali fioriscono e godono di ottima salute in tutto il nostro territorio nazionale, gestendo affari leciti e illeciti che erano impensabili ancora negli anni 90, oppure erano al loro esordio, come i crimini ecologici e lo smaltimento di rifiuti tossici; in diverse regione del sud poi il territorio è strettamente sotto il dominio della criminalità organizzata, creando di fatto uno Stato nello Stato, come una matrioska, in cui però ciò che è invisibile conta molto di più di ciò che è visibile, dove i funzionari della Stato sono spesso espressione della mafia o perché ne fanno parte integralmente o per concorso esterno o per acquiescenza, perché “con la mafia bisogna conviverci”.








Ma con la mafia non ci si convive, non ci si può fare una coppia di fatto, la mafia tende ad impadronirsi di ogni potere, non può condividerlo con nessuno, tende al dominio assoluto perché non tollera un potere che sia più forte del suo o solo pari al suo: quindi o diventi mafia anche tu o ti elimina.
Credo che la cosa peggiore per Falcone e Borsellino non sia stata quella di essere uccisi, e nemmeno di essere uccisi in quel modo barbaro, o l’inevitabile paura che ti attanaglia come una morsa quando sai con certezza che ormai sei solo un cadavere che cammina.
La cosa peggiore è stata l’amarezza e lo stato di cattività in cui sono stati costretti a vivere loro due e le loro famiglie, l’amarezza di non sapere di chi potersi fidare anche all’interno del pool antimafia, la cosiddetta stagione dei veleni nata per gettare fango su tutti e delegittimare il lavoro che si stava facendo, i tradimenti politici, l’incomprensione e le accuse che provenivano non solo dagli avversari, ma anche di chi avrebbe dovuto stare dalla loro parte, quelli di magistratura democratica o gli intellettuali peraltro integerrimi come Leonardo Sciascia, che li accusano di essere “protagonisti dell’antimafia”, e quella di non essere compresi nemmeno dai siciliani onesti, dai loro stessi concittadini, infastiditi persino dalle sirene delle macchine della scorta, spaventati dall’idea che potevano essere uccisi coinvolgendo anche ignari passanti, e di coloro che li consideravano degli illusi, anche dopo le condanne del maxi-processo.
E, allora non lo capivo, mi sono domandato perché l’avessero ucciso, lo confesso, comprendevo che la mafia potesse uccidere un magistrato, un poliziotto, un politico, un giornalista, un prete antimafia, ma non comprendevo come potesse uccidere un giovane che a Radio Out a Cinisi prendeva in giro ferocemente i boss locali in un programma chiamato Onda Pazza a Mafiopoli: il giovane si chiamava Peppino Impastato e il boss che scherniva e derideva chiamandolo “Tano Seduto” era Gaetano Badalamenti.



Omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Palermo vista dall'alto





Eppure di esempi che un mafioso teme il ridicolo e che per un “uomo d’onore” farsi sfottere impunemente era un’onta che non poteva accettare, perché lo scherno uccide più delle canne lisce della lupara, ne avevo avuti proprio davanti agli occhi; in un’occasione avevo visto il mafioso locale del mio Paese accettare di buon grado lo scherzo, la battuta, anzi ci aveva riso sopra anche lui, aveva scherzato anche lui su quelle parole, poi l’umorista era staro sparato al ginocchio qualche mese dopo (simbolico il ginocchio, non trovate?), per aver toccato qualche filo dell’onore di quel tizio che non avrebbe dovuto toccare, per aver osato toccare chi non doveva toccare (scherza con i fanti …) o perché facendolo si era messo alla pari col boss, anche se solo per un istante.
Non mi piacciono le pubbliche celebrazioni, meno che meno se sono istituzionali, e meno ancora se provengono dagli intellettuali contemporanei, che sono molto meno impegnati di quelli dei decenni precedenti, hanno perso ogni fiducia nel fatto che la parola possa cambiare il mondo, ma credono ciecamente che possa cambiare il loro conto in banca, il loro potere o possa offrire loro occasioni amorose che se fossero semplici impiegati del catasto sicuramente non avrebbero.
Il mio modo di ricordare quest’anno questi due uomini straordinari è stato quello di andare a vedere Sicilian Ghost Story, il film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, lo so, il titolo è orrendo, infatti esitavo ad andare per questo motivo, poi per fortuna ho cambiato idea.
Fa esplicito riferimento alla vicenda di Giuseppe Di Matteo, la più terribile fra quelle accadute in Sicilia in quel periodo di tempo, rapito dal gruppo di Giovanni Brusca quando non aveva ancora tredici anni, tenuto sotto sequestro per 779 giorni in varie prigioni nel trapanese e nell’agrigentino, allo scopo di ricattare il padre Santino Di Matteo, che in carcere stava collaborando con la giustizia.









