venerdì 21 marzo 2025

ESSERE E TESSERE IV

 






"Sogni, e favole io fingo; e pure in carte

mentre favole, e sogni orno, e disegno,

io lor, folle ch'io son, prendo tal parte,

che del mal che inventai piango, e mi sdegno.

 Ma forse, allor che non m'inganna l'arte,

piú saggio io sono? È l'agitato ingegno

forse allor piú tranquillo? O forse parte

da piú salda cagion l'amor, lo sdegno?

 Ah che non sol quelle, ch'io canto, o scrivo,

favole son; ma quanto temo, o spero,

tutto è menzogna, e delirando io vivo!

 Sogno della mia vita è il corso intero.

Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,

fa ch'io trovi riposo in sen del Vero."

(Pietro Metastasio, Rime).


“ - O animali miei, rispose Zarathustra, continuate a ciarlare così e lasciate che io vi ascolti! È per me un tale ristoro che voi chiacchieriate: là dove si chiacchiera, il mondo già mi si stende davanti come un giardino. Dolce è che vi siano parole e suoni: non son forse, parole e suoni, arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità?

Ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima, ogni altra anima è un mondo dietro il mondo. Proprio tra le cose più simili tra loro, si insinua la parvenza come la più bella delle menzogne; infatti l’abisso più tenue è il più difficile da superare.

Per me - come potrebbe esistere un al-di-fuori-di-me? Non esiste un fuori! Ma questo noi lo dimentichiamo in ogni suono che emettiamo; com’è dolce che noi dimentichiamo!

Non sono stati donati alle cose nomi e suoni, perché l’uomo trovi ristoro nelle cose? Il parlare è una follia bella: con esso l’uomo danza su tutte le cose.

Com’è dolce ogni discorso e ogni bugia di suoni! Con suoni il nostro amore danza su arcobaleni multicolori”. 

(Friedrich W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte III, Il convalescente, Adelphi, 1985, p. 265).


Sii paziente; aspetta  
che la parola sia matura  
e si stacchi come un frutto  
quando passa il vento e la cattura.

(Eugénio de Andrade, consiglio)


“Usavo a quel tempo ancora le parole. Piccoli regali. Fiori. La corteggiavo. Lei buttava via i fiori. Rideva delle parole. Dei regali non sapeva che farsene”.

(Fleur Jaeggy, Sono il fratello di XX, Agnes).


“[…] e se non si può parlare il piacere amoroso diminuisce di almeno due terzi”.

(Giacomo Casanova, Memorie scritte da lui medesimo, Garzanti, Milano, 1982).









Spiegazione del reale assumendo come base di partenza l'impossibile. Curioso modo di procedere del pensiero! Procedimento paradossale quanti altri mai, procedimento che chiameremo archimedeo, o meglio platonico: spiegazione, o meglio ricostruzione del reale empirico partendo da un reale ideale. Modo di procedere paradossale, difficile e rischioso; e l'esempio di Galíleo e di Descartes ci farà immediatamente constatare la sua contraddizione essenziale: necessità di una conversione totale, di una sostituzione radicale di un mondo matematico, platonico, alla realtà empirica – poiché solo in questo mondo valgono e si realizzano le leggi ideali della fisica classica – e impossibilità di questa sostituzione totale che farebbe scomparire la realtà empirica invece di spiegarla, e che, invece di risolvere i fenomeni, farebbe apparire fra la realtà empirica e la realtà ideale il baratro mortale del fatto non spiegato. Ora, fin da Pisa, l'archimedismo galileiano si scontra con il fatto.

(Alexandre Koyré,  Etudes galiléennes, tr. di Maurizio Torrini, Studi galileiani, Einaudi, Torino, 1976, Cap. II, 2, p. 135).


“Ricordare non basta, bisogna saper dimenticare. Solo quando i ricordi, in noi, divengono sangue, sguardo e gesto; quando non hanno più nome e non si distinguono più dal nostro essere, solo allora può avvenire che, in un rarissimo istante di grazia, dal loro folto, prorompa e si levi la prima parola di un verso”.

(Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge).


“I’ son Beatrice che ti faccio andare;/ vegno del loco ove tornar disio;/ amor mi mosse, che mi fa parlare.” (Divina Commedia, Inferno, II, vv 70-72).


“Il simbolo si manifesta in primo luogo come l’uccisione della Cosa [ma] questa morte costituisce nel soggetto l’eternizzazione del suo desiderio”. 

(Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, Vol. 1, p. 313).


“Noi non solamente parliamo il linguaggio, ma parliamo (attingendo moto e sostanza del parlare) dal linguaggio”. 

(Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973, p. 200).







«[…] l’uso del linguaggio proprio del sociopatico, paradossalmente, coincide con la nozione standard che comunemente si attribuisce al linguaggio, la nozione, cioè, che intende il linguaggio come mezzo di comunicazione puramente strumentale, ossia come un insieme di segni che trasmettono significati. Il sociopatico usa il linguaggio: in questo senso non ne è implicato ed è insensibile alla dimensione performativa»

(S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, p.35).


“Il linguaggio opera interamente nell'ambiguità, e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite.“   

(Jacques Lacan Origine: Il Seminario III: Le Psicosi, p. 136).


“Nella vostra interlocuzione più corrente, il linguaggio ha un valore puramente fittizio, prestate all'altro la sensazione che siete sempre lí, cioè che siete capaci di dare la risposta che si attende, e che non ha alcun rapporto con alcunché sia possibile approfondire. I nove decimi dei discorsi effettivamente tenuti sono a questo titolo completamente fittizi“. 

(Jacques Lacan Origine: Il Seminario III: Le Psicosi, p. 137).


“L’amore, come afferma Lacan, diversamente dall’anonimato del godimento pulsionale, non può che essere ‘amore del nome’. Se l’anonimato può accompagnare il rapporto sessuale - si possono avere rapporti sessuali senza conoscere nemmeno il nome del partner -, non è possibile amarsi se non attraverso il riconoscimento dei propri nomi. Per questo la tendenza degli amanti è quella di nominarsi in modo nuovo, di rinominarsi, di battezzarsi nuovamente con nomignoli, con altri nomi, con nomi nuovi”. 

(Massimo Recalcati, Esiste il rapporto sessuale? Desiderio, amore e godimento, Raffaello Cortina, Milano, 2021, p. 155).


“La morte non è

Nel non poter comunicare

Ma nel non poter più essere compresi”.

(P.P. Pasolini, (1964), Una disperata vitalità, in Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano, 2001, pp. 112-114).







“Ma le sue [di Carmine, il suo amante che l’ha appena lasciata] parole si sono impadronite del diritto di vivere senza il permesso della mia intelligenza, come è sempre nelle «vicende del cuore».  […] Ma l’amore non è assoluto e nemmeno eterno, e non c’è solo amore fra uomo e donna, possibilmente consacrato. Si poteva amare un uomo, una donna, un albero e forse anche un asino, come dice Shakespeare [Sogno di una notte di mezza estate]. Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali … E poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione. Imparai a leggere i libri in un altro modo. Man mano che incontravo una certa parola, un certo aggettivo, li tiravo fuori dal loro contesto e li analizzavo per vedere se si potevano usare nel «mio» contesto. In quel primo tentativo di individuare la bugia nascosta dietro parole anche per me suggestive, mi accorsi di quante di esse e quindi di quanti falsi concetti ero stata vittima. E il mio odio crebbe giorno per giorno: l’odio di scoprirsi ingannati”.

(Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, 2015, pp. 134-135).


“ Che cosa sono io dunque? Uno scolare, anzi nemmeno questo; un amatore delle selve, un vagabondo solitario abituato a mandar fuori dal petto suoni incomposti in mezzo agli alti faggi e, presunzione e audacia somma, abituato a maneggiare la fragile penna all’ombra di un tenero lauro; non tanto creatore di opere, quanto lieto dei risultati ottenuti; un appassionato cultore più che un fervido inventore di poesia. Di nessuna setta io sono seguace: un cercatore del vero. E poiché la ricerca è ardua e io sono debole e maldestro nel compierla, spesso mi accade che, poco fidandomi delle mie opinioni, mi accontento di evitare l’errore e di attenermi al dubbio, disperando di raggiungere la verità”. (Lettera di Petrarca a Francesco Bruni, 25 ottobre 1362 (Seniles, 1, 6), riprodotta in Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller e John Herman Randall jr (a cura di), The Renaissance Philosophy of Man: Selections in Traslation, University of Chicago Press, Chicago-London 1948, 1969, p. 34. (La traduzione italiana è citata da Ernst Hatch Wilkins, Vita del Petrarca e La formazione del «Canzoniere», a cura di Remo Cesarani, Feltrinelli, Milano, 1964, p. 236).


