mercoledì 17 luglio 2019

IL RE DI GIRGENTI










“«Ho l’ordine di andare subitu nella vostra casa e abbrusciarla» disse il Capitano. «C’è qualichi cosa che vulite salvari?». «Si» arrispose Zosimo «una cascitedda di ligno, nica. La tengo ammucciata, ma vi dico indovi». «Che c’è dintra?». «L’occurrenti pi fari una comerdia [aquilone]».  Montaperto abbrusciò sulamenti la casa, non l’àrbolo di zorbi che c’era darrè. […] Allato alla cassetta di ligno, che dintra aviva quattro stecche di canna, un foglio di carta velina cilestre, un grossu gomitolo di spago e un pugnu di farina, c’erano puru cinco libri e macari chisti non si potivanu leggiri, erano tutti strazzati e sfarinati. A Montaperto ci parsi di capiri un titolo, «Comedia» o qualichi cosa di simili di un tali Lighieri e un altro, in latinu, che faciva «…gnitate hominis» di uno che di nome faciva Pico. Li ghittò nel rogo della casa”.
(Andrea Camilleri, Il re di Girgenti, Sellerio, 2001, pp. 423-424).











“Questa è la vera difficortà di la doppia morti, la morti cchiù amara, la morti cchiù disgraziata, che non è moriri senza sapiri di moriri, e questa sarebbe la morti semplici, ma moriri sapennu di moriri, quannu ti fannu accanusciri il momento preciso di la morti tò, quanno vidi che questo pugno di rena che ti hanno posato davanti dicendoti: «quanno lu tempo se lo è portato via granello appresso granello, a questo mumentu stabilitu la vita tò è finuta», quanno un ponentino leggiu leggiu accumenza a fàrisi sentiri e tu hai voglia a inserrare porte e finestre, hai voglia a sigillare minime fessure, hai voglia a tappare pirtusa, nenti, nenti, quel ponentino che non si arrinesce a capire da dove s’infila, trova sempri modo di trasire e di fare scumparire la rena granello appresso granello e tu sai, tu accapisci che ogni cosa che fai non la potrai rifare cchiù doppo semplicementi pirchì non ci sarà cchiù un doppo e perciò se finisci di fabbricare la comerdia, quanno che hai finito di fabbricare la comerdia, quanno la comerdia è fatta, quanno la comerdia è fabbricata, quanno la comerdia è finuta, quanno alla comerdia non c’è cchiù nenti da aggiungere, quannu la comerdia è pronta a volari, sei tu stesso che finendo di fabbricare la comerdia hai dato una soffiata forte a quello che resta del pugno di rena e ne hai fatto volare via minimu minimu la metà e allura che faccio? la metto o non la metto quest’ultima strisciolina di carta velina? e se la metto e la comerdia è finita non è macari finita la vita mè? sai che ti dico? eh, sai che ti dico? iu non ci penso cchiù iu lo mettu l’ultimo pezzu di carta velina e itivinni a pigliarvela ‘n culu tutti quanti ecco fatto l’ho messo vediamo se la colla di farina tiene la comerdia è finuta bonanotti bonanotti macari se sta accomenzanno proprio ora a fare jorno”.
(Andrea Camilleri, Ibid., p. 427-428).