Alla fine i rapitori, non avendo ottenuto il silenzio e la ritrattazione delle dichiarazioni fatte in precedenza dal padre del ragazzo, lo strangolarono come si strangola un capretto e disciolsero il suo corpo nell’acido.
Il film è fatto di suoni, musiche, rumori, che girano, ti avvolgono, ti allarmano, calano o si alzano all’improvviso, che non sai da dove arrivano e ti inquietano, ti tengono in perenne attesa di qualcosa che sta per succedere, è un film fatto di terra, di fango, di sottosuolo, di pietra dura o porosa, di foglie secche, di alberi e di rami, di intricate foreste, di versi di animali, di lame di luce che si sporgono dal buio, di una cappa tetra di tenebra che avvolge uomini e cose come una patina color seppia, che scurisce l’intera vicenda per tutta la durata del film e fa diventare lo stupendo Parco dei Nebrodi, le montagne, il paesaggio circostante, i paesi in quei dintorni e persino i templi di Selinunte, in cui pare che un Dio insensibile si sia divertito a lanciare una palla da bowling facendo crollare rovinosamente a terra tutti i birilli che uomini orgogliosi avevano eretto in suo onore, da cui si affaccia sul mare uno dei più splendidi panorami dell’intera Sicilia, una visione tetra, oscura, lunare.
Muschi, licheni, umidità, alghe minacciose, vento e pioggia che scroscia addosso come se volesse pulire, mondare, strapparti i vestiti e la pelle di dosso, acque che scivolano e che ti stringono in un abbraccio mortale, nitriti, battere di zoccoli, froge nervose di cavalli, grossi cani rabbiosi che appaiono all’improvviso e che vogliono aggredirti, uomini con vestiti rassicuranti ma con facce da incubo che ti promettono ciò che più desideri, mentre recano la morte nelle loro mani (il ragazzo fu rapito da mafiosi che si spacciarono per uomini della DIA, nelle cui mani lui sapeva fosse suo padre, il pentito Gaspare Spatuzza, che faceva parte del commando, nelle sue deposizioni disse: "Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. (...) Lui era felice, diceva 'Papà mio, amore mio' ").
Un film delirante, onirico, cupo e allucinante che oscilla fra un realismo spietato, feroce, orribile, visto con estrema rassegnazione o trasformandoci noi stessi in quell’incubo, o fra la fantasia, il sogno, il sospiro e la speranza; Luna, la ragazza protagonista è una sognatrice, e fantastica una storia d’amore fra lei e Giuseppe, il figlio del boss pentito, il figlio dell’infame.




Selinunte

Selinunte

Selinunte


Nemmeno lei ha compiuto tredici anni, eppure è già dura e determinata come una pietra, qualche traccia di dolcezza, di candore, di spensieratezza o della levità tipica dell’adolescenza la puoi solo indovinare, la cogli qui e la da quella breve schermaglia d’amore fra lei e Giuseppe, dalla lettera d’amore che gli scrive, da quel disegno di stelle con cui l’ha decorata, da alcune parole o sguardi che si scambiano, dalla farfalla che lui tiene sul dorso della mano, da qualche momento giocoso fra di loro … per il resto sembrano due adulti cinici e disincantati.
Dell’adolescenza i due protagonisti conservano i lineamenti dolci, ma non lo sguardo, che è già deciso, conservano il concetto dell’amore come qualcosa di assoluto, la testardaggine, il senso di protesta, ma anche questi modi e questi gesti sono connotati di violenza, come quando Luna e la sua amica schiaffeggiano e sbattono la testa sul banco al compagno che si era seduto nel posto vuoto di Giuseppe in classe.
Sono circondati dalle violenza e dalla ferocia, l’hanno assorbita fin da piccoli, la respirano e la credono normale: la ragazza non ha in apparenza alcuna reazione né quando vede il maiale appena ucciso appeso ad un gancio col sangue che cola in una bacinella, né quando assiste al coito bestiale di quei due nel casolare in cui era entrata insospettita.
Quando la realtà è orribile, fatta di aggressività e sopraffazione,  te ne crei una di fantasia che ti permetta di sopportarla, che ti dia speranza di cambiamento, che potrai migliorarla almeno un po’ da com'è, che potrai vivere ciò che sogni, avere ciò che desideri … arrivi a non saper più distinguere fra il vero e il falso, fra la realtà e il sogno, e tutto si intreccia come un grumo unico, che è la tua vita.
Ad un certo punto sembra quasi che un lieto fine possa essere possibile, che Luna guidata da sospetti, sensazioni e da premonizioni abbia trovato dove tengono nascosto Giuseppe, che riesca a liberarlo, che riescano a fuggire insieme e a nascondersi nello scafo di una barca sul lago … sembra, ma da molti segni ti accorgi che c’è qualcosa che non va, troppo semplice, troppo liscio, troppo fortunati, e lui poi, Giuseppe, non è il ragazzo sporco, deperito, con i capelli tagliati male da uno dei carcerieri che è diventato dopo molti giorni di prigionia, ma è come lei se lo ricordava l’ultima volta che l’aveva visto, perché lei che lo ama non riusciva a pensarlo se non così, quel Giuseppe che ormai esiste solo nella sua testa, e lei sta abbracciando l'aria e l’umidità del lago.

