lunedì 18 novembre 2019

APRÈS NOUS, LE DÉLUGE!








“Questo xe un Corpo, i Membri del qual, tratti da vili Ceti, no i ha avudo alcuna Educazion. Pieni de miseria e de fame no i serve, e i magna. Cossa gali [che cos’hanno] de Salario? Poco. Cossa fali [che cosa fanno]? Niente. Come vìveli [come vivono]? Da gran Signori”.

(Carlo Contarini, Discorso del 5 dicembre 1779 al Maggior Consiglio, cit. da Alvise Zorzi, La Repubblica del Leone. Storia di Venezia, p. 466).









Cecilia Zen Tron attraversò come una nuvola, un raggio di sole, un fascio di luce, un sorriso, un vento di primavera quello scorcio di tempo fra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo in cui visse; nata in una delle famiglie patrizie più antiche di Venezia, fu costretta a soli 17 anni a sposare Francesco Tron, di casato più recente (quelle famiglie che i veneziani chiamavano delle Case Nuove), ma molto più ricco e potente, tanto che il fratello di Francesco, Andrea, era soprannominato “el paròn” (il padrone), e raggiunse la carica elettiva di procuratore di San Marco de citra, seconda solo a quella di doge, e sarebbe anche diventato doge se non avesse sposato Caterina Dolfin, una donna colta e libera che col suo stile di vita creava scandalo.
Cecilia era bella, colta, ribelle, instancabile, curiosa, intrigante, capricciosa, stravagante, priva di scrupoli, sessualmente libera ed emotivamente disinvolta, complice, forse, in quest’ultimo caso i 33 anni di differenza che correvano fra lei e il marito, ma anche una sorta di doceur de vivre e un'aria protofemminista che si respirava soprattutto a Venezia fra le donne di un certo ceto sociale.
Era solita cavalcare come un fantino, a califourchon (a cavalcioni, cioè) e non all’amazzone, come ogni donna di rispetto che volesse rientrare nei canoni della costumatezza del suo secolo e mantenere il decoro avrebbe dovuto fare; tirava bene di scherma, era talentuosa nel suonare il clavicembalo, ballava come un’ossessa, le piaceva mascherarsi e di solito indossava abiti maschili, era un’eccellente padrona di casa e nei suoi salotti e in occasione di ricevimenti, intratteneva piacevolmente uomini eruditi e personaggi di spicco dell’alta nobiltà europea.
 Il drammaturgo Carlo Gozzi la inserisce nel novero delle “filosofesse”, insieme a Luisa Bergalli, Elisabetta Caminer, Giosefa Comoldi Caminer, Caterina, Marina e Contarina Sagredo, Marina Querini Benzon, la famosa “biondina in gondoeta”, Elisabetta Maffetti la “Dandula” (moglie dell'anziano Antonio Dandolo), Isabella Teotochi Albrizzi e la cognata Caterina Dolfin Tron (era stata per lungo tempo prima l’amante poi la moglie del potentissimo Andrea Tron, fratello di Francesco).

Tutte costoro, insieme ad altre “compagne”, erano le esponenti di punta di un rinnovamento della vetusta società italica, legata ancora agli usi e costumi dell’ancient regime, e peroravano la causa e i valori che l’illuminismo, l’esprit français e l’encyclopédie stavano veicolando da anni nel mondo occidentale; erano tutte colte e galanti, tenevano raffinati salotti culturali, erano impegnate in prima linea, esse stesse poetesse, giornaliste, drammaturghe, traduttrici, praticavano una spregiudicatezza intellettuale e politica a cui spesso seguiva anche una spregiudicatezza nei costumi, insolita per quell’epoca.