“Montaperto chiuse la porta. Taliò la comerdia posata sul tavolino. Era proprio bella, fabbricata a regola, equilibrata in ogni parti sò, pareva viva, pareva squasi fremesse a starsene accussì ferma, pareva che non aspittava che il minimo suspiro di vento per pigliari il volo. «Noi semo pronti» disse il Capitano. «E voi?». «Macari io sono pronto» fece Zosimo. il Capitano parse dubbitoso. «E di sta comerdia che ve ne fate? Ve la volete portare appresso fino alla forca?». «È proibitu?». «Proibitu no, ma non mi pari giustu lu momentu». «Se mi raprite il finestrone, la faccio volare. Questa è l’ora bona, c’è il venticeddro del matino». «Mi levate una curiosità?» spiò Montaperto. «A disposizione vostra». «Pirchì date tanta importanzia a una comerdia chè joco di picciliddri? Scusatemi se ve lo dico, ma non mi pare cosa d’omo granni».
«Volete sapiri che rapprisenta pi mia questa comerdia? Non rapprisenta nenti, questa comerdia è sulamenti una comerdia». Il Capitano lo taliò ‘ncertu. Montaperto era omo di guerra, ma era macari uno che gli piaciva speculare, trovare alle cose una significazione diversa da come le cose parevano. «E allura?». «Ci jucai un jornu ch’ero picciliddro e mi parse una meraviglia, un miracolo, mi parse di stare volanno con la comerdia istissa, mi sentii lèggiu lèggiu, allato ai passeri, alle palumme, ai carcarazzi, alle allodole, aceddro tra gli aceddri. E feci giuramentu sullenne, allura, che nell’ora di la morti, avrei fatto vulare un’autra comerdia per lassare sta terra leggiu leggiu, scordannomi lu piso di lu corpu. V’abbasta comu spiegazioni?».
Il Capitano fece ‘nzinga di si calando la testa. raprì il balcuni che dava nel cortiglio interno del castello e Zosimo, pigliata delicatamente la comerdia, lo seguì fora. Abbrividenno per la friscanzana, teneva la comerdia con due dita strette nel punto in cui lo spaco era stato legato, proprio all’incrocio delle due listelle di canna che ne formavano lo scheletro. Di subito si fece pirsuaso che era arrinisciuto a fabbricare un apparecchio miracolosamente perfetto, magicamente equilibrato in ogni singola parti sò. Già tenuta accussì, la comerdia vibrava a ogni minima alitata del matino e pareva una criatura viva, un falco artigliato alla mano del falconiere.
Zosimo aspittò tanticchia col vrazzo isato poi arrivò una folata di vento, ma Zosimo capì che non teneva consistenza, avrebbe fatto capozziare la comerdia mandandola macari a sbattere supra i tetti. Doppo ne venne ‘n’autra, né troppo forti né troppo deboli, giusta, e lui allentò la stritta delle due dita e in mezzo a li dita lo spaco principiò a scorrere veloci sempri cchiù veloci via via che la comerdia pigliava la correnti per il verso giustu e acchianava ‘n celu, acchianava con la cima puntata dritta, comu se fosse stata sparata, tirandosi appresso la cordicella con tanta forza e prescianza che Zosimo sentì la pelle delle dù dita prima irritarsi e doppo principiare ad abbrusciarsi comu se quello non fosse semprici spaco ma una lama di foco. La comerdia oramà squasi si era confunnuta con una nevola e lo spaco era finito. Zosimo ne tenne ancora tanticchia stritto il capo non arrisolvendosi a perdiri per sempri la criatura sò.
Me l’arricordo precisu comu fu quann’era picciliddro e mi fabbricai la comerdia cu la carta che mi aveva arrigalato la bonarma di don Aneto Purpigno. E la comerdia, mentri vulava, principiò a stracangiarsi, non era cchiù carta velina e colla di farina e listelli di canna, no, tutto ‘nzemmula addivintò viva, si trasformò in palumma, una vera palumma, ma impastoiata, tenuta prigioniera dallo spaco che iu serrava ‘ntra li dita e tirava tirava tirava pia viri la sò libirtà comu sta facenno quest’autra comerdia e iu ora ci la dugnu la sò libirtà ma lo so che se lasso stu spaco nun sulamenti mi perdo la comerdia ma mi perdo macari la fantasia, mi perdo la capacità di cangiare li cosi a piacimento mio e vidilli, tutti sti cosi, non comu sunnu ma comu li ho fatti addivintari iu, va beni, ma che te ne fotte della fantasia ora comu ora che ti trovi a un passu di la morti, non è megliu perdiri la fantasia chiuttosto che negari la libirtà a una comerdia?”.
(Andrea Camilleri, Ibid,, pp. 429-432).  










