«”Il mare, il mare di Sicilia è il più
colorito, il più aromatico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non
riuscirete a guastare, fuori delle città, s’intende. Nelle trattorie a mare si
servono ancora i ‘rizzi’ spinosi spaccati a metà?”. “Lo rassicurai aggiungendo
però che pochi li mangiano adesso, per timore del tifo. “Eppure sono la più
bella cosa che avete laggiù, quelle cartilagini sanguigne quei simulacri di
organi femminili, profumati di sale e di alghe. Che tifo e tifo! Saranno pericolosi
come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all’immortalità. A Siracusa
li ho perentoriamente richiesti a Orsi [Paolo Orsi, Rovereto
1859- Rovereto 1935, grande archeologo e classicista, diresse il museo
archeologico di Siracusa, che sarà successivamente dedicato a lui, dal 1895 al
1934, e le campagne di scavi in Sicilia orientale. Fu dietro un suo
suggerimento che il conte Gargallo incaricò il grecista Ettore Romagnoli di dar
vita alle rappresentazioni classiche nel teatro greco di Siracusa nel 1913].
Che sapore, che aspetto divino! Il più bel ricordo dei miei ultimi cinquanta
anni!”».
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1961,
La sirena, ne I racconti, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 128).
Charm Isola Bella Gioielli D-Javù – Riccio di Mare |
Andrea Camilleri a Porto Empedocle qualche anno fa |
«Quando, in salotto, la buona
signora Carmagnola entrò portando il vassoio con i ricci, i limoni e il resto,
il senatore rimase estatico. “Come? Hai pensato a questo? Come fai a sapere che
sono la cosa che desidero di più?”. “Può mangiarli sicuro, senatore, ancora
stamani erano nel mare della Riviera”. “Già, già, voialtri siete sempre gli
stessi, con le vostre servitù di decadenza, di putrescibilità; sempre con le
lunghe orecchie intese a spiare lo strascichio dei passi della Morte. Poveri
diavoli! Grazie, Corbera, sei stato un buon ‘famulus’. Peccato che non siano
del mare di laggiù, questi ricci, che non siano avvolti nelle nostre alghe; i
loro aculei non hanno certo fatto versare un sangue divino. Certo hai fatto
quanto era possibile, ma questi sono ricci quasi boreali, che sonnecchiavano
sulle fredde scogliere di Nervi o di Arenzano.
Si vedeva che era uno di quei
siciliani per i quali la Riviera Ligure, regione tropicale per i milanesi, è
invece una specie d’Islanda. I ricci, spaccati, mostravano le loro carni
ferite, sanguigne, stranamente compartimentate [La raffigurazione
compartimentata, granulosa, di colore arancio, o a bulino reticolato delle
incisioni degli organi femminili, è a volte presente in alcune rappresentazioni
sessuali di nudi prodotte nella cerchia del Cranach. Nota a margine di
Gioacchino Lanza Tomasi, musicologo amico e lontano cugino di Giuseppe Tomasi
di Lampedusa]. Non vi avevo mai badato prima di adesso, ma dopo i bizzarri
paragoni del senatore, essi mi sembravano davvero una sezione fatta in chissà
quali delicati organi femminili. Li degustava con avidità ma senza allegria,
raccolto, quasi compunto. Non volle strizzarvi sopra il limone. “Voialtri,
sempre con i vostri sapori accoppiati! Il riccio deve sapere anche di limone,
lo zucchero anche di cioccolata, l’amore anche di paradiso!”. Quando ebbe
finito bevve un sorso di vino, chiuse gli occhi. Dopo un po’ mi avvidi che da
sotto le palpebre avvizzite gli scivolarono due lagrime. Si alzò, si avvicinò
alla finestra, si asciugò guardingo gli occhi. Poi s volse: “Sei stato mai ad
Augusta, tu, Corbera?”. Vi ero stato tre mesi da recluta: durante le ore di
libera uscita in due o tre ore si prendeva una barca e si andava in giro nelle
acque trasparenti dei golfi. Dopo la mia risposta tacque; poi con voce
irritata: “E in quel golfetto interno, più in su di Punta Izzo, dietro la
collina che sovrasta le saline, voi cappelloni siate mai andati?”. “Certo; è il
più bel posto della Sicilia, per fortuna non ancora scoperto dai dopolavoristi.