Per il nostro commediografo, Carlo Gozzi, che avversava anche le novità teatrali che stava inserendo Carlo Goldoni, evidentemente bastava che una donna sapesse pensare per diventare una filosofessa, ma il termine è ironico e dispregiativo, assomiglia a quel proverbio secondo cui manca la pace se la gallina canta e il gallo tace; egli, come già molti autori comici di tutti i tempi, utilizza la sua riprovazione morale per colpire i vizi degli altri, in modo da non vedere i propri, o per punzecchiare i vizi di un’intera società, illudendosi di esserne esente.
Ma di certo è vero che man mano che Venezia perde l’orgoglio della sua forza, della sua potenza, della sua libertà e dell’indipendenza, man mano che si fiaccano le forze e il coraggio maschili, fino a prospettare e ad attuare una disastrosa “neutralità disarmata” davanti alle truppe prevaricatrici del generale Napoleone Bonaparte, risorgevano l’orgoglio, la forza e il coraggio femminili: infatti gli unici personaggi italici degni di nota in quel periodo sono donne, se si eccettuano gli avventurieri come Cagliostro e Casanova.
E del sedicente conte di Cagliostro, d’altra parte, la nostra  bella Cecilia era stata anche amante, almeno finché il conte non dovette scapp … assentarsi improvvisamente perché sul suo capo pendeva l’accusa di furto su denuncia di un ricco mercante veneziano.
Ebbe molti altri amanti e un secondo marito alla morte del primo, un tale cavalier servente Giorgio Ricchi (dell’antica casata dei Ricchi & Poveri), che non osò mai limitare la sua libertà di manovra né discutere sulla sua emancipazione femminile, come già era avvenuto col primo marito Francesco, che giunge a farsi redarguire severamente dagli Inquisitori di Stato: “a contenere la dama sua moglie nei limiti di una decente moderazione”, e si limita a punirla col suo indignato silenzio invece di strigliarla a dovere o a prorompere un un’omerica risata.

Era accaduto, infatti, che Cecilia, in un colpo di testa dei suoi, a trentotto anni, vestita da uomo, raggiunge e precede, cavalcando a spron battuto sul Terraglio (tratto iniziale della SS13 “Pontebbana” che collega Venezia con Treviso), il corteo proveniente da Treviso che scortava l’imperatore Leopoldo II e la regina di Napoli e i granduchi di Toscana, facendosi notare, e pare pure apprezzare, dagli ospiti, ma non dai burberi funzionari della Repubblica, per i quali il contegno di una nobildonna avrebbe dovuto essere “serenissimo”.









“Grato scarpel su questo marmo incidi / Il fausto dì quando a' miei Lari apparse / Colei che Diva de gli Adriaci lidi / Chiara fama di sé nel mondo sparse”. Scrivi qual di virtù, di grazie io vidi/ D’ingegno, di saper luce spiegarse; / E quanta a me di puri sensi e fidi / subita fiamma inestinguibil’arse. / Scrivi che, se da gli occhi miei fu pronta / Gli alti pregi a rapir, pur mi consola/ Dolce speranza che al partir mi diede. / Ma, se poi le promesse il vento invola/ D’Adria pel mar, taci i miei danni; e l’onta / Non eternar de la mancata fede”. (Parini, Sonetto XVI, Per Cecilia Tron Veneziana).
Inizia con questi versi l’idillio fra la trentaseienne Cecilia Zen Tron e il cinquantottenne Giuseppe Parini, sembra si fossero incontrati tre volte appena, a Milano in Casa Serbelloni (Mazzanti Viendalmare), che Parini frequentava come letterato-ospite, pare senza alcun incarico preciso, mentre la Tron la frequentava perché il marito Francesco era podestà a Brescia.
Come sia andata la vicenda mi pare chiaro ed è deducibile dai suoi versi, la donna, dopo “la dolce speranza che al partir mi diede”, parse non interessarsi oltre al nostro letterato abate e non mostrò ricordo della fede che il cuor suo in lei riponeva, né delle promesse d’amore fattegli, che il vento invola così come Bruno e Buffalmacco involarono un porco a Calandrino (Decameron, Ottava giornata, VI).
Cosa fece frullare le eliche dell’abito (avete presente quella specie di bargigli bianchi che pendevano dal collo dell’abito nero di un abate dell’epoca dei lumi?) del nostro attempato abate è egli stesso a dircelo in un’ode (Il pericolo), in cui lamenta come l’età e l’esperienza non servono a niente contro gli occhi fulgidi, gli incliti pregi, il lungo crin, le volubili grazie, le palladiane membra, i guardi cupidi, l’almo aspetto divin, il vago labro e di rara fecondia, i lampi scoppiettanti dalla sua poetica face, l’altre terribili arme della beltà, a come la candida mano porgea nel dir, a come il cubito molle posava uguale a gigli e rose.