“Dal som de l’escalina al punto indovi ci stava il boia c’erano sei passi e Zosimo li fece squasi di prescia pirchì si scantava che gli comparissero ancora morti viventi e armàli parlanti a scassargli i cabasisi, a dargli o a spiargli significanze. Si fermò davanti a Casimirro Capuano, «Faccio una cosa sverta sverta» lo rassicurò il boia. «Non dubito della maistranza tò» fece Zosimo. «Girati».
Zosimo gli dette le spalli. ‘Ntonio Impiduglia, uno degli aiutanti, s’avanzò con una cordicella in mano e face per attaccare i polsi di Zosimo darrè la schina. «No» ordinò il Capitano Montaperto. Impiduglia s’arretirò e al posto so avanzò l’altro aiutante, Binno Lopasquale, che teneva nelle mano un cappuccio nìvuro da mettiri ‘n testa al condannato.
«No» disse ancora il Capitano Montaperto. Macari Lopasquale s’arretirò. Zosimo si voltò a mezzo verso il Capitano e gli fece un sorriso di ringrazio. Casimirro, con mano dilicate che parivano quelle di una fìmmina, passò la corda intorno al collo di Zosimo, gliela assistimò bene. Doppo fece ‘nzinga agli aiutanti e i due pigliarono la corda e s’addisposero uno avanti e uno narrè, come ci si mette quanno si fa lu jocu del tiro alla funi. Casimirro isò la testa e controllò a vista la carrucola dintra la quali passava la corda. Tutto pareva a posto. Taliò il Capitano per fargli accapire che, supra il palco, boia e connannato erano pronti e aspittavano l’ordini. e il capitano isò un vrazzo.
A Zosimo venne bisogno di stranutare come per un raffriddori improvviso. Si tenne a forza. Ma il naso gli chiurì di nuovo. Isò una mano per darsi una grattatedda e le dita so incontrarono qualichi cosa sospisa. Era uno spaco che pinniva dall’alto. Taliò strammato verso il cielo e vitti la comerdia. La comerdia era tornata e ora sinni stava alta e ferma a pirpindicolo priciso supra la so testa. Comu aviva fatto a tornari? E pirchì era tornata? Doppo capì e si sintì slargare il core: lui aviva pinsato di perdiri la fantasia lascianno lo spaco della comerdia e inveci le cose stavano diverso. e nel priciso momentu nel quali il Capitano abbasciava il vrazzo, Zosimo agguantò lo spaco con le due mano sentendo uno strappo violento, certamente quello della comerdia che ripigliava movimento e altezza.
Lesto, principiò ad acchianare lungo lo spaco e inveci di provare stanchizza per la faticata a ogni bracciata si sentiva cchiù leggiu e cchiù liberatu. A un certo punto si fermò e taliò verso terra. Vitti la piazza, le case con la gente supra i tetti che accomenzava ad andarene e in mezzo alla piazza vitti macari il palco e una cosa, una specie di sacco, che pinnuliava dalla forca dunnuliando. Rise. e ripigliò ad acchianare”.
(Andrea Camilleri, Ibid., pp. 442-444).








L'estremo saluto ad Andrea Camilleri, il più grande scrittore italiano degli ultimi quarant'anni, conosciuto più per la serie poliziesca del Commissario Montalbano, di cui dopo il primo non avrebbe più voluto saperne, ma che ha avuto un successo incredibile, che per i suoi straordinari romanzi.
In questi giorni da quando un mese fa circa fu ricoverato in rianimazione per arresto cardiocircolatorio, avrà contrattato con i guardiani dell'aldilà se gli lasciavano scrivere ancora un ultimo libro; dopo il rifiuto, avrà chiesto se almeno poteva contare sul fatto che avrebbe ritrovato le sue amate sigarette, del whisky, gli arancini e la pasta incasciata di Adelina, e gli spaghetti alle vongole, le triglie di scoglio o il polpo a strascinasale di Enzo ... e anche la vista rivoleva indietro, perché anche laggiù ci saranno certamente tutte le cose belle di quaggiù. Un grande abbraccio, mi terrò stretti i libri che hai scritto e l'esempio di eccezionale umanità e impegno civile, in un tempo in cui gli scrittori vanno in tv o sono attivi sui social solo quando vogliono promuovere la loro ultima opera.



giovedì 4 luglio 2019

LLUEVE, LLUEVE, Y LA GATA NO SE MUEVE



sea watch







“Era quella [Italia]la mèta, quando, gonfio
d’improvvisa tempesta Orion nembroso,
in insidiose secche ci sospinse
e ci disperse in preda agli austri in furia
fra l’onde tempestose e gli aspri scogli;
pochi giungemmo sulla vostra terra.
Ma quale genere mai di gente è questa?
Qual patria mai si barbara permette
tali costumi? L’ospitale sosta
sulla deserta spiaggia hanno negato,
e muovon guerra, e vietano di porre
sul lembo estremo della terra il piede!
Se a spregio avete gli uomini e lor armi,
gli Dei del bene immemori e del male
non isperate!”.
(Virgilio, Eneide, Libro Primo, 790-804).