La costa è selvaggia, è vero senatore? Completamente deserta, non si vede
neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di
là di queste onde cangianti, sale l’Etna: da nessun altro posto è bello come da
lì, calmo, possente, davvero divino. È uno dei luoghi nei quali si vede un
aspetto eterno di quell’isola che tanto scioccamente ha volto le spalle alla
sua vocazione che era quella di servir da pascolo per gli armenti del Sole”. Il
senatore taceva. Poi: “Sei un buon ragazzo, Corbera, se non fossi tanto
ignorante si sarebbe potuto fare qualcosa di te”. Si avvicinò, mi baciò in
fronte. “Adesso vai a prendere il tuo macinino. Voglio andare a casa”».
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1961,
La sirena, ne I racconti, Feltrinelli, Milano, 2017, pp. 134-136).
Andrea Camilleri |
Ristorante Scjabica, Punta secca, Santa Croce Camerina, Ragusa, chef Joseph Micieli |
Ristorante Arbor-Vitae Otranto |
«… a dir il vero, il sole, la
solitudine, le notti passate sotto il roteare delle stelle, il silenzio, lo
scarso nutrimento, lo studio di argomenti remoti, tessevano intorno a me come
una incantazione che mi predisponeva al prodigio. Questo venne a compiersi la
mattina del cinque Agosto alle sei. Mi ero svegliato da poco ed ero subito
salito in barca; pochi colpi di remo mi avevano allontanato dai ciottoli della
spiaggia e mi ero fermato sotto un roccione la cui ombra mi avrebbe protetto
dal sole che già saliva, gonfio di bella furia, e mutava in oro e in azzurro il
candore del mare aurorale. Declamavo, quando sentii un brusco abbassamento
dell’orlo della barca, a destra [un vero marinaio non avrebbe mai detto “a
destra”, ma “tribordo”], dietro di me, come se qualcheduno vi si fosse
aggrappato per salire. Mi voltai e la vidi: il volto liscio di una sedicenne
emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. Quell’adolescente
sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere
dentini aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei
sorrisi come se ne vedono fra voialtri, sempre imbastarditi da un’espressione
accessoria di benevolenza o d’ironia, di pietà, crudeltà o quel che sia; esso
esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una
quasi divina letizia. Questo sorriso fu il primo dei sortilegi che agisse su di
me rivelandomi paradisi di dimenticate serenità. Dai disordinati capelli color
di sole l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti
d’infantile purezza.
“La nostra ombrosa ragione, per
quanto predisposta, s’inalbera dinanzi al prodigio e quando ne avverte uno
cerca di appoggiarsi al ricordo di fenomeni banali; come chiunque altro volli
credere di aver incontrato una bagnante e, rimuovendomi con precauzione, mi
portai all’altezza di lei, mi curvai, le tesi le mani per farla salire. Ma
essa, con stupefacente vigoria emerse diritta dall’acqua sino alla cintola, mi
cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò
scivolare in barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di
un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava
in una coda biforcuta che batteva lenta il fondo della barca. Era una Sirena.
“Riversa poggiava la testa sulle mani incrociate, mostrava con tranquilla
impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre
perfetto; da lei saliva quel che ho mal chiamato profumo, un odore magico di
mare, di voluttà giovanissima. Eravamo in ombra ma a venti metri da noi la
marina si abbandonava al sole e fremeva di piacere. La mia nudità quasi totale
nascondeva male la propria emozione.
“Parlava e così fui sommerso,
dopo quello del sorriso e dell’odore, dal terzo maggiore sortilegio, quello
della voce. Essa era un po’ gutturale, velata, risuonante di armonici
innumerevoli; come sfondo alle parole in essa si avvertivano le risacche
impigrite dei mari estivi, il fruscio delle ultime spume sulle spiagge, il
passaggio dei venti sulle onde lunari. Il canto delle Sirene, Corbera, non
esiste: la musica cui non si sfugge è quella sola della loro voce.
