martedì 3 giugno 2014

FRAU PETRA





Gustav Klimt, Ritratto femminile (volto di fanciulla), 1898 circa, Belvedere Vienna.


[Zeús] comandò all'inclito Hḗphaistos che subito impastasse
terra con acqua e vi infondesse voce umana e vigore,
e il tutto fosse d'aspetto simile alle dee immortali, e di bella,
virginea, amabile presenza. E quindi che Athēnâ
le insegnasse le arti: il saper tessere trame ben conteste.
Di spargerle sul capo grazia, ordinò all'aurea Aphrodítē,
tormentosi desideri e le pene che struggono le membra;
e ad Hermês, messaggero Argeiphôn, di darle
un'indole ingannatrice e l'anima di una cagna.
Così egli parlò; ed essi obbedirono al sovrano, il cronide Zeús.
E senza indugio, l'inclito ambidestro plasmò con la terra
un'immagine simile a una casta fanciulla, per volere del cronide;
Athēnâ occhi azzurri le annodò la cintura e l'adornò;
attorno al collo le Chárites e la veneranda Peithṓ
le misero aurei monili; la incoronarono
le Hôrai, chiome fluenti, con fiori di primavera;
sul corpo le adattò ogni ornamento Pallàs Athēnâ.
Quindi, nel suo petto le infuse, l'araldo Argeiphôn,
le menzogne, gli astuti discorsi e un 'indole ingannatrice,
così come voleva Zeús dal cupo fragore, e voce
infine le diede l'araldo divino. Questa donna fu chiamata
Pandṓra perché tutti gli abitanti dell'Ólympos
le dettero doni, sciagura per gli uomini che si nutrono di pane.
(Hēsíodos, Érga kaì Hēmérai 60-82)

John William Waterhouse Pandora (1896)

John William Waterhouse Pandora (1896) (dettaglio).


Da lei [Pandṓra] infatti discende la stirpe nefasta e la razza delle donne
che, sciagura grande per i mortali, fra gli uomini [ándres] hanno dimora,
compagne non di rovinosa indigenza ma d'abbondanza.
(Hēsíodos, Theogonía 591-593).

Alexandre Cabanel, Pandora, 1873, Baltimora, Walters Art Museum

Artista Sconosciuto, Pandora.


Come quando negli alveari ombrosi le api
nutrono i fuchi, partecipi di opere cattive:
esse per tutto il giorno, fino al tramonto del sole,
ogni giorno s'affrettano sollecite e fanno i bianchi favi,
ma quelli restando dentro gli ombrosi alveari
l'altrui fatica nel loro ventre raccolgono;
così per gli uomini mortali un male, le donne,
Zeús alto tonante fece, partecipi d'opere
moleste, e un altro male diede in cambio d'un bene.
Colui che fuggendo le nozze e le moleste opere delle donne
non vuole sposarsi e giunge alla triste vecchiaia
privo di chi della sua vecchiaia abbia cura, costui non di vitto mancante
vive, ma lui morto, i suoi beni dividono
remoti cognati; per colui invece a cui le nozze diedero il destino
ed ebbe una buona sposa, saggia nel cuore,
per lui per tutta la vita, il male contende col bene,
senza sosta; ma chi s'imbatte in una funesta genìa
vive tenendo dentro al petto incessante dolore,
nel cuore e nell'anima, e il male non ha medicina.
Così non si può ingannare il volere di Zeús, né ad esso sottrarsi...
(Hēsíodos, Theogonía 594-613).