“La struttura sincronizzata degli scambi è il prerequisito sociale non solo del linguaggio, ma anche del pensiero; ciò fonda l’ipotesi della costruzione sociale o relazionale dell’intelligenza”.

(M. W. Battacchi, La ricerca di base e la psicologia clinica, Rivista di Psicologia Clinica, 2, 1987, 136-149, p. 140).


“Se si accetta l’affermazione che ciò che chiamiamo mentale è il risultato di almeno due cervelli in interazione, è il caso di riflettere su un fatto abbastanza singolare e poco indagato. È noto come ricorda Oliver Sacks [Risvegli, Adelphi, Milano, 1987] attraverso la descrizione di alcuni suoi casi clinici, che certi parkinsoniani presentano delle difficoltà a camminare da soli. Incespicamenti, festinazione incontrollata, tic, cadute, acinesie asimmetriche, scompaiono come per incanto in taluni soggetti se c’è qualcuno che cammina con loro. Quasi che l’inadeguatezza legata alla disfunzione neurologica venga sopperita utilizzando, per riflesso, l’organizzazione cognitivo-motoria dell’altro”.

(E. Fiora, L. Pedrabissi, A, Salvini, Pluralismo teorico e pragmatismo conoscitivo in psicologia della personalità, Giuffrè, Milano, 1988, p. 15).


“… allorché noi produciamo pensieri nuovi, in realtà siamo in procinto di cambiare i nostri rapporti con il mondo circostante insieme ai nostri punti di riferimento sociale”.

(H. Gruber, Coraggio e sviluppo cognitivo nei bambini e negli scienziati, in Schwebel & Ralh, a cura di, Piaget in classe, Loescher, Torino, 1977, p. 96).







“La parola detta è solo una parte dell’estesa comunicazione semiotica che ha luogo tra i due partecipanti nel processo analitico. Non sto suggerendo che si presti attenzione unicamente al modo in cui il paziente si siede o appare. Sto suggerendo qualcosa di ben più elaborato - che ci siano, cioè, altre comunicazioni ampiamente codificate, intrise di informazioni quanto lo è la parola detta, che si verificano nell’area dell’intersoggettivo”.

(Edgar Levenson, 1979, Interpersonal Psychoanalysis and the Enigma of Consciousness, Routledge Taylor & Francis Group, p. 72).


“Le parole nutrono, e come il cibo vanno scelte bene prima di ingoiarle”. 

(Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, Torino, 2008, p. 341).


“- Tu ti ricordi della Grande Guerra, mamma?

  • Poco, Prando. Ero seppellita in un convento a quell’epoca.
  • Ma com’è la guerra? Come comincia? Io a volte mi trovo a desiderare che scoppi la guerra.
  • Perché sei giovane e la giovinezza ha bisogno d’avventura.
  • Sí, forse.
  • Ti ricordi che volevi fare il corsaro da bambino e poi l’esploratore? Impara a dubitare delle tue emozioni. La guerra non è un’avventura, l’avventura è quella che si sceglie, non qualcosa cui ti obbligano.
  • Dicono che se scoppiasse la guerra tutto sarebbe distrutto. Dicono che i tedeschi hanno armi nuove, potentissime.
  • Daniel, ti ricordi? ci raccontò di paesi interi distrutti dall’aviazione in Spagna.
  • Sí, ma quello è un pauroso! Io ho sentito racconti diversi della guerra in Abissinia, per esempio …
  • Dai fascisti Prando, non ti fidare! Sono sicura che un giorno, che forse né io né tu vedremo, la guerra sarà additata come un’infamia.
  • Ma anche voi parlate di guerra.
  • Di rivoluzione, è diverso! La rivoluzione significa legittima difesa contro chi ti aggredisce con l’arma della fame e dell’ignoranza.

[…]

  • … Il tuo desiderio d’avventura m’ha innervosito. Comprati la macchina che volevi e torna a gareggiare coi maschi come te, o parti per l’America, ruba, insomma, fa quello che vuoi! ma che tutto nasca da te e non da un ordine del re, del Duce, o del Führer! Desiderare la guerra è già piegare il futuro, e non solo il tuo, verso la sventura. Lo vuoi capire sí o no? È l’ultima volta che cerco di farmi capire da te e dai maschi boriosi come te. Tu non appartieni né allo Stato, né a me, e non ti illudere che io dia ordini. Sangue di Giuda! Ma come si deve fare per farvi capire che molti desideri vi vengono inculcati dall’alto per usarvi? Capisco che sia difficile per un povero che deve sfamarsi e imparare a leggere prima di sapere chi è e cosa vuole. Ma tu, tu hai pane e libri, e non puoi avere scusanti. Sei responsabile di te e di quelli che domani puoi trascinare con te”.

(Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, Torino, 2008, pp. 379-380).


“Mentono le parole, appena hai detto la parola questa ti ricade addosso come il coperchio di una bara”.

(Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi, Torino, 2008, p. 397).


“Era solito dire che non dalle parole bisogna cercare le opere, ma le parole dalle opere; ed infatti non con le parole si compiono le opere, ma le parole con le opere”.

(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Libro Primo, Misone, TEA, Milano, 1991, p. 43).







“La parola detta distrugge o separa i significati nella totalità indivisa del nominabile”. 

(Maurice Merleau-Ponty, 1964, Le visible et l’invisible, suivi de Notes de travail, a cura di Claude Lefort, tr. it. a cura di Mauro Carbone, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1993, p. 17).


“Lasciate che qualcuno provi a tagliare a metà un pensiero e dia un’occhiata alle sue sezioni, e vedrà com’è ardua l’osservazione introspettiva dei tratti transitivi. La corsa del pensiero è così forsennata che, quasi sempre, ci porta alla conclusione prima di poterlo fermare. Se la nostra intenzione è abbastanza agile e riusciamo a fermare il pensiero, esso cessa di essere immediatamente se stesso. Come un cristallo di neve catturato in una calda mano non è più un cristallo ma è diventato una goccia di neve sciolta, così piuttosto che catturare la sensazione di relazione a partire dal termine che la contraddistingue, ci accorgiamo di aver catturato qualcosa di sostanziale, solitamente l’ultima parola che stavamo pronunciando, presa staticamente e con la sua funzione, la sua predisposizione, ed il suo particolare significato quasi evaporato nella frase. Il tentativo di analisi introspettiva, in questi casi, è qualcosa come afferrare una trottola per catturare il suo movimento, o come cercare di alzare il gas della lampada abbastanza velocemente da poter osservare quale aspetto abbia il buio”.

(William James, 1890, The Principles of Psychology, tr. it. Principi di psicologia, a cura di G. Preti, Principato Editore, Milano, 2004, p. 244).


Vedi non ho parole eppure resto

a te accanto. Non ho voce eppure

muovo le labbra. Non ho fiato eppure

vivo e ti guardo. E forse è questo

che volevo da te, muta restare

al tuo fianco ascoltando la tua voce

il tuo passo scandire le mie ore. 

(Goliarda Sapienza, da “Ancestrale”, p. 23, La Vita Felice, 2013).


Di parole, ce ne sono che si nascondono in mezzo alle altre, come dei sassi. Non si riconoscono a prima vista e poi eccole lì che però ti fanno tremare tutta la vita che hai, tutta intera, e nel suo debole e nel suo forte… Allora è il panico… Una valanga… Resti lì come un impiccato, sopra le emozioni… è una tempesta che è arrivata, che è passata, troppo forte per te, così violenta che non l’avresti mai creduta possibile solo con dei sentimenti… Dunque, non si diffida mai abbastanza delle parole, è quel che concludo. 

(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte).


“Erano persone diverse e si figuravano una, però si figuravano muti, muti con la parola in bocca, e bisognava vedere se ce la facevano lo stesso a figurarsi una persona sola, d’un pensiero, non appena aprivano bocca e parlavano. Allora, non dipendeva più da loro, ma dalla parola, la parola avrebbe detto se si figuravano soltanto una persona sola, d’un pensiero, oppure effettivamente lo erano: perché, sinché uno se la tiene in bocca, è il padrone della parola, ma non appena la dice, a seconda del perché, percome la dice, e a seconda di chi la dice, è allora che rischia, rischia a volte che da padrone diventa servo suo e schiavo”.

(Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, BUR Rizzoli, 2003, p. 762). 







“L’anima, o caro,

si cura

con certi incantesimi,

e questi incantesimi

sono i discorsi belli”.

(Platone, Carmide, 157°).