“Parlava greco e stentavo molto a
capirlo: ‘Ti sentivo parlare da solo una lingua simile alla mia: mi piaci,
prendimi. Sono Lighea, sono figlia di Calliope. Non credere alle favole
inventate su di noi, non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto’. “Curvo su di
essa, remavo, fissando gli occhi ridenti. Giungemmo a riva: presi fra le mie
braccia il corpo aromatico, passammo dallo sfolgorio all’ombra densa; lei
m’istillava già nella bocca quella voluttà che sta ai vostri baci terrestri
come il vino all’acqua sciapa”».
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1961, La
sirena, ne I racconti, Feltrinelli, Milano, 2017, pp. 140-141).
Ristorante Dammuso, Noto, chef 'Ntina Baglieri |
Punta Izzo, Augusta, Siracusa |
Tutte queste illustrazioni sono di Victor Nizovtsev |
«”Tu sei bello e giovane, dovresti
seguirmi adesso nel mare e scamperesti ai dolori, alla vecchiaia; verresti
nella mia dimora, sotto gli altissimi monti di acque immote e oscure, dove
tutto è silenziosa quiete tanto connaturata che chi la possiede non la avverte
neppure. Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai
proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi. Io sarò sempre
li, perché sono ovunque, e il tuo sogno di sonno sarà realizzato”».
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
1961, La sirena, ne I racconti, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 144).
Ristorante Scjabica, Punta secca, Santa Croce Camerina, Ragusa, chef Joseph Micieli (second time) |
“Quid sirenes cantare sint
solitae?” (“Cosa cantano solitamente le sirene?”), chiedeva ossessivamente l'imperatore Tiberio a chiunque incrociasse nelle ore del crepuscolo, quando lo assaliva il terrore, temendo che questi esseri mitologici facessero sentire a chiunque il loro canto, eccetto che a lui. (Svetonio, Vite dei Cesari, Tiberio. III. 70).
Marina di Ragusa, sul mare ... ma non ricordo dove |
Gagini Social restaurant "Estate", Pantelleria, chef Diego Battaglia |
“Lighea Emergendo da tenebre
luminescenti, da fondali animati da creature favolose, le donne-sirena chiamano
e si chiamano l’un l’altra. L’antica Lighea, eterna adolescente, regina dei
ricci, si mostra in un mare notturno, dall’onda pesante, silenziosa. Opere
visionarie tra mitologia e sogno: come se ogni quadro contenesse la profondità
del mare, da cui vengono a superficie forme e vividi colori”.
(Francesco Orlando (1934-2010),
L’intimità e la storia. Lettura del Gattopardo del 1998).
Ristorante Mondo e Luca, Cagliari |
Ristorante da Vittorio, Porto Palo di Menfi, Agrigento. |
«Il racconto è “Lighea”, narra
dell’amore di un uomo e una sirena. Le parole del principe riecheggiavano
nell’antico palazzo, la tenda del balcone svelava, a tratti, il giardino e il
golfo di Palermo. Le navi alla fonda. Dunque la Sicilia è questa: un canto
nella solitudine».
(Salvatore Sciarrino, compositore,
Cultura, 13 settembre 2016).
Ristorante Il Riccio, del Capri Palace Hotel. |
La Sirena (Abisso verde), Giulio Aristide Sartorio, 1893. |
Ristorante Scjabica, Punta Secca, Santa Croce Camerina,, Ragusa, verrigni ai ricci di mare, chef Joseph Micieli (third time). |
“Io son”, cantava, “io son dolce
serena,
che ’ marinari in mezzo mar
dismago;
tanto son di piacere a sentir
piena!”
(Dante Alighieri, La Divina
Commedia, Purgatorio, Canto XIX, 19-21).