Domenica mattina, mancano pochi minuti alle 8.00, nella sala colazioni dell’hotel non c’è nessuno ancora, Milano dorme dopo la notte allegra del sabato, e dormono anche i turisti; io non sono turista, ho un congresso alle 9.00 in punto, sto facendo colazione, venti minuti di strada a piedi, col mio passo abbastanza veloce, qualche minuto per i saluti, riabbracciare vecchi amici, i convenevoli, in genere si comincia puntuali con questo gruppo di lavoro, odio aspettare gli inizi, preferisco avere delle pause più lunghe in mezzo ai lavori che iniziare in ritardo e poi fare un’unica tirata o una breve pausa.
Bevo un bicchiere colmo d’acqua naturale, come faccio ogni mattina per abitudine, un’abitudine sana, perché dopo molte ore l’organismo necessita come prima cosa di acqua, il secondo elemento essenziale è lo zucchero, il tanto vituperato glucosio in particolare, perché il cervello si nutre di glucosio puro e dopo otto ore di digiuno il livello degli zuccheri è notevolmente basso.
Mi guardo intorno, conosco l’hotel, non è la prima volta che vado, lo frequento da anni e posso dire di conoscere molti se non tutti quelli che ci lavorano, con alcuni sono in rapporti cordiali, come con la signora che in questo momento organizza e dirige il servizio colazione e che si occupa anche a turno con altre persone del bar e del ristorante.
Talvolta mi offre un caffè o un digestivo e si ferma a scambiare due parole se può, ci chiamiamo per nome, so qualcosa della sua vita privata perché lei qualcosa me l’ha confidato e lei conosce i motivi per cui capito spesso in quella città e qualche indiscrezione che coglie qua e la.
Guardo le brioches al buffet, sono ancora le otto del mattino, il fornaio le avrà consegnate solo un’ora avanti, in tempo per la colazione che inizia alle sette, ma sono già di gomma; è strano, in genere a Milano nei bar difficilmente trovi delle brioches pessime come quelle, eppure in quasi tutti gli hotel è così, brioches di gomma … le faranno appositamente per gli hotel.
Le guardo schifato e passo oltre, ci sarebbe poi la torta al cioccolato, fatta dal pasticciere del ristorante (che è molto bravo) la sera prima, e conservata per la colazione, è ancora intera perché io devo essere davvero il primo ospite a scendere in sala e servirmi, sembra quasi un peccato doverla tagliare, è molto invitante, ma non mi faccio tentare.
I grassi, che pure non godono di una buona reputazione, sono anch’essi importanti per l’organismo, ma non bisogna esagerare, e la sera prima ho mangiato molto bene a cena con i miei colleghi, e credo di aver fatto un rifornimento di grassi sufficiente per tutta la settimana; viro la mia attenzione su dei panini molto piccoli, quasi delle palline di farina, sono croccanti fuori e morbidi dentro, ne prendo un paio, un vasetto di marmellata, mi piace spalmarle col coltello a spatola e odio quando mettono la marmellata o il miele in vaschette di plastica o in quei sifoni anch’essi di plastica come se fosse ketchup.
Infine, chiedo cortesemente un espresso, ed è mentre la doppia esse finale della parola espressssso sibila ancora nell’aria che entra lei; la prima cosa che mi colpisce prima ancora del viso, degli occhi, del fisico o delle sue mani è il suo modo di incedere, il suo portamento, da regina, da donna fiera di esserlo e nel pieno rigoglio delle forze, della sua maturità e della sua femminilità.
Su quella fronte nobile e sul viso altero stanno incastonati come gemme due splendidi occhi verdi, da gatta certo, ma non glaciali, piuttosto dolci direi e malinconici, seppure pronti ad accendersi di lampi e scintille se dovessero incontrare qualcosa che incroci il loro interesse.
I capelli sono corti e sarebbe una disdetta per uno come me a cui piacciono le donne capellute, quelle a cui cadono a cascata ciocche copiose di capelli da ogni lato, quelle che ti avvinghiano a sé con tutti quei fili sottili, ma devo ammettere che in quel viso il capello corto sta molto meglio di lunghe onde di capelli, e anche il colore sembra dipinto apposta per esaltarne la bellezza, un biondo cenere naturale, con punte un po’ più chiare e qualche filo argentato ai lati non coperto da nessun colore che le da un fascino tutto particolare di donna sicura della sua bellezza al punto da piacersi così anche se la trama del tempo appare sulla sua chioma.
Deve avere, forse, qualche anno in più di me, me ne accorgo da molte cose, ma ne dimostra dieci in meno; è ben vestita, da turista, ha una bella voce, nonostante il forte accento tedesco e l’italiano incerto che pronuncia.
Si accorge di me, mi guarda e mi sorride, di un sorriso che potrebbe significare: “Sono contenta di fare la colazione in tua compagnia”, fino a “Che splendido esemplare di interessante maschio italico di prima mattina”, rispondo educatamente al sorriso e la saluto, lei contraccambia con un sorriso più aperto … ora è divertita e intrigata da quell’incontro.
Prende posto, sta un attimo seduta a guardarsi intorno come se fosse venuta li solo perché non aveva di meglio da fare, ogni tanto posa il suo sguardo su di me e mi regala qualche timido sorriso, sbatte le sue lunghe ciglia come se volesse mettermi meglio a fuoco, sembra una bambina che abbia trovato un giocattolo interessante.
Poi si alza come se si scuotesse da un sogno ad occhi aperti, come se si fosse appena svegliata, si dirige al buffet ed è costretta a darmi le spalle, non vedo cosa sta facendo, guarda, gira, scruta, seleziona, il succo d’arancia che prende lo vedo benissimo, il resto posso solo congetturarlo, tirare ad indovinare, diventa interessante per me immaginare cosa sta mettendo nel suo piatto, e forse lei non immagina neanche di essere l’oggetto di una simile curiosità … in fondo quella schiena offriva già da sola una materia molto più interessante alla mia curiosità.