L'elmo di Scipio




L'elmo di Scipio


“Di là navigammo avanti, sconvolti nel cuore,
e dei Ciclopi alla terra, ingiusti e violenti,
venimmo, i quali fidando nei numi immortali,
non piantano pianta di loro mano, non arano;
ma inseminato e inarato là tutto nasce,
grano, orzo, viti, che portano
il vino nei grappoli, e a loro li gonfia la pioggia di Zeus.
Non hanno assemblee di consiglio, non leggi,
ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime
in grotte profonde; fa legge ciascuno
ai figli e alle donne, e l’uno dell’altro non cura”.
(Omero, Odissea, Libro Nono, 105-115).



L'elmo di Scipio





“Voialtri ora aspettatemi, miei cari compagni;
io con la mia nave e la mia ciurma
andrò ad esplorare queste genti, chi sono,
se son violenti, selvaggi, senza giustizia,
o amanti degli ospiti e han mente pia verso i numi”.
(Omero, Odissea, Libro Nono, 172-176).



L'elmo di Scipio






«Qui un uomo aveva tana, un mostro,
Che greggi pasceva, solo, in disparte,
E con gli altri non si mischiava,
Ma solo viveva, aveva animo ingiusto.
Era un mostro gigante; e non somigliava
A un uomo mangiator di pane, ma a picco selvoso
D'eccelsi monti, che appare isolato dagli altri.»
(Omero, Odissea, Libro Nono, 187-192.).







L'elmo di Scipio s'è cinta la testa


«Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fa' questo e vivrai”. Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va' e anche tu fa' lo stesso”».
(Luca, 10,25-37).











Alla fine la vicenda della Sea-Watch 3 sembra finita piuttosto bene, la capitana della nave è approdata in Italia, dimostrando al mondo intero che non è vero che le donne non sanno parcheggiare, ha attraccato una bestia di 50 metri di lunghezza e di 12 metri di larghezza nel porto di Lampedusa sotto gli occhi della Guardia di finanza, con una manovra azzardata (di cui si è subito scusata), ma non improvvisa (visto che l’aveva ampiamente annunciata).
Chissà da dove è saltata fuori la notizia di uno speronamento della motovedetta della finanza, forse da antichi pregiudizi sulle donne al volante, perché vi assicuro che né i militi, né la motovedetta, né la Sea-Watch, né i migranti o il suo equipaggio e tantomeno coloro che dal porto hanno assistito alla scena si sono fatti un graffio…evidentemente c’era fra noi chi voleva a tutti i costi reclutare Carola Rackete al movimento “speronista” … “Y llueve, y llueve, y el pueblo no se mueve”.
In tal modo i 42 migranti ora sono a terra, sani e salvi, come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio, e c’è voluto poco per constatare che le temute sanzioni, la mega-multa, il sequestro della nave, i lavori forzati, il carcere a vita in regime di 41bis, il vitto a pane ed acqua sull’isola di Montecristo non sono scattati automaticamente, anzi sono tutti liberi di circolare e da domani potrebbero riprendere a scortare migranti.
E magari ce li ritroviamo di nuovo fra i piedi fra qualche giorno, come se il Decreto Salvino in materia di sicurezza, riscritto due volte a causa degli errori grammaticali e perché violava sia la convenzione di Ginevra, sia i Diritti dell’Uomo e persino le norme etiche che regolavano la condotta dei Fratelli della Costa nell’Isola di Tortuga, fosse solo carta straccia.
Ma carta straccia lo era anche prima e lo è sempre stato, almeno per quanto riguarda le norme di diritto internazionale: l’Articolo 10 della nostra Costituzione, infatti, prevede che:
«L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici [cfr. art. 26]».
E a sua volta il diritto internazionale, che si fonda sulla Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974), sulla Convenzione sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, (SAR- International Convention on Maritime Search and Rescue, Amburgo, 1979) e sulla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS – United Nations Convention on the Law of the Sea, Montego Bay, 1982), decreta:
- che il comandante di una nave ha l’obbligo di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere- con tutta rapidità- all’assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia avuto informazione (art. 98.1 della UNCLOS e del Cap. V, Reg. 33(1) della SOLAS).