Trattoria I Rizzari, Brucoli, Augusta (SR). |
Stella di mare, romanzo grafico di Giulio Macaione. |
«Sono gli occhi a sfrecciare per
primi sul cuore. Puntano dritti al centro. Svolazzano sull' anima e poi si
posano lì, in mezzo al petto, dove nascono i sogni. Occhi di donna, sguardi di
sirena. Che sbranano la carne ai pensieri e si adagiano quieti come un
guerriero stanco ai piedi delle emozioni».
(Giacomo Pilati, Minchia di re,
Mursia, Milano, 2004).
Max Klinger, Tritone e Nereide, 1895, Villa Romana, Firenze. |
”«Qui, presto, vieni, o glorioso
Odisseo, grande vanto degli Achei,
ferma la nave e ascolta il nostro
canto.
Nessuno mai si allontana di qui
con la sua nera nave,
se prima non sente, suono di
miele, dal labbro nostro la voce;
poi pieno di gloria riparte, e
conoscendo più cose.
Noi tutto sappiamo, quanto
nell’ampia terra di Troia
Argivi e Teucri patirono per
volere dei numi;
tutto sappiamo quello che avviene
sulla terra nutrice»”.
(Omero, Odissea, Canto XII).
“In quale scuola fatata d’aprile
ci si chiede il colore, il
colorito
delle gote e del crine, ci si
chiede
se ha pensieri e quali amori il
tonno,
il pescespada, il delfino, se a
sera
la sirena nel suo sonno annusano.
Dove sono quei dolci flauti in
gola,
quel gorgheggiare a colpi di
coda?
Dove sono quelle voci, quei
rauchi
motivi alla moda, quell’implorare
per acuti, in solitudine e fede?
Dove galleggiano squame, su quale
spiaggia s’interrogano le
scaglie,
il pettine, i capelli, quelle
brame?
Ora inermi, umane, mortali
l’altomare veleggiano sui tacchi
in una camera, sole o a schiere,
fiutano alle imposte la salsedine
delle quaglie migrate a pelo
d’acqua.
Ora esistono in una conchiglia
souvenir le tempeste, i maremoti
che nella pece lievitano estivi
dove sono eterne le schiume,
quelle nevi,
sotto pennacchi di fumo, vulcani.
Ora dice un lunario i giorni, i
mesi,
quando i venti di scirocco e
grecale
spirano fatalità su terraferma
per eventi d’infamia e d’onore
mutano destino, pettinatura.
Ora si legge sul giornale quando
scendono oggi semidei in terra
recando sul solino la Polare,
sulle spalle quel blu
dell’oltremare.
Allora bruciano navi alla fonda,
una guerra finita ricomincia
e di passaggi sullo Stretto, a
vita,
rimane un fazzoletto fra le dita.
Ora remigano da boa a boa,
quelle,
accennano con lunghe ciglia al
mondo,
persino un uomo le tocca con
mano.
Di quelle polene s’indora la
prua,
della loro bocca udita in
famiglia
catturata con sapore di sale.
Oggi si segnano ignote, sicure
stelle azzurre nei tatuaggi
fedeli,
Venere fra le mammelle si
additano”.
(Stefano D'Arrigo, Codice siciliano,
Scheiwiller 1957, e poi, ampliato, Mondadori 1978, infine Mesogea 2015).
«Tornò al corso, che si chiamava
via Roma, e subito vitti un’insegna sulla quale stava scritto ” Trattoria San
Calogero“. Raccomandandosi al Signuruzzu, trasì. Tutti i tavoli erano vacanti,
di certo non era l’orario giusto, troppo presto. ”Si può mangiari?” spiò a un
cammareri coi capelli bianchi che, sentendolo trasire, era nisciuto dalla
cucina e lo taliava. “Non c’è bisognu di pirmissu” arrispunnì asciutto l’altro.
S’assittò arraggiato con se stesso per la domanda cretina. “Abbiamo antipasto
di mare, spaghetti al nivuro di siccia, o alle vongole o ai ricci di mare”.
“Gli spaghetti ai ricci di mare bisogna saperli fare” fece dubbitativo
Montalbano. “La laurea in ricci di mare mi pigliai” fece il cammareri.