(Intarsio del 04-06-2014, ore 10.20)



Molti individui di sesso maschile si sarebbero deliziati soltanto di quella visione, altro che volgere la loro curiosità sulla sua colazione, i più esperti si sarebbero posti il problema del calcolo esatto dell’angolo di curvatura dell’attaccatura delle natiche, della misurazione dell’angolo giro, con l’occhio esperto come se avessero un invisibile goniometro, come se fin da piccoli non avessero giocato altro che al piccolo geometra.
In fondo è fondamentale sapere se la curvatura è dolce, se assomiglia più ad una rotonda o all’imbocco di un’autostrada, i cardini dell’universo riposano su questo mistero, che è più intrigante della scoperta delle sorgenti del Nilo o di sapere se Pauline di Tempesta d’Amore sposerà Daniel o Leonard.
Nei bar fra maschi si accendono interminabili dispute  su quanti gradi, primi e secondi o su quanti radianti misura un sedere, non importa se siano analfabeti o laureati in lettere, in questi casi si improvvisano tutti geometri provetti (c'è chi crede addirittura di poter eguagliare Giotto, Brunelleschi, Michelangelo, Bramante, Leon Battista Alberti o Bernini), come durante i mondiali sono tutti mister, e si accettano scommesse.

Non si è mai sicuri di aver misurato correttamente perché molti sono i fattori che influiscono sull’angolo di curvatura: dalle fasi lunari (condizionano le maree, volete che non influiscano anche sui rilievi e sulle misurazioni?), alla fetta di tiramisù che la signora ha mangiato nel frattempo, alle discrepanze fra una misurazione effettuata a distanza, col goniometro mentale, su superfici coperte da vestiti e che si presuppongono lisce e la superficie reale, che magari potrebbe presentare delle asperità come la superficie lunare, dovute all’increspatura a buccia d’arancia chiamata cellulite che colpisce certe donne o a isole adipose selvagge che creano rigonfiamenti e avvallamenti anomali e, in ultimo, all’abitudine alla sedentarietà, che a lungo andare crea il fenomeno del sedere quadrato anziché tondo, o quello strano fenomeno per cui esso si conforma alla linea ergonomica delle poltrone da ufficio, della sedia della cattedra o alla conformazione del divano, plasmandosi con le spinte e controspinte del cuoio, della stoffa, delle molle interne o del gradiente di resistenza del lattice.

(Fine).