- l’obbligo, per gli Stati Parte, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso, relativo alla sicurezza in mare e, ove necessario, di sviluppare, in tale ambito, una cooperazione attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi, ponendo le basi per l’esecuzione di accordi multilaterali (’Art. 98.2 della UNCLOS).
- un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro (SAR), gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization) devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista e dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.
- fatti salvi i casi in cui è lecito ad una imbarcazione non prestare il soccorso in prima persona a norma di legge, le sanzioni previste, in caso di omissione di assistenza a navi o persone in pericolo, dall’ordinamento giuridico italiano (art. 1158 del Codice della Navigazione), per un comandante di una nave nazionale o straniera, sono una pena che prevede la reclusione fino a due anni, che diventa reclusione da uno a sei anni se dal fatto sia derivata una lesione personale e da tre ad otto anni se ne sia derivata la morte.
Il Codice della Navigazione Italiano, (Approvato con R.D. 30 marzo 1942, n. 327; Parte aggiornata al decreto legislativo 15 marzo 2006, n. 151; Parte prima: Della navigazione marittima e interna; Libro terzo - Delle obbligazioni relative all'esercizio della  navigazione; Titolo IV:  Dell'assistenza e del salvataggio,  del recupero e del ritrovamento dei relitti) recita:
Capo I-Dell'assistenza e del salvataggio
Art. 489 - Obbligo di assistenza
L’assistenza a nave o ad aeromobile in mare o in acque interne, i quali siano in pericolo di perdersi, è obbligatoria, in quanto possibile senza grave rischio della nave soccorritrice, del suo equipaggio e dei suoi passeggeri, oltre che nel caso previsto nell’articolo 485, quando a bordo della nave o dell’aeromobile siano in pericolo persone.
Il comandante di nave, in corso di viaggio o pronta a partire, che abbia notizia del pericolo corso da una nave o da un aeromobile, è tenuto nelle circostanze e nei limiti predetti ad accorrere per prestare assistenza, quando possa ragionevolmente prevedere un utile risultato, a meno che sia a conoscenza che l’assistenza è portata da altri in condizioni più idonee o simili a quelle in cui egli stesso potrebbe portarla.
Art. 490 - Obbligo di salvataggio
Quando la nave o l’aeromobile in pericolo sono del tutto incapaci, rispettivamente, di manovrare e di riprendere il volo, il comandante della nave soccorritrice è tenuto, nelle circostanze e nei limiti indicati dall’articolo precedente, a tentarne il salvataggio, ovvero, se ciò non sia possibile, a tentare il salvataggio delle persone che si trovano a bordo.








È del pari obbligatorio, negli stessi limiti, il tentativo di salvare persone che siano in mare o in acque interne in pericolo di perdersi.
Infine, do la parola alla nostra Carta Costituzionale:
Articolo 2
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Non sta parlando, come altrove, in altri articoli, di “cittadini”, dice esplicitamente “uomo”, qualsiasi uomo: padano, terrone, africano, migrante, naufrago in mare, senzatetto, povero, zingaro … e dice “doveri inderogabili”, no “prima gli italiani”, questa frase, con le debite modifiche (Deutschland, Deutschland über alles), fu usata  come inno dal 1918 fino al 1934 della Repubblica di Weimar prima e della Germania nazista poi.
Mussolini non disse mai una cosa del genere, tuttavia è agevole per chi conosce la storia del ventennio, dedurre che lo pensasse fermamente, in pratica qualsiasi regime fonda gran parte del suo potere facendo leva sul narcisismo e sull’amor proprio calpestato dei popoli e sulla promessa di grandi traguardi, della riconquista della gloria che ci spetta più per ciò che crediamo di essere che per ciò che faremo per conquistarla.
Una vera Nazione si costruisce su basi autentiche, lo sviluppo dell’economia, la crescita del benessere, dei posti di lavoro, dei commerci, della produttività, lo sviluppo di una cultura attuale, di produzioni creative, di fervore artistico, di cenacoli dove le idee e la creatività si trasmettono a tutti per osmosi, della soddisfazione di guardare beati ciò che siamo, il futuro più prossimo ma già prevedibile e non di nutrirci di un lontano e glorioso passato o di attendere le magnifiche sorti e progressive.
Non si costruisce sul “prima gli italiani”, parole d’aria e di vento, adatte solo per riempire palloni gonfiati, gente che vuole credersi grande senza far niente, solo perché si è già qualcosa, per nascita, per avventura, per un caso fortuito, una grande Nazione non trema di fronte a 42 migranti e ad una giovane donna determinata che li conduce in porto e al sicuro nonostante la meschinità di cui si trova circondata.
Finora ho fatto riferimento a norme, regole, diritti, articoli, commi, contrapponendo così le bande salviniane che si appellano al Decreto sicurezza-bis appena varato e all’autorità acquisita dal loro duce in quanto primo ministro dell’interno, contro la Carte del Diritto Internazionale, la Costituzione della Repubblica e  il Codice della Navigazione italiani.