Selinunte

Selinunte




Non sempre il bene vince, non sempre l’amore predomina sull’odio, talvolta accadono cose terribili che avremmo fatto di tutto per poterle evitare, non sempre i cattivi muoiono o vengono puniti e gli eroi si salvano e predominano sul male, talvolta sono i buoni a morire e in modo atroce e i cattivi che godono, il mondo è ingiusto, crudele e senza senso, fino ad essere spietato, fino a far male, fino a pensare che non valga la pena vivere.
Ma quando una vita non si spegne, perché ha creato solidi legami d’affetto, perché ha lanciato segnali che non si possono ignorare, allora accade il miracolo, allora getta le sue gemme e rifiorisce, e rifiorisce il sorriso, il vento fra i capelli, l’onda del mare che ti lambisce i piedi, e la voglia di abbracciare e di essere abbracciato, che pensavi non sarebbe più tornata, e tornano ad illuminarsi come mai si erano visti nel film i templi di Selinunte e la sua spiaggia, che mostrano tutto il loro splendore e le cui colonne stanno ardimentosamente erette sfidando ogni catastrofe ed ogni tempesta.
Il film non è bello, è un pugno nello stomaco, che ti fa arretrare e sussultare, che ti fa perdere il respiro per tutta la sua durata … ho ripreso a respirare quando la musica finale ha iniziato a smorzarsi e stavo per avviarmi all’uscita per rivedere la luce.

Sentite cosa dice Roberto Scarpinato in un'intervista al Fatto Quotidiano.



mercoledì 17 maggio 2017

L'ANIMA BELLA 2









“Iperione a Bellarmino - L’uomo è un dio quando sogna, è un mendicante quando riflette. E quando l’entusiasmo è scomparso, egli rimane come un figlio sciagurato che il padre ha cacciato di casa, e osserva i miseri centesimi che la pietà gli ha procurato lungo il cammino”.
(Friedrich Hölderlin, Iperione, libro I, p. 24).








“Per Ilir, mio figlio perché sappia amare e s-vestire la bellezza, non solo la sua idea
Stretto è il mondo, e largo lo spirito
I pensieri si sfiorano leggermente
Ma le cose si urtano duramente nello spazio”.
(Friedrich Schiller, La morte di Wallenstein, II, 2, vv. 787-789).








Quando Katerina Ivanovna fa la sua apparizione (e non comparsa, perché compare un attore o un misero mortale, una dea appare) in tutto il suo splendore di ragazza ventenne, bellissima, colta, altera, dai modi raffinati, nel corso degli eventi di cui narra il romanzo, non esiste un ufficialetto, un giovane di nobili origini o dell’alta borghesia che non ne rimanga incantato, ciascuno gareggiava in galanteria e avrebbe fatto follie per un suo sguardo o per un suo sorriso.
Era in visita temporanea al padre, tenente colonnello comandante di un battaglione di linea in una località che non viene citata, e alla sorellastra, e proveniva da Mosca, dove studiava in un collegio aristocratico, per pulzelle di buona famiglia, e dove alloggiava presso una “generalessa” molto ricca e influente, loro lontana parente.
Si sarebbe dovuta fermare per poco tempo, ma non così poco che la sua permanenza non diventasse un autentico debutto in società: in suo onore si danno molte feste da ballo, conviti, ricevimenti e si organizzano picnic all’aperto, come era di moda allora.
Dmitrij Karamazov era un giovane tenente agli ordini del padre di Katja, il rigore e l’ordine che regnavano in caserma rappresentavano per lui quei limiti di cui il suo carattere straripante aveva bisogno, il fatto che incorresse fin troppo spesso nella disciplina marziale era una sfida continua all’autorità, un’autorità che Mitja non aveva mai conosciuto e che pur sfidandola era ben felice che ci fosse: per molti aspetti il rapporto fra lui e il suo comandante era un surrogato del rapporto paterno, che non aveva mai sperimentato o che era molto più tempestoso in quegli ultimi anni.
Il tenente colonnello, padre di Katja, è descritto come severo e testardo, spesso lo punisce per le sue intemperanze, e forse Mitja è intemperante (o fa si che le sue intemperanze giungano all’orecchio del suo superiore) proprio per sincerarsi di aver trovato un “padre” che si occupa di lui, ma nello stesso tempo gli riconosce di essere anche un uomo giusto, una “persona, molto buona, generosa e ospitale” (p. 155); non abbiamo elementi, invece, per capire se per il nostro tenente colonnello Mitjia potesse essere quel figlio maschio che non ha mai avuto.
Dmitrij Karamazov si innamora subito di Katerina Ivanovna, appena la vede, lo sappiamo perché è lui stesso a dircelo di essere innamorato follemente di lei, ma lo sappiamo anche ricavandolo da tutto ciò che fa dal momento in cui la incontra fino all’epilogo del romanzo, e dall’intensità con cui fin dall’inizio egli la ama e la odia.
Se si fosse trattato soltanto di un’infatuazione, c’è da credere che Mitja si sarebbe mostrato con lei, come al solito, spavaldo, insolente e sfacciato, l’avrebbe corteggiata temerariamente, si sarebbe fatto largo fra i suoi molti pretendenti con pose da smargiasso per farsi notare e per primeggiare, allo scopo di accaparrarsela tutta per sé.
Invece se ne sta altezzosamente in disparte, non sembra nemmeno intenzionato a conoscerla, la osserva a distanza con aria leziosa e quasi disinteressata, non smette di far baldoria, anche cose che fanno clamore per tutta la città, ma niente che possa coinvolgere anche lei; pare talmente intimidito o disincantato che anche quando si accorge che è lei a squadrarlo, lui evita di avvicinarvisi, come se disdegnasse di conoscerla.
In seguito, quando lui durante un ballo decide di attaccare discorso, ha l’impressione che lei lo degnasse: “appena di uno sguardo con un’espressione sprezzante sulle labbruzze” (p. 157); sembra quasi che Dmitrij sia incantato, paralizzato, folgorato da questa donna, che abbia paura di sbagliare e che l’errore possa essere irreparabile.