Ecco, le brioches le ha guardate, poi le ha scartate, brava, sarai tedesca ma non sei mica balùba (come si dice da queste parti), le brioches di gomma proprio no, nonostante facciano tanto colazione latina (italiana e francese sostanzialmente) non è il caso di insistere visto l’aspetto con cui si presentano.
Poi però spunta fuori la cultura teutonica, abbandonata l’idea della brioches, artiglia con la forchetta fette di formaggio e di salame ungherese, che pone accanto al vasetto di marmellata … quando lo prende si gira a guardarmi perché ha notato che io l’avevo preso, come a chiedermi come l’avessi trovata, e quando le faccio un cenno di assenso e un sorriso lo mette sul suo piatto con qualche panino.
E fin qui, tenuto conto delle sue origini germaniche, siamo ancora nell’ambito dell’accettabile, ma poi accade qualcosa che fa precipitare tutto, che spegne all’improvviso ogni simpatia, che oscura bellezza e portamento, che mette definitivamente una stele tombale non solo ad ogni possibile rapporto fra me e lei, ma fra Italia e Germania e fa vacillare le fondamenta stesse della Comunità Europea.
Ella si avvicina pericolosamente ad un angolo della sala che per me è tabù, li dove negli hotel che servono una colazione internazionale trovi il pane tostato, il bacon grigliato, le uova sode e quelle strapazzate; quasi volteggiando in un valzer immaginario, con la stessa nonchalance di Pandora quando scoperchiò il vaso donatole da Zeus e che conteneva tutti i mali del mondo, ella aprì il coperchio dello scaldavivande in acciaio e cominciò a servirsi col cucchiaio delle uova strapazzate che li venivano conservate ad una temperatura costante.
Una zaffata nauseabonda di uovo cucinato si spanse in tutta la sala e si portò via all’istante ogni nuanche di romanticismo, ogni nota di tenerezza, ogni corrente affettiva avesse iniziato a tessersi in quei pochi minuti d’incontro, quell’odore orribile saturò l’aria della sala e “in quel giorno tutte le fonti del grande abisso irruppero e le cataratte del cielo si aprirono e la pioggia cadde sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti” (Genesi, 7, 11-12).
Giratasi e tornata trionfante al suo tavolo col suo bottino, si è accorta che non la guardavo più, che non solo non c’era più ombra di simpatia per lei sul mio viso, ma nemmeno un’ombra di interesse; mi ha piantato i suoi occhi addosso per un istante come se volesse capire, poi ha scosso un po’ la testa e magari avrà pensato di aver equivocato, questi italiani espansivi, cordiali, ma i cui gesti possono facilmente essere scambiati per interesse, per una forma di discreto corteggiamento, mentre volevano essere soltanto buona educazione. Non avrà pensato nemmeno lontanamente alle uova strapazzate, che in quel preciso istante in cui ha aperto lo sportellino dello scaldavivande per me la bella donna con un corpo che sfidava le leggi della fisica e quelle della gravitazione universale è diventata semplicemente una volgare mangiatrice di uova.
Non ho visto l’ora che arrivasse il mio espresssso, che un po’ mi riconciliasse col mondo, per scappare, uscire all’aria aperta e respirare l’odore di Milano la domenica mattina, un vago odore d’ozono, di caffè appena fatto, di brioches appena sfornate, di tiglio e di gelsomino che al fresco del mattino esprimono tutta la loro fragranza e quel caldo odore di alcova che si sprigiona aprendo le finestre dopo i vapori e gli afrori della notte, per togliermi dalle narici quello che aveva invaso la sala.
Avrei voluto uscire con una smorfia schifata e, come Totò, alzando la polvere sotto i piedi nella sua direzione, ma mi sono limitato ad un saluto freddo e di circostanza, mentre la signora mia conoscente l’ ho salutata in maniera molto più calorosa, con un abbraccio visto che finito il servizio colazioni finiva anche il turno e che non l’avrei rivista alla mia partenza subito dopo pranzo.   


(Aggiunto il 04-06-2014, ore 10.22).


Davvero poche sono le cose che noi maschi non perdoneremmo alle donne, soprattutto quando ci guardano con certi occhioni teneri e maliziosi al tempo stesso, non voglio qui fare un elenco, perché potrebbe essere compromettente esprimere in anticipo ciò che saresti disposto a perdonare ad una donna, è come darle licenza di farlo, e impunemente per giunta, per cui io non ho detto niente e rimango inflessibile (insomma, Dio perdona, io no!), tranne certamente almeno due cose: la volgarità e le uova strapazzate.
Queste ultime poi sono particolarmente odiose, se proprio devono, se non possono farne a meno, che almeno sia di nascosto, quando lui non c’è, circondate da segretezza e da sotterfugi e consumate squallidamente e fugacemente in qualche sala colazioni di un hotel.