Ma si tratta soltanto di prescrizioni normative, di obblighi di legge a cui è necessario sottoporsi se non si vuole incorrere in qualche sanzione o pena da scontare, per quanto autorevoli e necessarie; esiste però un codice molto più primitivo da tenere in considerazione, che ci influenza e che ha ispirato la parte migliore delle leggi che normano la nostra vita sociale, di cui ho scritto sopra, si tratta delle nostre radici culturali.
Non si tratta di bulbi, tuberi o rizomi da aggiungere nella minestra, come crederebbe un leghista quando sente parlare delle radici cristiane dell’Europa, sono il nucleo stesso della nostra cultura, del pensiero dell’Occidente, quel granello di sabbia su cui l’ostrica fa sorgere una perla opalescente, quel paleo-pensiero da cui alcuni popoli iniziano a vivere e a pensare.
Per gli antichi greci l’ospite, chiunque si presentasse alla tua porta per qualsiasi motivo, era sacro, la parola xenia, che indicava l’accoglienza dello straniero, prevedeva che l’ospite fosse rifocillato, ristorato, ripulito, vestito e calzato degnamente, ammesso alla corte o nel seno della famiglia e trattato come uno di casa.
Fra ospitante e ospitato si creava un legame di reciproca solidarietà, con scambio di doni e tacite promesse di ricambiare l’accoglienza ricevuta se si fosse dato il caso, ciò accadeva certamente perché era facile allora immedesimarsi in qualcuno bisognoso d’aiuto, i viaggi in quell’epoca erano delle autentiche avventure, delle odissee in cui non sapevi mai che gente avresti incontrato, quali terre avresti attraversato, quali meraviglie od orrori avresti visto, sapere di poter contare sull’aiuto di gente misericordiosa, pronta a tenderti la mano ti dava coraggio lungo il cammino, ma l’ospitalità era intesa anche a creare un vincolo solidale fra persone che non si conoscevano e che nulla sapevano l’uno dell’altro e delle reciproche intenzioni, io ti offro ciò di cui tu potresti essere tentato di prendere con la forza.
Invero i casi di predazione nell’Iliade e soprattutto nell’Odissea non sono rari, non doveva essere infrequente che qualcuno rapinasse le genti del luogo per rifocillarsi pe  e per fare bottino, ma se vieni accolto nella mia casa in amicizia, se mangi nel mio piatto, se godi della mia casa, della mia stima e della mia considerazione, dovresti davvero essere un uomo senza onore per derubarmi di ciò che ho, per usarmi violenza o per insidiarmi la moglie o la figlia (Paride era disprezzato da tutti perché insieme con Ettore erano stati accolti in amicizia da Menelao a Sparta).
Ma l’ospitalità, l’accoglienza, non era soltanto un calcolo utilitaristico per gli antichi greci, spesso lo straniero portava una ventata di novità nel luogo in cui approdava, poteva raccontare cose del suo paese di origine o ciò che gli era capitato furante il viaggio (Ulisse veniva ascoltato con estrema attenzione alla corte di Alcinoo), poteva poi essere una persona saggia o gradevole, potevano sorgere fra ospitante (e la sua famiglia in generale) e l’ospitato legami di amicizia o persino sentimenti amorosi (come accade ad Ulisse quando incontra Nausicaa e Calipso, come gli accadrà anche con Circe in un secondo tempo).
Anche per il romano l’ospitalità era sacra, solo che egli era più pratico e finì per formalizzare i diritti doveri dell’ospite e dell’ospitato in un codice, la tessera hospitalis, vigente in tutto il territorio dell’impero, in cui quel legame di ospitalità veniva certificato con tanto di annotazione dei nomi dei due contraenti e in cui l’ospitato si impegnava a ricambiare, usando lo stesso trattamento, il suo benefattore in visita nella sia città.