Ed è proprio perché si convince che non può e non deve sbagliare che colleziona errori su errori, e di questo sembra pure rendersene conto, ha compreso infatti che Katerina non è un’ingenua collegiale, ma una donna bella, altera, orgogliosa, virtuosa, intelligente, colta e dotata di un carattere forte, Dmitrij non aveva alcuna possibilità di far colpo su una donna simile a partire da ciò che si raccontava in giro di lui, dalle dicerie sulle sue “imprese”, dal suo comportamento prepotente e villano e dalla sua ostentata indifferenza verso di lei.
L’amore che egli prova si trasforma ben presto in odio, odio perché lei non sembra corrisponderlo, anzi non pare proprio accorgersi di lui, e odio perché si sente comunque catturato e vincolato da lei, intrappolato in una sofferenza senza fine e senza scopo, in una promessa di felicità che sai senza avvenire, ma che non puoi smettere di sperarci, odio verso se stesso che vorrebbe essere incurante e indifferente a lei, ma basta il più labile e involontario richiamo per pensarla e per volerla ancora…ancora…ancora …anche se sai che ogni tuo sforzo è vano.
Ha un bel dirsi Dmitrij Karamazov che non voleva farle una proposta di matrimonio, voleva solo vendicarsi del fatto che, nonostante lui fosse così in gamba (questo dice a suo fratello Aleksej), lei sembrava non accorgersene, il suo odio per Katja non deriva dalla presunta insensibilità emotiva di lei o dalla sua indifferenza per il fatto che lui sarebbe “in gamba”, al contrario, egli si sente una vera e propria nullità nei suoi confronti e la crede fin da subito irraggiungibile.
Questo spiega il suo atteggiamento sprezzante e passivo-aggressivo, la sua pseudo-indifferenza, il suo odio, la sua rivalsa, la sua voglia di vendetta e il moltiplicare chiassosamente i suoi bagordi, le gozzoviglie e i baccanali a tal limite che il tenente colonnello è costretto a metterlo agli arresti.
Questa insicurezza patologica di Dmitrij Karamazov ha una sua spiegazione eziologica che affonda le sue radici nella sua infanzia, sua madre Adelajda Ivanovna scappa di casa con un seminarista quando lui aveva appena tre anni, e anche prima il povero Mitja non deve aver ricevuto tante attenzioni o tanto affetto visto che la madre e il padre erano intenti a litigare furiosamente.
Il padre, Fēdor Pavlovič Karamazov, si disinteressa completamente di lui, tanto che il bambino gira scalzo per casa e nel giardino, indossa un paio di pantaloncini tenuti su da un solo bottone, nessuno si cura di lui, nessuno si accorge se mangia, se dorme, se si lava, nessuno si preoccupa per ciò che fa e nessuno deve avergli mai spiegato dov’è la sua mamma.
Quest’uomo, così scrive Dostoevskij: “…si disinteressò nella maniera più assoluta del bambino avuto da Adelaida Ivanovna, non per cattiveria nei confronti del bambino né in ragione di qualche risentimento coniugale, ma semplicemente perché lo aveva del tutto dimenticato”. (p. 15).
Più che amore Mitja ha suscitato pietà o indifferenza, la pietà ad esempio del giovane (allora) medico tedesco Gercentube, che impietositosi di lui gli regala una libbra di nocciole, e quella dei servi di casa Karamazov, Grigorij Vasil’evič e Marfa Ignat’evna che lo accolgono nella loro izba, la dépendance della servitù di casa Karamazov, di lui si occupò in un primo tempo (ottenendo l’affido del bambino) un cugino di Adelajda Pëtr Aleksandrovič Mjusov, che però si trasferì a Parigi per un lungo periodo e affidò Mitjia ad una sua zia di secondo grado, una nobildonna moscovita e, alla morte di questa, ad una delle sue figlie sposate. 
Non va molto meglio ai suoi due fratellastri, Ivan e Alekseij, figli di una madre diversa (Sof’ja Ivanovna) che Fēdor Pavlovič sposa in seconde nozze, questa donna, orfana, sposatasi troppo giovane e che già aveva in precedenza manifestato segni di squilibrio tentando una volta il suicidio, ben presto in casa Karamazov, sposa di un marito dal carattere poco edificante, manifestò tutti i segni di una malattia nervosa tipicamente femminile, caratterizzata da urla e da convulsioni, assimilabile alla nostra isteria, da essere appellata da tutti come la klikuša, che è il termine russo popolare che definisce le donne affette da questa patologia (da klik, strillo, grido).