Ma soprattutto era quel seno, il mobil seno e nudo braccio, il seno palpitante mentre cantava sotto a la percossa cetera, quel bel niveo petto, che sembrava non voler entrare nei morbidi veli della donna a cui era destinato (pare che Cecilia amasse mostrare le coppe del suo bel seno ad ogni occasione propizia, quasi come fossero bambine dispettose che sfuggivano al suo controllo, godendo certamente dell’impatto che producevano nel suo interlocutore), a costituire per il poeta il più grave pericolo.









Ancora peggio va ad un ignoto professore dell’Università di Padova, a cui scrive una lettera la cui intestazione inizia con: “Carissimo e asinissimo …”, e che conclude con i seguenti saluti: “Vostra? Mai! Cecilia Tron”; la bellezza è il suo punto forte, anche quando questa, con l’età, si offusca e le presenta il conto delle prime rughe, che ella tenta di nascondere con un pesante e costoso trucco, ad un gondoliere che vedendola così mascherata, sotto pesanti strati di fondotinta, voleva motteggiarla dicendole: “Che bela ciera che la ga, Celenza” (dove cera poteva significare tanto aspetto quanto strati di cera), replicò: “Lo so, sior macaco, ma la me costa!”.
Quando nel 1787 il doge Ludovico Manin e il Maggior Consiglio vennero costretti, senza colpo ferire, da Napoleone ad abdicare, per proclamare il "Governo Provvisorio della Municipalità di Venezia" e la Serenissima Repubblica di Venezia cessò di esistere dopo oltre 1000 anni di indipendenza, Cecilia, coerente con le letture dei filosofi dei lumi e col suo carattere esplosivo e proiettato nel futuro, si palesa come francofila e giacobina.
Nel settembre di quell’anno diede una gran festa democratica nel suo palazzo (Ca' Tron, nel sestiere di Santa Croce) sul Canal Grande, e andò personalmente a Mestre a ricevere Joséphine di Beauharnais, moglie del generale Napoleone (lui non era presente, mise piede a Venezia solo qualche anno più tardi) e l’accompagnò in gondola cantandole la canzone “la biondina in gondoeta” di Antonio Lamberti e di Simone Mayr.
Non conosciamo quanto grande fu la sua delusione quando nell’ottobre dello stesso anno il generale francese dichiarò ufficialmente decaduta la “Municipalità di Venezia” e, col Trattato di Campoformio cedette all’Austria Venezia, il Veneto, l’Istria, la Dalmazia e le Bocche di Cattaro (in sostanza gran parte degli ex territori della Serenissima), che andarono a formare la “Provincia veneta” dell’Impero Asburgico.
Né quale fu la sua reazione quando il Bonaparte si ripresentò in città, dopo aver siglato la pace di Presburgo in seguito alla folgorante vittoria sugli austriaci ad Austerlitz, stavolta in veste di imperatore e di predone, visto che depredò i palazzi della città di molti tesori artistici (tutti quelli che gli piacquero e che poteva trasportare in Francia, compresi i cavalli in bronzo che stavano sul loggiato della Basilica di San Marco, che impacchettò e gli fece prendere la via per Parigi, dove avrebbero fatto bella mostra nell'arco di Trionfo del Carrousel per celebrare i suoi trionfi sui campi di battaglia di tutta l’Europa).