“Amore che è un nulla ed è tutto, con questo tutto si puole tutto, si vuole tutto, tutto par bello, tutto par buono. Con questo tutto tutto si fa, tutto s’accetta, tutto si dona, tempo, azioni, discorsi e scritti”. (Lettera di Virginia Oldoini, in Verasis, nota come Contessa di Castiglione a Costantino Ressmann, Parigi, 1878?, AST, mazzo 16, fascicolo unico, sottofascicolo con annotazione in camicia “Lettere e appunti della Nicchia”, lettera 12,, in Benedetta Craveri, La contessa. Virginia Verasis di Castiglione, Adelphi, Milano, 2021, p. 270 e nota 1 a p. 413).


“Le parole sono importanti. Chi parla male pensa male e vive male”. (Nanni Moretti, film Palombella rossa, 1989).


“ Che cosa sono io dunque? Uno scolare, anzi nemmeno questo; un amatore delle selve, un vagabondo solitario abituato a mandar fuori dal petto suoni incomposti in mezzo agli alti faggi e, presunzione e audacia somma, abituato a maneggiare la fragile penna all’ombra di un tenero lauro; non tanto creatore di opere, quanto lieto dei risultati ottenuti; un appassionato cultore più che un fervido inventore di poesia. Di nessuna setta io sono seguace: un cercatore del vero. E poiché la ricerca è ardua e io sono debole e maldestro nel compierla, spesso mi accade che, poco fidandomi delle mie opinioni, mi accontento di evitare l’errore e di attenermi al dubbio, disperando di raggiungere la verità”. (Lettera di Petrarca a Francesco Bruni, 25 ottobre 1362 (Seniles, 1, 6), riprodotta in Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller e Jphn Herman Randall jr (a cura di), The Renaissance Philosophy of Man: Selections in Traslation, University of Chicago Press, Chicago-London 1948, 1969, p. 34. (La traduzione italiana è citata da Ernst Hatch Wilkins, Vita del Petrarca e La formazione del «Canzoniere», a cura di Remo Cesarani, Feltrinelli, Milano, 1964, p. 236).


“Siamo stati a lungo indotti a credere che il logos possa essere definito solo dalle strutture olimpiche, dai figli di Zeus, da Atena, o da Apollo, Ermes, Saturno; logos come forma, legge, sistema, o matematica. Ma Eraclito ci ha detto che è come il fuoco, un flusso; e Gesù, che è amore. Ogni Dio ha il suo logos, che non ha un’unica definizione, ma che è sostanzialmente il potere intuitivo della mente di creare un cosmo e di dargli un senso; è una parola antica per la nostra parola peggiore: coscienza”.

(James Hillman, (1983), Le storie che curano. Freud. Jung. Adler, Raffaello Cortina, 2021, pp. 67-68). 

 






Per le parole? Le parole cose d'aria, sono.

[Andrea Camilleri, La forma dell'acqua, Sellerio, 2000] Andrea Camilleri, La forma dell'acqua, op.cit., p. 119.  


Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.

O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d'anfora, a quartara.

O in una lingua che alla pece affida
l'orma sua, l'inoltra a sera nell'estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d'Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.

O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.

O in quella lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.

O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d'Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.


O in una lingua che non so più dire.
(Stefano D’Arrigo, In una lingua che non so più dire, da Codice siciliano, Scheiwiller 1957).


“Il linguaggio non è della lingua, ma del cuore. La lingua è solo lo strumento con il quale parliamo. Chi è muto, è muto nel suo cuore, non già nella lingua […]. Quali le tue parole, tale il tuo cuore”.

(Paracelso, in James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, Milano, 2002, p. 41).


“ Le parole, le parole, andava ragionando in quel momento, che grande stranezza sono le parole. Tante volte si partono dal luogo d’origine, dalla cosa, dalla persona, dal fatto d’origine, e si traslocano, girano, girano: tante volte però, si traslocano, girano e girano come ombre senza più il corpo, senza più il significato del luogo d’origine, cioè a dire il significato che persona, cosa o fatto avevano d’origine e che le pittava”.

(Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, p. 685).


“Sa sedurre la carne la parola,
prepara il gesto, produce destini…
È martirio il verso,
è emergenza di sangue che cola
e s’aggruma ai confini
del suo inverso sessuato, controverso”.

(Patrizia Valduga, Medicamenta e altri medicamenta, Einaudi, Torino, 1989).



“Le parole non bastano e sdraiarsi nel comodo letto della vanità ciarliera è come farsi smidollare da una cupa e sonnolenta meretrice. Le ‘parole’ sono le ancelle d’una Circe bagasciona, e tramutano in bestia chi si lascia affascinare dal loro tintinno”.