Perché aspettare le navi in porto, andiamo all'arrembaggio come i pirati.



Ciò che era veramente importante per il greco o per il romano antico non è la forma più o meno utilitaristica o spontanea che assumeva l’ospitalità, ma il fatto che egli discriminava le persone e i popoli in civili se questa usanza era in vigore, in barbari e incivili se non era uso praticare alcun tipo di accoglienza e solidarietà con lo straniero.
Le peripezie di Ulisse e le persone e i popoli che incontra sono ogni volta un’incognita da questo punto di vista, egli è sempre circospetto, non sa mai cosa attendersi, talvolta l’animosità dei popoli che trova sul suo cammino è lampante, allora lui e i suoi compagni fuggono o combattono, altre volte l’accoglienza sembra gradevole, ma nasconde un’insidia (come ne caso di Circe, dei lotofagi e di Calipso), di certo e di gran lunga però la questione dell’accoglienza è affrontata nella vicenda del ciclope Polifemo.
Quest’ultimo non era soltanto un mostro esteticamente, ma è mostruoso anche moralmente, Omero lo descrive dall’aspetto e dai modi più ferini che umani, tutto ciò che costituisce la vita civile (la convivenza, la coesistenza, darsi reciproche leggi e norme etiche di comportamento, la giustizia, l’agricoltura, la techne che consente la costruzione e l’uso di utensili e strumenti utili all’uomo, l’erigere abitazioni confortevoli, sono inesistenti, Polifemo vive selvaggiamente in una caverna, non coltiva nulla, non costruisce quasi nulla, vive di ciò che la natura gli da spontaneamente, alleva pecore e capre e si veste delle loro pelli.
Cadono nel vuoto gli appelli di Ulisse all’ospitalità, grata agli dei, e sancita e garantita dal più grande di essi, Zeus in persona, se ne ride, si fa beffe di quell’omino che gli parla supplice ai suoi piedi, e oltraggia persino il re degli dei dicendo di non curarsene affatto, ma di fare affidamento solo sulla forza di cui lui e i ciclopi sono dotati, non sulla pietà divina; detto ciò, dopo aver chiuso l’altro con un macigno enorme, che Ulisse e i suoi compagni non sarebbero mai riusciti a smuovere, afferrò due di loro e li divorò dopo averli ucciso sbattendo loro la testa per terra: non solo è inospitale Polifemo, ma si manifesta anche come creatura orribile, senza alcun rispetto per uomini e dei e senza curarsi nemmeno dei suoi simili.
L’uomo è ospite sulla terra, e di questo deve ringraziare Dio e deve essere ospitale con gli stranieri, perché ogni straniero potrebbe essere Dio stesso sotto mentite spoglie o qualcuno dei suoi inviati; nella tradizione ebraica, uno dei grandi modelli di ospitalità è il patriarca Abramo. La Bibbia narra come, pur dolorante in seguito alla circoncisione, Abramo si sedette all’ingresso della sua tenda, nel deserto, esposto al calore del giorno, per essere pronto nell’ospitalità verso chi passava per via. Quando arrivarono gli ospiti, egli li supplicò di restare e offrì loro il miglior cibo che la sua famiglia aveva da offrire.
Oggi l’Hachnasat orchim (l’accoglienza degli ospiti), rimane un importante aspetto per la vita di un Ebreo; in molte famiglia il banchetto dello sabato e delle festività non è completo se non ci sono degli ospiti che uniscono e partecipano al pasto. Molte sinagoghe hanno dei veri e propri comitati dediti all’Hachnasat orchim, il cui compito è quello di assicurare che nessun ospite entra in sinagoga senza esser stato invitato a casa di qualcuno per il pasto.
Il cristianesimo, come al solito, complica tutto, se leggete la parabola del buon samaritano scoprirete che Gesù parte dal precetto "amerai il tuo prossimo come te stesso" (Levitico 19,18), per cercare di far ragionare il dottore della legge che gli chiede prima cosa fare per meritare la vita eterna e poi chi è il nostro prossimo; non gli fornisce risposte, gli narra una vicenda e gli pone delle domande, alla fine il dottore della legge sembra aver capito, perché non gli risponde scolarescamente: “Il samaritano”, ma: “Chi ha avuto compassione”.