Montalbano avrebbe voluto mangiarisi la lingua a muzzicuna. Dù a zero. Dù frasi
‘mbecilli so’ e dù risposte intelligenti. ” E per secondo?”. “Pisci”. “Che tipo
di pisci ?”. “Quello che vuole lei “. ” E com’è cucinato?”. ”A secundo del
pisci che sceglie”. Meglio cucirisi la vucca. “Mi porti quello che vuole”. Capì
d’aver pigliato la decisione giusta . Quanno niscì dalla trattoria s’era
mangiato tre antipasti, un piatto di spaghetti ai ricci di mare bastevoli per
quattro pirsone e sei triglie di scoglio fritte al millimetro, eppure si
sentiva lèggio lèggio, pervaso da un benessere tale da stampargli un sorriso
ebete sulla faccia. Si fece assolutamente pirsuaso che, una volta a Vigata,
quello sarebbe stato il suo ristorante d’elezione».
(Andrea Camilleri, La prima
indagine di Montalbano, Mondadori, Milano, 2004, pp. 117-118).
Giovanni Guarnieri, chef e proprietario del Ristorante Don Camillo, Ortigia, Siracusa |
Spaghetti delle sirene, Ristorante Don Camillo, Ortigia Siracusa |
Camillo Guarneri non è (o meglio
non era) un liutaio cremonese, era un signore che di mestiere faceva il cuoco,
si esattamente, il cuoco, prima che diventasse di moda dirsi chef e che la
posizione e l’eleganza di un locale venisse detta “location”, che era partito
parecchi decenni fa dalla natia Palermo per approdare a Siracusa.
Giuseppe Savà, giornalista di
Ragusanews, ci dice, sempre che riusciate a leggere fra la pubblicità che con
una certa insistenza vi copre il testo, che lavorò “al ristorante dei fratelli
Bandiera per poi aprire un proprio locale in Ortigia”; in realtà Attilio ed
Emilio Bandiera erano troppo occupati a sollevare le popolazioni calabresi
contro il regno di Ferdinando II, per istruire il giovane Camillo nell’arte
culinaria, è più probabile che avesse lavorato presso le Sorelle Bandiera,
locale storico e famoso ad Ortigia in prossimità del mercato, non gestito però
dal trio comico lanciato da Renzo Arbore in L’altra domenica.
Camillo Guarneri a Siracusa fece
fortuna, tanto da aprire, pochi anni dopo il suo arrivo nella città aretusea,
un locale proprio, il Don Camillo, in via delle Maestranze, una delle più belle
vie d’Ortigia, la zona più caratteristica e storica della città, che dalla
Fontana di Artemide giunge fino al lungomare di levante.
Fu lui stesso, don Camillo in
persona, ormai molti anni fa, a raccontarmi come andò; fa parte della squisita
ospitalità del locale e dei suoi gestori (il padre Camillo e il figlio
Giovanni) avere premura di informarsi direttamente dai clienti se hanno gradito
i piatti, e scambiare qualche altra parola, con clienti che trovavano particolarmente
simpatici e compatibilmente con le esigenze di sala e cucina, si lasciavano
andare ad alcune confidenze.
Io fui fra questi fortunati,
insieme ad altri miei commensali ed amici, di fronte alle naturali curiosità
riguardo a quel piatto paradisiaco che è nel loro menù da 34 anni, ci raccontò
come nacque; nel 1986 dopo il divieto di raccolta, di vendita e di consumo del
dattero bianco di mare (lithophaga lithophaga e del pholas dactylus), un
pescatore improvvisato di frutti di mare, che vendeva ai ristoranti e ai
privati per arrotondare i suoi magri guadagni era sull’orlo della disperazione
e aveva pescato solo un cesto di ricci di cui non era proibita la raccolta, ma
che di certo erano meno pregiati dei datteri.