La klikuša ebbe il primo figlio, Ivan, dopo solo un anno di matrimonio, e il secondo Alekseij, tre anni dopo, e morì quando il primo aveva sette anni e il secondo quattro, anche questi due orfanelli vengono completamente ignorati dal padre e finiscono prima nell'izba di Grigorij, poi sotto la tutela della generalessa che aveva adottato la loro madre Sonja e infine presso il premuroso Efim Petrovič, che si occupa di loro fino alla maggiore età.
La differenza fra di loro è che mentre Dmitrij ha sperimentato il vuoto affettivo, il nulla assoluto, oppure la lite furibonda in cui il padre e la madre si picchiano (in realtà sembra fosse più Adelajda a picchiare il marito), Ivan e Alekseij sono immersi nell’indifferenza paterna e nella follia materna, che urlava e si contorceva quando le venivano gli attacchi e si estraniava da sé fino a perdere la ragione, prima di venire in contatto col lutto e con la perdita della morte della madre.
La sicurezza di sé, la certezza di poter essere amato che ciascuno di noi si porta dietro, la capacità di creare rapporti di affetto con altre persone che siano reciprocamente soddisfacenti è un retaggio della nostra infanzia che proviene in buona parte dal tipo di rapporto che si instaura fra la madre e il bambino; in psicoanalisi questo rapporto, in linea con le ricerche di John Bowlby, si definisce attaccamento: un rapporto sicuro fra la madre e il bambino sviluppa un adulto sicuro di sé nella vita, nell’amore e nel rapporto con gli altri; un rapporto insicuro o disorganizzato produce adulti insicuri che tendono ad evitare o ad affrontare con una forte ambivalenza ogni situazione emotiva, o adulti disorganizzati incapaci di provare amore autentico e calore umano.
Chiunque, anche in età adulta, non abbia risolto adeguatamente il rapporto con la propria madre: chi la evita, chi la odia, chi prova sentimenti ambivalenti, chi non prova più niente o chi la ama esageratamente e ne è dipendente, non possiederà mai quella “base sicura” che gli deriva da un attaccamento sicuro, e non sarà mai davvero un bravo genitore, un buon amico, un buon partner, per quanto si sforzi di provarci, e sarà soggetto più di altri a psicopatologie più o meno severe, tanto quanto deficitario è il suo attaccamento con la madre.
Inoltre, la sicurezza di noi stessi, la sensazione di benessere e di equilibrio che possediamo deriva anche dal modello di rapporto dei nostri genitori, non tanto dagli eventuali disturbi (anche severi) di ciascuno di loro; è come se questo rapporto fra i nostri genitori rappresentasse per noi il modello su cui costruiamo il nostro benessere psichico e la nostra matrice relazionale con la quale iniziamo ad entrare in contatto col mondo.
È constatazione di tutti gli psicoterapeuti dello sviluppo che più piccolo è il bambino con disagio per cui vengono consultati e più probabile è che il motivo del disagio di questo bambino sia da rintracciare in una relazione disturbata fra i suoi genitori, per cui prendi in carico la famiglia o la coppia e, quando inizia a migliorare questa relazione, migliora anche il disagio del bambino.
Dmitrij Karamazov era sicuro di sé fino all’impertinenza quando si trovava di fronte a donne che non amava, ma quando finalmente ama, è in difficoltà estrema fino alla paralisi, fino ad essere pronto a trasformare l’amore in odio, fino a sbagliare tutto e perdere così ogni speranza, fino a commettere azioni abiette, meschine e miserabili.
L’occasione per cui ciò che in lui avrebbe potuto essere grandioso e generoso si trasformasse in grettezza e meschinità, in un’autentica mascalzonata, giunse ben presto a partire dalla situazione di estremo imbarazzo in cui venne a trovarsi il tenente colonnello padre di Katerina, ad una delle solite e programmate ispezione del comando, pare che gli ispettori avessero trovato un ammanco dalla cassa del reggimento di quattromila e cinquecento rubli, una somma considerevole, ammanco che l’ufficiale non riusciva a giustificare.
Accadeva, infatti, frequentemente da qualche anno a questa parte che il tenente colonnello, subito dopo ogni ispezione, prelevasse l’intera somma dalla cassa del reggimento e la consegnasse in mano al mercante Tifonov, suo conoscente e in questo caso complice, il quale la investiva, faceva i suoi affari, e poi riconsegnava intatta l’itera somma più gli interessi ed anche qualche regalo al tenente colonnello.