Ma l’evento per cui Cecilia Zen Tron è rimasta celebre, quello che le comari veneziane andavano mormorando per calli, campielli e sestieri, e che l’ha consegnata alla storia del gossip fino ai nostri giorni avviene durante il carnevale del 1782; in quell’occasione i suoi parenti e alcuni primati della città cercarono di convincerla a cedere il suo sontuoso palco in occasione di un importante spettacolo al teatro San Beneto (il predecessore della Fenice, a quell’epoca il più prestigioso teatro in città) allo zarevič Paolo Petrowitz, figlio di Caterina II, e a sua moglie Maria Teodorowna, in visita ufficiale a Venezia.









Ora, per una donna mondana ed esuberante come lei era molto gravoso cedere il suo palco a teatro e in un’occasione del genere poi, non tanto per lo spettacolo, perché al ceto sociale al potere non interessa spettacolo alcuno, credono di essere loro stessi lo spettacolo; questo punto l’ha colto magistralmente Gustav Klimt, quando nel 1888 dipinse L’interno del vecchio Burgtheater, conservato nell'Historisches Museum der Stadt Wien a Vienna.
Nel dipinto Klimt ribalta la prospettiva, invece di focalizzarsi sulla scena, sugli attori, sullo spettacolo, rivolge il suo pennello con un realismo estremo ai palchi, alla platea, alla galleria, alle lampade, al soffitto decorato sobriamente, ma soprattutto sono rese in tutta evidenza le persone presenti, con la collocazione spaziale a loro assegnata e gli abiti che indossano che ne denotano la condizione sociale, l’atmosfera briosa ed elegante che aleggia nell’aria e quell’aria di festa mondana che ci fa quasi sentire il loro vocio e la stessa musica proveniente dal golfo mistico dei musicisti che non vediamo che accordano i loro strumenti.
I personaggi più di spicco sono tutti ben delineati, dalla targa sul palco in cui è possibile leggere i loro nomi, fino al riconoscere i personaggi più importanti presenti nella scena: all’estrema sinistra del dipinto, sul  palco imperiale è possibile scorgere l’imperatore Francesco Giuseppe in piedi accanto alla consorte Elisabetta (la famosa Sissi), seduta a suo fianco, mentre in platea in terza fila accanto al corridoio la donna seduta in abito bianco è quasi sicuramente l’attrice Katharina Schratt, amante dell’imperatore.
Non volendo cedere il proprio palco e non potendo ragionevolmente sottrarsi alle pressioni che tutti le facevano in proposito, perché infatti il suo era l’unico palco sufficientemente grande e il più sontuoso per ospitare i “conti del Nord” (così si faceva chiamare la coppia di aspiranti al trono di Russia), Cecilia piccata e contrariata si rassegna a cederlo, anzi a darlo in affitto al prezzo esorbitante di 80 zecchini d’oro (no Pinocchio non c’era, e nemmeno il Gatto e la Volpe si sono visti), con una cifra così elevata avrebbe potuto prendere in affitto l’intero teatro per tutta la stagione.
Naturalmente non furono i granduchi a pagare l’esosa cifra, ma la cittadinanza tutta che li aveva invitati, d’altronde la loro era una visita ufficiale, non potevi certo presentare loro il conto come se fossero dei turisti giapponesi qualsiasi.