Elpís, la speranza, è l'unica buona cosa che sia rimasta tra gli uomini; tutte le altre ci hanno lasciato e sono tornate sull'Ólympos. Pístis, la potente fiducia, è partita; Sōphrosýnē, la moderazione, ha lasciato gli uomini; le Chárites, le grazie, amico mio, hanno abbandonato la terra. Dei giuramenti e dei giudizi degli uomini non c'è più da fidarsi, e nessuno più venera gli dèi immortali. La razza degli uomini pii è perita, e coloro che sono rimasti non conoscono più né regole né pietà.
(Théognis, Phragmenta [I, 1135]).




“Scoppiai inverecondamente in singhiozzi e fuggii nella mia cella, dove per tutta la notte morsi il pagliericcio e mugolai impotente, perché non mi era neppure concesso - come avevo letto nei romanzi cavallereschi coi miei compagni a Melk - di lamentarmi invocando il nome dell'amata. Dell'unico amore terreno della mia vita non sapevo, e non seppi mai, il nome”.
(Umberto Eco, Il nome della rosa, Quinto giorno, Compieta, Bompiani, 1980, p. 409).





"Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus [la rosa primigenia esiste in quanto nome, possediamo i semplici nomi]”.
(Umberto Eco, Il nome della rosa, Ultimo folio, Bompiani, 19080, p. 503).



8 commenti:

  1. Adso non avrà conosciuto il nome della rosa ma in qualche modo la colse...battute a parte, conosco bene quella tremenda sensazione che lo specchio si incrina e in un istante l'immagine che stava per riflettere va in frantumi, a me capitò in maniera anche più brutale. Ero a Torino per lavoro e nell'azienda dove lavoravo c'era un ragazzo che stava nello stesso albergo dov'ero io, aveva un viso che sembrava dipinto da Botticelli. La mattina presto ci avviammo insieme per andare al lavoro e mentre stavo parlando...beh diciamo che lui sentì l'esigenza di schiarirsi la gola da un eccesso di salivazione..., il cristallo andò immediatamente in frantumi, persi il filo del discorso e alla sua domanda "dicevi?" non mi raccapezzai più, non ricordo neanche se dissi altro lungo il tragitto, sono passati tanti anni, davvero molti e ancora non sono riuscito a mettere insieme le immagini di un viso così delicato con un atto simile, le due cose proprio non si incontrano! Come vedi questo è ben più grave di una palata di uova a colazione, forse aveva bisogno di proteine di origine animale, dovresti essere più clemente... ;-D ant

    RispondiElimina
  2. Adso colse la rosa, ma la rimpianse tutta la vita perché di quella rosa gli rimasero solo le spine conficcate nel cuore, un romanziere si che dovrebbe essere più clemente con i suoi personaggi, Umberto Eco avrebbe dovuto farli sposare Adso e la fanciulla “bella come esercito schierato in battaglia”, magari dopo diverse peripezie e impedimenti, non far morire lei sul rogo e tumulare lui nel monastero di Melk. Se avessi scritto io il romanzo, sarebbe andata così, ecco perché non l'ho scritto io e perché ha avuto successo: perché sono gli amori impossibili quelli che catturano la curiosità delle persone, gli amori disgraziati quelli che si narrano e, anche nelle favole (e anche ne I promessi sposi di Manzoni), quando termina la sequela di sciagure, gli autori chiudono con la formula “e vissero felici e contenti”, perché la felicità non si racconta, annoierebbe il lettore.
    Vedo dal tuo commento che non comprendi il mio dramma, solo qualche palata di uova strapazzate? Bisogno di proteine animali? E l’odore dove lo metti? Io invece comprendo benissimo la tua sensazione di stupore e del vetro che si frantuma all’improvviso, anch’io ho avuto a che fare con una persona che sembrava uscita da un quadro di Botticelli (http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d2/Sandro_Botticelli_066.jpg) e non oso immaginare quale sarebbe stata la mia reazione se all’improvviso si fosse messa a schiarirsi la gola alla stessa del tuo personaggio botticelliano (Botticelli dovrebbe stare più attento, troppi personaggi da lui dipinti escono ed entrano dai suoi quadri a loro piacimento, si vedono in giro Veneri e Primavere come se piovesse, secondo me un personaggio dipinto dovrebbe stare sul quadro, non andarsene in giro ad irretire la gente perbene).
    Pensandoci bene, però, avresti almeno potuto proporre quel “ritratto botticelliano” per il sequel del film di Elliot Silverstein con Richard Harris (http://it.wikipedia.org/wiki/Un_uomo_chiamato_Cavallo) Un uomo chiamato catarro.
    Ciao