(Carlo Emilio Gadda, Meditazione milanese, 1a ed. a cura di G.C. Roscioni, Torino, Einaudi, 1974.)


“Una situazione clinica può contribuire a precisare come, quando non c’è accesso al linguaggio (come in un neonato preverbale) o quando si perde la parola (come in un’afasia), Dio non è concepibile. Qualche anno fa un brillante psicoanalista lacaniano aveva sofferto di afasia transitoria: una leggerissima trombosi vascolare aveva necrotizzato il suo lobo temporale sinistro rendendolo incapace di parlare per qualche ora. Poi, grazie ai farmaci e alla sua forte costituzione, la vascolarizzazione si era ristabilita e lui era ritornato a parlare. In un articolo sorprendente, lo studioso racconta le ore trascorse in quel mondo senza parole. Spiegando come, con la scomparsa del linguaggio, si ridiventi sottomessi alle stimolazioni del contesto. Quando il medico che si era seduto sul suo letto si allontanava, l’afasico «si attaccava a quella massa che, allontanandosi dal suo letto lasciava la propria traccia, uno spazio vuoto, un luogo». Come narra lo psicoanalista privato temporaneamente del linguaggio, «per dire ‘ufficio’ lo indicava col dito»; non ero che «tensione corporea verso la parola». Quando varie ore dopo aveva ripreso a parlare, l’uomo si era reso conto di non percepire più lo stesso mondo precedente. Il suo corpo, prima appesantito da un mondo senza parole, era divenuto più leggero: «Ora che posso parlare, mi sento come un uccello in volo». Altri malati nella stessa situazione, per descrivere una sensazione simile usano metafore come «tomba» o «piombo». Alla ricomparsa del linguaggio provano la sensazione di avere «le ali ai piedi», di «volare sopra le montagne» perché la parola trasforma la rappresentazione del tempo dando accesso a un impercepibile mondo metafisico, quello dei cieli dove voleremo dopo la morte”.

(Il brillante psicoanalista lacaniano è Serge Zlatine, che ha raccontato la sua esperienza nell’articolo Praxis de l’aphasie: au moment de réspondre, «Ornicar», n. 33, estate 1985, pp. 65-68; cit. da Boris Cyrulnik, 2017, Psicoterapia di Dio, Bollati Boringhieri, Torino, 2018, pp. 76-77).


“Freud credeva che solo la parola potesse dar accesso all’inconscio. Nuova contraddizione: non aveva forse lui stesso affermato che il sogno era un viaggio al di la della ragione? Un viaggio visuale intessuto di espressioni e di parole. in realtà, non riconosceva né l’arte cinematografica né il grande movimento espressionista, che affermava la sua volontà di esprimere, attraverso colori violenti o linee di frattura, una visione della soggettività tormentata, pulsionale, violenta, caotica, attraversata da un immaginario fantastico.

Possiamo dunque capire come egli abbia rifiutato di concorrere, con la somma di centomila dollari, al progetto di Samuel Goldwyn di realizzare un film su celebri storie d’amore. Ma quando Hanns Sachs fu sollecitato da Hans Neumann, sul finire degli anni venti, a partecipare alla stesura del copione di I misteri di un’anima, che doveva essere girato da Wilhelm Pabst, regista d’origine austriaca, adottò lo stesso atteggiamento, benché si trattasse di un progetto completamente diverso. Dichiarò che le astrazioni del suo pensiero non potevano essere rappresentate in maniera plastica. Non riusciva a vedere fino a che punto il cinema muto in bianco e nero avesse già invaso l’ambito del sogno con le sovrimpressioni, la tecnica della dissolvenza incrociata, i sottotitoli, i movimenti della fotocamera capaci di abolire il passato e il presente, di scivolare da uno sfondo all’altro, da un volto all’altro, o ancora di rappresentare scene primarie, reminescenze, oggetti bizzarri legando l’allucinazione a una realtà sapientemente ricostruita”.

(Élisabeth Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro, Einaudi, 2015, p. 297)


“Come punto nodale di molteplici rappresentazioni, la parola è, per così dire, un polisenso predestinato e le nevrosi (rappresentazioni ossessive, fobie) si servono, non meno arditamente del sogno, dei vantaggi che la parola offre in questo modo per la condensazione e il travestimento”.

(Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, OSF Vol. 3, p. 313).

 

Nessun commento:

Posta un commento