Scandalo, indignazione, proteste non si fecero attendere, ma più di tutte prevalse la linea del sarcasmo, un ignoto Pasquino veneziano (che nella città lagunare è impersonato di solito dal “gobbo di Rialto”, che sta sulla piazza di fronte alla Chiesa di San Giacometto, oppure dal sior Antonio Rioba, il più famoso dei mori dell’omonimo campo di Cannaregio, fece circolare il seguente epigramma satirico: “Brava la Trona / La vende el palco / Più caro de la mona”.
Pare che la nostra gentildonna, quando venne a conoscenza della bella strofe che qualcuno le aveva dedicato, non si infuriò, non si arrabbiò, non si scompose, non mosse un capello dal suo posto, ma con molta arguzia replicò all’anonimo libellista che: “La Trona / la mona / la dona”.
 Mi è venuto in mente questo aneddoto quando ho visto Venezia invasa dalle acque solo qualche giorno fa e quando ho saputo delle morti e dei disastri che la marea eccezionale aveva causato, ho pensato che esso contiene lo spirito di Venezia tutta, che di fronte alla necessità si vende ad un prezzo esorbitante e si trasforma quasi in una Disneyland di lusso, ma di fronte al ridicolo trae fuori il meglio di sé, il suo spirito, la sua arguzia, l’incapacità di cedere alla rassegnazione, il suo spirito di rivalsa.
Certamente affranta per il disastro, costernata, dispiaciuta per aver perso molto, per i danni subiti, per la ferita infertale, forse persino consapevole che i danni maggiori non sono i forni di Murano distrutti, le case invase dall’acqua, le suppellettili dei negozi rovinate, la merce perduta, i giorni in cui le attività sono costrette a tenere chiuse le saracinesche, con relativo danno economico, non la paura (perché vi assicuro che l’onda di piena in seguito alla mareggiata faceva paura, come faceva paura il cielo in tempesta, sembrava di essere diventati i vicini di Noè, nel momento in cui si aprono le cataratte del cielo e tutta l’acqua dell’universo sembra rovesciarsi sopra di loro, mentre Noè è già salpato).

Ma anche talmente vanitosa da godere di quello spettacolo straordinario che la metteva ancora una volta sotto i riflettori del mondo, non c’era un notiziario che non parlasse della mareggiata di Venezia, da Rawalpindi a Kathmandu hanno tralasciato di discutere delle loro faccende, anche piuttosto importanti, per vedere i veneziani immersi fino al torace nell’acqua della laguna.









E siccome la vanità propria attrae la vanità altrui, tutti i vanitosi, gli esibizionisti del mondo, sono venuti a mostrarsi a Venezia, il turismo invece di diminuire i suoi flussi è aumentato, non era raro vedere a poche ore dal disastro gente che cercava di documentare in ogni modo l’evento eccezionale, per poter dire: “Io c’ero”, o chi si buttava in acqua a torso nudo, e che acqua era quella lo potete immaginare anche solo avendola vista dai notiziari, più melma che acqua, le fogne della città che rigurgitavano ovunque, roba che ti prendi la leptospirosi come minimo.
Trovavi di tutto in giro subito dopo la piena, c’era ad esempio il sindaco Brugnaro che girava spaesato per le calli e in Pizza San Marco, in stato stuporoso, come chi non riesce a capacitarsi di ciò che è successo, sembrava John Travolta in quel film di cui non ricordo il titolo (Pulp fiction?) in cui entra in una stanza si guarda intorno più volte e sembra confuso, come se non capisse dove si trova o perché si trova li, e Brugnaro allo stesso modo sembrava dire: “Ma dove xea finìa Venessia?”.
Poi si è visto pure Luca Zaia, che per la fretta si era dimenticato di mettersi il gel sui capelli, ha fatto una ricognizione sulla cripta di San Marco, lievitava sopra l'acqua per non sporcare il suo mocassino firmato e l'abito Corneliani, ha rilasciato due dichiarazioni arrabbiate contro il Mose che non è in funzione (come se lui non c’entrasse nulla e come se il suo partito non fosse stato al governo per un anno di recente e per troppi anni in passato, quando il Mose era diventato un tangentificio per tutti in Veneto), poi, come se fosse un turista al pari degli altri e non il governatore della regione, è andato in Emilia in supporto alla campagna elettorale regionale.
Si è visto anche Salvini, chissà chi gli suggerisce il look, quando era ministro lo vestivano con abiti firmati, avrebbe dovuto sembrare un serio uomo di potere, invece sembrava qualcosa fra un gorilla e un buttafuori da balera, non parliamo poi delle felpe o della mania di indossare divise delle forze dell’ordine di ogni specie e grado.
Abiti da lavoro molteplici per uno che non ha mai lavorato e che danno un'identità ben definita, almeno per il momento in cui l'indossi, a chi è stato, secondo convenienza, ora secessionista, ora federalista, ora anti-meridionale e anti-italiano,  ora fratello d'Italia pronto alla morte se Italia chiamò, ora anti-sovietico, ora favorevole a Putin, o almeno ai suoi rubli.
E dimentichiamoci le bermuda da bagno di quest’estate, si è presentato con un look che sembrava un pescatore di trote della Valchiavenna, col giubbino trapuntato di color verde bottiglia con pettorale vagamente bronzeo, dotato di cappuccio e con un berretto blu con visiera che faceva a pugni col resto dell’abbigliamento … si è fatto un paio di selfie, poi saputo che nessun ristorante era in grado di cucinargli qualcosa, è andato a mangiare in terraferma.