Forse aizzato dai nemici del padre di Katerina, forse per avidità, quella volta Trifonov non riportò indietro al colonnello alcuna somma e, quando questi andò a trovarlo di persona, negò addirittura di aver ricevuto da lui alcunché; il colonnello era semplicemente rovinato: non poteva denunciarlo perché quella somma non sarebbe mai dovuta uscire dalla cassaforte né essere destinata ad altri usi se non a coprire le spese del battaglione che comandava, non poteva richiederla con la forza, perché si trattava di un povero vecchio contro un mercante, i suoi garzoni e forse anche i nemici del colonnello suoi complici, e non era facile trovare chi gli prestasse una tale somma senza alcuna garanzia, perché il colonnello difficilmente avrebbe potuto saldare un tale debito col suo stipendio.
Se non pareggiava i conti come gli era stato intimato dagli ispettori, rischiava di essere degradato, radiato dall’esercito con disonore e di trovarsi in mezzo ad una strada in miseria e con due figlie femmine in età da marito per di più; per un militare non rimaneva che una soluzione: il suicidio, e infatti provò a farsi saltare la testa usando il suo vecchio fucile da caccia a due canne, facendo in modo di premere il grilletto col dito del piede, ma venne fermato fortunatamente dalla figlia maggiore Agraf’ja Ivanovna, sorella di Katja.
Proprio in quel periodo Dmitrij aveva ricevuto da suo padre, a saldo del debito che quest’ultimo aveva col figlio per non avergli corrisposto ciò che gli spettava dell’eredità materna, seimila rubli; se solo avesse voluto Mitja avrebbe potuto fare il grande gesto di presentarsi dal tenente colonnello suo superiore e offrirgli in prestito la somma che gli occorreva per pareggiare i conti con la cassa del suo battaglione e per salvare il posto e l’onore.
Questo gesto di estrema generosità, fatto senza alcuna garanzia, gli avrebbe certamente assicurato la gratitudine a vita del suo superiore e delle figlie di lui, soprattutto quella a cui ambiva di più, quella di Katja che, in un secondo momento avrebbe anche potuto chiedere in sposa incontrando poche difficoltà a realizzare questo suo desiderio.
Ma Mitja non può compiere questo nobile gesto, perché se lo facesse e anche se tutto si realizzasse secondo il suo volere, gli rimarrebbe eternamente il dubbio che Katerina lo avesse sposato più per gratitudine che per amore, un dubbio atroce che si porterebbe dietro per tutta la vita e che lo avrebbe certamente tormentato.
Non trovando vie d’accesso di sicura affidabilità per manifestare il suo amore e, soprattutto, per avere garanzie certe di essere amato, non vede altra soluzione che l’odio e la vendetta, una vendetta inizialmente stupida e puerile, meschina, un gesto da mascalzone o da disperato, tanto per rendersi ancora più abietto agli occhi della donna che ama e dei familiari di lei, ma di cui sia egli, sia Katja, sia chiunque altro ne ignorano il devastante potenziale di deflagrazione che li perderà tutti quanti.
Nella sua tetragona stupidità Dmitrij Fedorovic Karamazov va in visita della sorella di Katerina, Agraf’ja Ivanovna con la quale era amico e comincia ad accennare ai problemi del padre di lei, e più questa trasalisce e nicchia, più lui gioca al gatto col topo e sadicamente si diverte, fino all’affondo finale in cui lui le dice di avere l’intera somma a disposizione, che potrebbe gentilmente elargire purché sia la “collegiale” in persona a venirla a ritirare nei suoi alloggi, Agraf’ja ovviamente reagisce dandogli del mascalzone e cacciandolo di casa.
Forse oggigiorno bisogna spendere qualche parola per far comprendere quanto fossero oltraggianti per Katerina e per la sua famiglia le parole di Mitja, se il colonnello fosse stato più giovane o una delle sorelle fidanzata egli avrebbe rischiato di risponderne in duello.
Le giovani damigelle in età da marito di quell’epoca tenevano un contegno pubblico oltremodo decoroso, la virtù era la loro dote di maggior pregio e molte di esse giungevano vergini e quasi inesperte all’altare; si creavano infinite occasioni per incontrarsi con i rappresentanti del sesso maschile, fra balli, ricevimenti, incontri en plein air, passeggiate, picnic,…, ma potevano anche ricevere visite in casa propria, certo visite approvate dalla famiglia beninteso, e ritirarsi in un salottino a parlare privatamente con l’ospite, visite in un certo senso monitorare, anche se fa sorridere l’atteggiamento della signora Chochlakova che origlia dietro la porta della figlia.