In realtà ora so che don Camillo
equivocava, il primo divieto sui datteri di mare risale al 1965 ribadito e
modificato nel 1988, a cui si aggiunse il decreto ministeriale del 1998, seguito
dal Regolamento Europeo (CE) 1967/2006 secondo il quale la detenzione, il
commercio e la pesca sono vietati in tutti gli stati dell'Unione europea ai
sensi dell'art. 8, di conseguenza la data almeno del 1986 che fissa il suo
racconto diventa dubbia, perché in quell’anno non fu varata nessuna misura di
rilievo riguardo alla pesca in mare di mitili e molluschi.
E anche questo è sfuggito al
giornalista Giuseppe Savà, oltre ai “fratelli bandiera”, che però non
sfuggirono alla gendarmeria borbonica; io sarei stato più accurato nel
verificare le fonti, fin dove è possibile, ma nonostante ciò e, forse proprio
per questo, credo che gli stessi giornali che magari mi avevano assunto perché
favorevolmente colpiti dalla prima impressione, avrebbero fatto a gara a
licenziarmi dopo aver letto i miei primi articoli.
Il dattero di mare poteva essere
consumato crudo, con un po’ di limone, ma erano squisiti, a detta di chi li ha
assaggiati, con gli spaghetti, per questo motivo persino i ristoranti di lusso
(anzi, soprattutto loro che potevano attrarre una clientela facoltosa e di un
certo livello e frotte di turisti che avrebbero pagato qualsiasi cifra per un
piatto che non avrebbero più ritrovato sotto il grigio cielo della città
nordica in cui risiedevano), si accaparravano i frutti della pesca di alcuni
baldi giovanotti che, armati di un solo coltello, si tuffavano nelle scogliere
del mare adiacente per staccare questi
molluschi dagli scogli.
I ricci no, non furono proibiti,
nonostante si raccogliessero nello stesso modo, staccandoli cioè con un
coltello appuntito dagli scogli a cui erano aggrappati, causando non poco danno
nell’ecosistema marino, li raccoglievano lo stesso e li portavano nelle osterie
popolari o si improvvisavano venditori all’incanto per qualche turista o
curioso gourmet di passaggio, per cui aprivano il carapace con le forbici, lo
ripulivano all’interno delle spine e lo servivano in un piatto col succo di un
limone, più un rituale apotropaico contro il tifo che un’esigenza di esaltarne
il gusto al palato.
In ogni caso i ricci, come le
cozze, venivano pagate ai pescatori una bagattella, mentre il dattero di mare
era molto più pregiato, insieme ai murici e ai polpi di scoglio, con questi
ultimi, rivenduti in pescheria così freschi che ancora si muovevano, mi ci sono
ripagato, trent’anni fa, l’intera attrezzatura (muta estiva, pinne, mascherina,
pallone, coltello, retina, ecc.).
Per farla breve, fu per consolare
un po’ quel pescatore che forniva loro prodotti prelibati freschissimi e di prima
qualità, e anche un po’ per pietà, che gli comprarono quel cesto di ricci,
prodotti da osteria piuttosto o da instant fast food, non certo da ristorante
di un certo livello, molto rinomato a livello locale e che iniziava a farsi un
nome pure nelle guide turistiche.
Ma che potevano farci con un
cesto di ricci? Proporli così alla clientela sarebbe sembrato un sacrilegio e
si sarebbero fatti ridere dietro da tutti i loro colleghi ristoratori se la
cosa si fosse risaputa, non parliamo poi se fossero finiti sul giornale, perché
la notizia era allora piuttosto curiosa, era come fare le arancine, un
sacrilegio appunto; negli anni ottanta era netta la distinzione fra osterie,
tavola calda (la gastronomia era al di là da venire ed è di fatto una
nobilitazione della vecchia tavola calda che faceva pizzette, arancine,
sfincioni, panini, ecc.) e ristorante.
Non rimaneva che inventare, ma
inventare cosa, e come? Un ristorante all’epoca faceva antipasti, primi e
secondi piatti e il dessert, dove potevano inserire i ricci senza che
sembrassero una forzatura, sebbene non avrebbero potuto nasconderne la novità.