  Ma non dobbiamo farci prendere la mano ad infierire contro di lui per il look e per la superficialità della sua visita, in questo caso una passerella nel vero senso della parola, Salvini è un uomo molto impegnato, innanzitutto è il leader indiscusso di quello che è stimato come il maggior partito d’Italia, secondo passa da una campagna elettorale all’altra e i problemi che incontra sono titanici, sta cercando di fare in modo, se dovesse vincere la sua candidata in Emilia, Lucia Borgonzoni, di far si che anche in questa sfortunata regione gli ospedali rimangano aperti anche durante il fine settimana.









E non si tratta, com’è stato detto, di vane promesse elettorali, è la sacrosanta verità, io che vivo in Veneto ormai da tempo posso testimoniare che in questa regione davvero gli ospedali sono aperti anche la domenica, anche il sabato, anche di notte: grazie Zaia (glielo dico io pubblicamente prima che se lo dica da solo facendo stampare ed esporre di nuovo a nostre spese manifesti cubitali in cui si ringrazia per aver ottenuto i giochi olimpici per Cortina del 2026).
Poi è arrivato di tutto, da Berlusconi a Sgarbi, fino ad una delegazione della Nazionale di calcio con Vialli e Donnarumma (che non rischiava di annegare di certo anche se la marea si fosse alzata ancora ... mentre Brunetta è stato messo in sicurezza già solo con la marea oltre il metro) ... no, Zingaretti no, aveva calcetto, e nemmeno Di Maio, che se fosse venuto a Venezia avrebbe perso altri voti, ora che non è venuto ha perso gli stessi voti se fosse venuto, se parla perde voti, ma perde voti anche se non parla, perde voti se si muove, ma pure se non si muove...
Ciascuno ha rilasciato interviste, ha detto qualcosa, se l’è presa con qualcuno che non fosse lui o qualche suo amico, nessuno ha segnalato il vero pericolo, che è il fatto che le fondamenta in muratura che sovrastano i pali conficcati sulla laguna a fare da colonne alla città si stanno sgretolando sempre più in fretta quanto più sono frequenti le acque alte che le lambiscono e vi permangono per ore, interi edifici storici potrebbero crollare improvvisamente, come successe nel 1902 al Campanile di San Marco.
Coltivate i vostri sogni, hanno detto i più, follow your dreams, cultivate your dreams, tutti vogliono coltivare, ma nessuno ha iniziato a zappare; tutti sembravano sapere di chi fosse la colpa, tutti sembravano sapere cosa è necessario fare, ma tutti sono andati via subito dopo, gli unici a fare veramente qualcosa, oltre ai volontari della Protezione Civile, della Croce Rossa e di altre benemerite associazioni, sono stati gli studenti di Venezia, che invece di godersi lo spettacolo o di essere loro stessi lo spettacolo, hanno iniziato spontaneamente e senza riflettori, microfoni o telecamere a dare una mano ai commercianti in ginocchio, per tentare di salvare il salvabile, per sgomberare pianoterra e cantine dall’acqua, per ripristinare al più presto un servizio o un’attività.

Per il resto è prevalso il far “finta de pomi”, il “ciavarsene”, come mi ha suggerito la lettura di questo profetico post di Francesca Ruth Brandes, pubblicato su Tessere.org, e a cui vi rimando volentieri se volete sapere il significato di questo detto popolare veneziano.




L'interno del vecchio Burgtheater, Gustav Klimt, 1888 (dettaglio).