In nessun caso, pena la perdita dell’onore e della virtù per una fanciulla, era permesso rimanere da sole con un uomo dietro una porta chiusa a chiave e men che meno andare a far visita ad un uomo da sole in casa sua: era questo che Mitja stava chiedendo a Katja, cioè di porre la sua virtù e il suo onore nelle sue mani e, implicitamente, di mettere anche il suo corpo per intero a sua disposizione.
Anche se Mitja assicura che terrà devotamente il segreto di quella visita, è pur sempre la parola di un mascalzone, di un farabutto, di un uomo senza onore che ricatta una povera ragazza in un momento così drammatico per lei; ed anche ammesso e non concesso che egli avesse tenuto il segreto e che non se ne sarebbe vantato con nessuno, rimaneva sempre Katerina da sola di fronte alla propria coscienza per essersi assoggettata ad un così vile ricatto e per essersi concessa ad un uomo spregevole … da quel momento in poi non sarebbe stata serena e capace di avere una vita normale sapendo di essere in colpa.
Quando ormai a Dmitij sembrava che la sua provocazione non avesse sortito alcun effetto se non quello di suscitare l’inimicizia, l’odio e il disprezzo imperituro della donna che ama e della sua famiglia, anche se, a dire il vero, non c’era mai staro un momento in cui egli aveva creduto davvero che Katerina potesse cedere al suo ricatto, in un pomeriggio verso l’imbrunire, mentre si era appena vestito e profumato per uscire, vide apparire alla sua porta la donna che amava.
I suoi occhi scurissimi erano fieri e dardeggianti, il suo atteggiamento era sollecito e sbrigativo come chi è venuto a concludere un affare o a pagare una cambiale, sembrava il gatto in trappola quando non ha più vie di fuga e si prepara ad attaccare, era persino insolente, solo sulle labbra Mitja scorge la sua indecisione, la sua circospezione, la sua paura.
Dopo l’iniziale voce rotta dall’emozione, si fa sempre più sicura, anche se pare avere troppa fretta e troppa voglia di andarsene, e riesce ad esplicitare chiaramente i motivi per cui è venuta: vuole i soldi ed venuta a prenderli, sottintendendo che è disposta a concedergli ciò che lui le chiederà … tutto ciò viene detto all’ancora sbalordito Mitja con una stranissima commistione di insolenza, sbrigatività, pragmatismo, timore estremo, inquietudine e un irrefrenabile tremito che le incrinò la voce e le mozzò il respirò.
Dmitrij non regge a tutto questo, avverte la grandezza e la sublime generosità di questa ragazza disposta ad immolare se stessa pur di salvare l’onore (e la vita) del padre, avverte anche il dislivello fra questa grandezza e la bassezza che egli ha dimostrato con quella proposta, si sente un verme nei confronti di lei, una tarantola, un insetto velenoso, una cimice, un mascalzone…ma quanti secondi puoi stare nei panni di un mascalzone? Pochi, pochissimi, soprattutto se mascalzone lo sei per davvero.
E poi c’era quella cosa che lo tormentava più di tutte, lei Katja se n’era accorta, glielo aveva letto nel lampeggiare dei suoi occhi quando lui le aveva aperto la porta e si era reso conto che fosse Katja la donna di fronte a lui, c’era un infinito disprezzo nei suoi occhi, come chi si trovasse di fronte ad una donna da strada, di più, come chi avesse appena scoperto che la donna che riteneva virtuosa fosse in realtà una puttana, era come se avesse realizzato all’istante che Katja era li solo per i soldi, e che per averli e salvare la sua famiglia si sarebbe offerta a chiunque, sarebbe andata ovunque.
Se Mitjia già non sopportava l’ombra che l’amore di lei potesse essere sporcato dal dubbio della gratitudine, figuriamoci se poteva sopportare l’idea di amare una donna che in quel momento si sarebbe concessa a chiunque, una donna che era li sono per quegli stramaledettissimi soldi.
Il veleno della tarantola che credeva di essere cercava uno sfogo verso l’esterno, tutto il suo essere, fibra per fibra invocava vendetta, lei era li davanti a lui, tremante, ansante, indifesa, completamente nelle sue mani, forse la ferita che lei gli arrecava si sarebbe placata se l’avesse posseduta, se ne avesse fatto ciò che ne avesse voluto…poi magari il giorno dopo sarebbe andato a chiedere la sua mano, non era poi un uomo così abietto, conservava ancora un certo senso dell’onore.