    RispondiElimina
  3. macché Harris, quello era un angelo della madonna del magnificat! Un uomo chiamato catarro... :-o
    Spiacente di non aver compreso il dramma ma se, come dici, sono gli amori infranti che si narrano allora tocca badare che non si caschi nelle malie della narrazione, lei sì che è donna fatale, si conforma all'immagine inseguita e come proteo prende la forma che gli dai, non farebbe mai l'errore di mangiare uova maleodoranti di primo mattino!
    Ciao

    RispondiElimina
  4. Torno a trovarti dopo un periodaccio di improrogabili impegni.
    Dovrò stare molto attenta quando le mie ansie di seduzione si fanno sentire a non mangiare uova strapazzate o a ruttare dopo aver beduto acqua frizzante... A parte gli scherzi devo constare che i maschietti sono molto severi nel giudicarci, noi sopportiamo meglio le "sconcezze" che ci vengono continuamente propinate dall'altro sesso. Ciao .-)

    RispondiElimina
  5. L'anonimo sopra ero io SPECCHIO

    RispondiElimina
  6. Mia Cara,
    ben ritrovata, mi sa che “quando le mie ansie di seduzione si fanno sentire” dovrai stare ben attenta con l’acqua gasata se ti provoca quelle fastidiose manifestazioni … le uova strapazzate sono una mia idiosincrasia, basta trovare qualcuno che non ne sia infastidito ;-)
    In quanto alla severità nel giudicare l’altro sesso, io credo che la stragrande maggioranza delle donne sia iper-critica, da sfiorare la ferocia e l’accanimento, verso se stessa … tanto che non pare loro vero di trovare qualche straccio di maschietto su cui dirigere questa ferocia per non farsi troppo male da sole. Io tremo all’idea di capitare fra le grinfie di una donna che porta un tacco superiore al 10 … se già una donna è capace di infliggersi da sola quella tortura, chissà cosa sarebbe capace di fare a me.
    Ma più di tutte temo quelle donne che vanno a vedere quei filmoni melodrammatici strappalacrime o, peggio, quelle che possiedono il libro di ricette della Parodi, in questi casi si sfiora davvero la crudeltà mentale, l’appello alla convenzione di Ginevra, il richiamo ai diritti civili.
    Noi “ometti” siamo cherubini del primo cerchio in confronto al sesso femminile :-).
    Ciao

    RispondiElimina
  7. @ Antonio,
    il tuo discorso è arguto e sottile, mi fa riflettere, e mi fa ammettere che l’immagine narrativa che ci creiamo, quando ci piace, quando ci sembra praticamente perfetta, dobbiamo dotarla di qualche difetto, non importa quale, anche se dovessimo enfatizzarlo, per allontanarci non tanto dalla malìa della narrazione (in cui ci stiamo a nostro agio, visto che è la nostra narrazione e che la creiamo perché sia quanto più confortevole possibile), ma dalla malìa dell’altro (e nota che non ho detto del “reale”, perché cos’è “reale”?), per poi ritrovarlo in maniera che possiamo farlo nostro.
    Frau Petra, da indiscrezioni (ho già detto che conosco piuttosto bene il personale dell’hotel) capita spesso a Milano, basterà fare attenzione perché quando lei cala in Italia dalla sua Alemagna trovi delle ottime brioches fragranti che non le facciano rimpiangere troppo le sue uova strapazzate.
    Ciao

    RispondiElimina
  8. Ammazza, pensi se le dava una fiatata di cipolla e speck!

    RispondiElimina