Il sacerdote e il levita vedono l’uomo picchiato e derubato per terra lungo la loro strada e passano oltre senza soccorrerlo, i briganti avrebbero potuto aggredire chiunque fra loro, era stato solo per caso che avessero aggredito quell’uomo e non uno di loro, non riescono ad immedesimarsi nell’uomo aggredito, ferito e derubato li per terra, provano paura, timore del suo stato, e scappano, gli costerebbe emotivamente troppo fermarsi a soccorrerlo, dovrebbero accettare di poter essere loro quell’uomo per terra, guardarlo negli occhi e vedervi riflessi i propri occhi.
Il samaritano invece si ferma, è premuroso, è compassionevole, gli fascia le ferite dopo averle “disinfettate” con olio e vino, lo carica sul suo “giumento” (giumento?) e lo conduce in una locanda, il mattino seguente, poiché avrà sicuramente i suoi affari da sbrigare, lascia due denari all’albergatore pregandolo di prendersi cura di lui, e che se il denaro non gli fosse bastato, al suo ritorno gli avrebbe dato la differenza.
Sembra quasi che stesse lasciando davvero se stesso malato in cura in quella locanda, mentre il se stesso sano continua ad occuparsi dei suoi affare, il samaritano si sdoppia in chi è stato aggredito e derubato e in chi è compassionevole e soccorre; forse l’essere samaritano, e il ferito giudeo (non correva molto buon sangue fra questi due popoli di stessa etnia, che pur vivendo vicini professavano due fedi religiose completamente diverse).
Aiuta questo sdoppiamento, la distanza culturale fa si che il samaritano vede nel giudeo un altro, e questa alterità gli permette di avvicinarsi a lui senza provare emozioni troppo forti, oppure è vero il contrario, il samaritano, proprio perché il giudeo è “altro” da lui, deve fare molta più fatica per entrare in contatto con lui e fare affiorare la compassione.
Comunque sia, il cristianesimo pur trovando inadeguata la formula espressa dal Levitico: “amerai il prossimo tuo come te stesso”, perché in realtà la frase è espressa da una formula imperativa, seppure celata e addolcita dal futuro semplice di “amerai”, e l’imperativo può andar bene quando esorta a fare cose concrete, a rispettare delle norme, ad imporre cose da fare, ma non va affatto bene per esortare qualcuno a provare dei sentimenti: non ci si può imporre di amare qualcuno, nemmeno se è Dio a volerlo.
Sulla questione del “prossimo” poi ci si potrebbe scrivere un libro intero se solo lasciassi a briglia sciolte la mia mente, libera di galoppare nelle celesti praterie dell’alterità, ma in questo momento trovo più importante affrontare il “come te stesso”; non la trovo un’ottima idea questa, non vorrei essere amato come  la maggior parte della gente ama se stessa, i più si disprezzano, anche profondamente, per cui chi volesse amarmi mi ami, per cortesia, come ME stesso e non come SE stesso … non avete idea dell’autodistruttività presente in molti esseri umani, talvolta espressa sotto forma di amore di sé.
Il cristianesimo cerca di uscire dall’impasse creata dall’ebraismo che esprime i precetti in forma imperativa, come norme o dettami di legge morale, sanzionate aspramente da un Dio geloso e vendicativo, che non esita ad usare una violenza spropositata per punire l’umanità o il su popolo prediletto, col risultato che l’intera Bibbia esprime l’ambivalenza di questo popolo fra un amore per questo Dio obbligato ed esclusivo e la tentazione di uscire da questa imposizione e trasgredire la regola.
Ma esita a fare il passo successivo che la farebbe uscire da questa aphoria, che è quello di una rivoluzione interiore, un intimo cambiamento radicale che faccia slittare l’individuo dal piano superficiale della legge morale esterna, ad una più intima e sentita legge etica interna, dal razionale all’emotivo, da norme che necessitano di esortazioni, esempi e sanzioni, a modelli interiori che si esteriorizzano come emanazione di sé.

*** Scrivo questo post in risposta ai commenti ricevuti nel precedente CAPITANI CORAGGIOSI, ringrazio infinitamente ciascuno di voi perché nonostante il caldo mi avete stimolato a pensare e a mettere su carta (si fa per dire) nuove idee e nuove emozioni. ***