Ma fu proprio mentre si vedeva proiettato verso casa sua a chiederla in sposa che si raggelò di nuovo, quella era donna così orgogliosa e altera da rifiutarsi persino di riceverlo, l’avrebbe fatto cacciare di casa dai domestici, come si fa con gli importuni o con gli indesiderati e avrebbe riso anche della possibilità che lui potesse vantarsi di quella notte.
Ora Dmitrij grondava solo odio e perfidia, possederla era fin troppo poco, no, ora era più forte la voglia di irriderla, di umiliarla, di una vendetta allo stato puro, una vendetta di una bassezza infinita, in stile Karamazov, ora fra lui e suo padre Fēdor Pavlovič non c’era alcuna differenza, immaginò intonando il suo discorso imitando la voce di un mercante di bassa lega di risponderle: ”Ah, quei quattromila rubli! Ma io stavo scherzando, che cosa dite? Siete stata troppo credulona, signorina. Un duecento rubletti, quelli si, con piacere, volentieri, ma quattromila, quella non è una cifra da buttar via con tanta leggerezza, signorina. Vi siete data disturbo inutilmente” (p. 161).
Ma Dmitrij non è così, non è come suo padre anche se ha pensato queste cose, non è così gretto e meschino, è un uomo generoso invece, che solo per divertirsi lancia i suoi soldi come se fossero coriandoli, figuriamoci se poi servono alla donna che ama, avrebbe dato il suo cuore e il suo sangue senza che lei nemmeno glieli avesse chiesti, no, a dominarlo ora è l’odio, l’odio allo stato puro: “…l’odio che dista dall’amore, dall’amore più folle, di un solo capello” (p. 162).
Si avvicinò alla finestra, appoggiò la sua fronte sul vetro ghiacciato e la sentì bruciare come se fosse fuoco … cosa cercava, quel contatto fisico con lei che non c’era stato,  e che forse non ci sarebbe mai più stato? … Di azzerare i suoi pensieri, di non pensare più a niente? … Era forse un ultimo saluto prima di sparire per sempre lontano da lei, non come se lei non ci fosse più, ma come se non ci fosse mai stata? … poggiava sul vetro perché non avrebbe avuto alcun senso abbracciare lei: ti congedi con un abbraccio o con un bacio da chi hai accolto con un abbraccio o con un bacio, ma se il bacio e l’abbraccio non sono mai accaduti, anche l’ultimo saluto deve rimanere simbolico e non invadere l’ambito del reale.
Il tempo gli sembrò infinito, a tal punto si era smarrito, ma erano passati solo pochi istanti, si scosse e senza esitare andò sulla scrivania, aprì il cassetto e tirò fuori un titolo al portatore del valore di cinquemila rubli, lo mostrò a lei senza aggiungere alcuna parola, lo piegò e lo pose nelle sue mani, poi la accompagnò alla porta e prima di aprire per congedarla fece qualche passo indietro e le porse il più rispettoso e il più devoto degli inchini.
Katja trasalì tutta, era bianca come un lenzuolo, lo fissò anch’ella per un istante e poi nel silenzio più assoluto, con grazia infinita, si prostrò ai suoi piedi in un inchino dolce profondo, quieto, fino a toccare terra con la fronte (allo stesso modo in cui egli si era abbandonato poco prima con la sua fronte al vetro gelido della finestra); non si trattava dell’inchino che insegnano in collegio, era un inchino spontaneo, alla russa, come quello che Odette, la fanciulla cigno, fa rivolta verso il pubblico nelle battute finali del Lago dei Cigni di Tchaikovsky.
Quando se ne fu andata Dmitrij estrasse la sua spada e il suo primo impulso fu quello di tagliarsi la gola, poi invece se la avvicinò alle labbra e la baciò prima di riporla nel fodero…per entusiasmo ci si può uccidere e si può amare, ma cosa nascondeva Mitjia dietro la parola “entusiasmo”? Di certo è che quella sera ciò che era accaduto fra loro due fu qualcosa che lega due persone per tutta la vita, come quando incontri per la tua strada una donna fatale da cui non hai scampo, una che cambierà per sempre la tua vita, una donna senza ritorno.
Una che non puoi soltanto amare, ma non puoi semplicemente odiare, una che non puoi dimenticare, una per cui non è stato ancora forgiato il chiodo con cui poterla scacciare, per quanto cerchi distrazioni e consolazioni altrove, per quanto ti sforzi di non pensarci, basta un lieve, involontario e del tutto innocuo richiamo, un’assonanza, un’associazione, una lontanissima somiglianza, perché ti venga nuovamente voglia di lei, perché è una donna che è poesia e fa rima ormai con tutto e non può più uscire dalle spire della tenerezza con cui l’ha circondata.
Pur odiandosi ormai a morte entrambi, perché Katjia era rimasta sbalordita certamente dal nobile gesto e dalla generosità di Dmitrij, ma è pur sempre vero che egli aveva preteso il suo disonore per darle quei soldi e il disonore non è solo andare a letto con un uomo, ma essere li disposta a farlo; inoltre, cosa ben più grave, era persino peggio che lui le avesse dato solo i soldi e l’avesse congedata, una donna che si dispone mentalmente ad avere un rapporto con un uomo ha dei dubbi se questo poi non accade perché è l’uomo che non vuole. 








Katerina Ivanovna non poteva dimenticare come l’avevano accolta gli occhi di Mitja quando lei era ancora sulla porta, quanto disprezzo ci aveva letto dentro, quanto questo disprezzo era stato profondo da essere disgustato persino di toccarla, e provava vergogna per se stessa, e si disprezzava anche lei certamente, e non poteva non odiare lui almeno tanto quanto lui odiava lei e se stesso.
Katerina e Dmitrij non lo sapevano ancora ma ciò che era accaduto fra di loro quella sera li avrebbe legati per sempre come un autentico cingulum diaboli: un legame cioè che da li in poi avrebbe permesso che entrambi si amassero e si odiassero a morte, qualsiasi cosa sarebbe successa, anche se si fossero separati, anche se si fossero tenuti distanti, anche se uno di loro due fosse morto.