Non certo negli antipasti, che a
quell’epoca, rispetto ad oggi erano un po’ ingessati e scontati, si proponeva l’insalata
di mare tiepida, il famoso cocktail di gamberi che adesso è scomparso dai menù
o presente in rivisitazioni improbabili che ne certificano vieppiù la morte e
il funerale, il polpo col la cipolla cotto nel vino, le seppioline ripiene, i
moscardini, le sardine grigliate o in “saor”, baccalà, dentice o spigola
mantecati e spalmati sui crostini, pesce marinato o anonimi salmoni, pesce
spada o tonni affumicati.
Tutta roba cotta in qualche modo,
seppure con cotture delicate e non aggressive, in un momento in cui l’abbattitore
termico era in là da venire (mentre adesso lo possiedono anche alcuni privati),
quasi nessuno si arrischiava a proporre pesce crudo, per timore di veicolare
pericolose malattie e la pubblicità negativa del proprio locale chiuso per aver
diffuso la salmonella ai propri clienti.
Qualsiasi tipo di cottura avrebbe
alterato il sapore del riccio fino alla rovina, bisognava che il riccio
assaggiasse il fuoco appena appena, quando questo non morde, a fiamma spenta, così
a don Camillo e al figlio Giovanni, che già gli dava un valido aiuto in cucina,
venne in mente di proporre un piatto di pasta con i ricci.
Sulla scelta del tipo di pasta
non si discute, al sud prevalgono di gran lunga le paste lunghe e gli spaghetti
sono i re della tavola, fecero un sugo con i gamberi senza pomodoro, come se
volessero proporre banalmente gli spaghetti con questi crostacei poi, a fuoco
spento aggiunsero metà della polpa dei ricci, mentre l’altra metà viene versata
sopra a guarnizione e rifinitura estetica, senza tanti altri fronzoli
(basilico, menta, nepetella, origano verde, ecc.).
Il piatto fu chiamato “spaghetti
delle sirene” e i due Guarneri, padre e figlio, si dicono certi di essere stati
i primi a proporre l’uso dei ricci con la pasta, in tempi in cui nessun altro
avrebbe osato farlo, per cui ritengono di meritare i dovuti riconoscimenti di
primogenitura.
Il signor Giovanni ha ribadito questo
loro primato anche in un articolo recente, egli dice, dopo aver effettuato le dovute verifiche, che: “Ho cercato prove,
documenti, testimonianze in grado di confutare questa cosa: ma ad oggi posso
affermare senza tema di smentita che la pasta coi ricci la inventammo io e mio
papà, per sbaglio, e per caso, quella sera”.
Io ero scettico su questo primato
già allora, quando lo sentivo dalla viva voce di don Camillo, so bene quanto
noi siciliani amiamo vantarci delle nostre prodezze, sia di quelle che abbiamo
realmente fatto sia di quelle che avremmo solo potuto fare, e quanto la verità
sia come l’acqua che prende la forma di ogni suo contenitore e preferisce le
vie più semplici e scorrevoli a quelle più ardite e controcorrente, mi pare
semplicemente impossibile che un’idea così semplice, in un Paese con 7914 km di
coste, col riccio di mare che prolifera dappertutto, a nessuno sia mai venuto
al mondo di associare la pasta ai ricci, seppure per necessità se non per
creatività.
Liguri, toscani, laziali,
campani, lucani, calabresi, siciliani, pugliesi, molisani, abruzzesi, marchigiani,
veneti e friulani abbiano preferito mangiare pane con cipolle di Tropea o con
olive taggiasche o polenta e osei scampai, invece di condire la pasta con i
ricci che una volta brulicavano sulle nostre coste insieme alle cozze che
vedevi intere colonie dell’uno e dell’altro, molluschi ed echinoidei, già dalla
riva e in acque in cui “toccava” anche un ragazzo.
Inoltre, nella ricostruzione ci
sono alcune imprecisioni e un vago senso favolistico ed edulcorante (inteso in
senso metaforico), per potercene fidare ciecamente e credere senza alcun dubbio
a questo primato e a questa annessione unilaterale di merito; d’altra parte,
però, in una mia superficiale ricerca non ho trovato smentite o altre persone
che rivendicassero lo stesso merito.
Dunque, fino a prova contraria,
Camillo (don) e Giovanni Guarneri hanno inventato gli spaghetti ai ricci di
mare nel lontano 1986 (come sostengono e, per ciò che ne sappiamo, sono stati i
primi e mantengono tuttora una qualità culinaria notevolissima, tanto da essere
meta di turisti (ma io li chiamerei meglio “pellegrini”) del gusto non soltanto
per la fama che si sono fatti, ma anche perché la squisitezza del loro piatto può
essere stata eguagliata, ma non superata, sebbene quell’insistere con l’accoppiamento
con i gamberi io lo trovi oggi ridondante e fuori luogo frutto, forse, allora
del mancato coraggio di presentare ricci di mare e basta, novità assoluta che potevano
sperare ma non prevedere che sarebbe stata accolta così favorevolmente.
Lighea |
A Palermo ... ma non ricordo dove. |
Bevo un calice di questo nettare,
Perla Marina, l’ultimo nato (2016) nel Feudo Ramaddini di Marzamemi , uno
spumante brut ottenuto da uve moscato bianco vinificate secondo il metodo
Charmat (lo stesso procedimento usato per produrre il prosecco), che a parere
di alcuni produce vini leggeri di straordinaria freschezza e che esaltano
meglio i profumi primari che può sviluppare il vitigno.
Colore giallo-paglierino
brillante con sfumature verdi. L’olfatto è intriso di salvia, di pesca e di
sentori di zagara, al palato prevalgono i gusti fruttati, con un gradevole
residuo zuccherino e una sensazione di briosa freschezza, perlage fine e
persistente.
Ideale per accompagnare forti amicizie
o amori non impegnativi … ah, sta bene pure con i ricci … e con le sirene ...
Ma non lo bevo da solo, ho sempre
un altro calice accanto a me per chiunque voglia gradire e condividere questo
momento di nostalgia per niente triste anzi, quasi gioiosa.
Buono il bianco "Donna Fugata"! Bevuto con tutte le leccornie che ci hai mostrato, come gli altri vini, fa sempre la sua bella figura in tavola. Ma molto bello è far scorrere il post guardando e lasciando arrivare i pensieri. Il senso della vicinanza del mare e le foto di Camilleri, oltre al tuo scritto, fanno molto pensare alla Sicilia ma penso anche alle zone dove sono adesso in Liguria, dove di ricci in mare ne vedo sempre tanti.
RispondiEliminaMa questo post mi ha fatto anche molto pensare all'estate, a questa strana estate che stiamo vivendo almeno qui in Liguria con blocchi e lavori in autostrada senza fine (ma forse si tratterà ancora di qualche giorno) pochi turisti stranieri in giro (qualche tedesco insieme a francesi, olandesi, svizzeri e alcuni dal Belgio) e tanti italiani, anzi la maggioranza.
Ottima musica, gran bella scelta con Dave Brubeck
Un salutone e buona estate
Il riccio ha il sapore del mare e dell’estate, di una stagione che trasfigura e trascolora la nostra abituale esistenza; solo in estate alcune cose possono capitare e l’impensabile diventare reale, solo in questa stagione può succedere di incontrare una sirena, mentre declami versi in greco antico, e lei ti risponde in quella stessa lingua.
EliminaSolo Tomasi di Lampedusa può scrivere questa scena facendoci sognare, solo Stefano D’Arrigo poteva pensare i meravigliosi versi, più in basso, del Codice siciliano e solo Camilleri può farci sorridere inventando di sana pianta un giovane commissario di polizia che si butta a capofitto senza esitazione nelle azioni più rischiose, mentre per entrare in un ristorante per la prima volta si raccomanda al “Signuruzzu”.
In Liguria, se ben ricordo, dovreste essere abituati ai blocchi, alle code e ai lavori in autostrada, già negli anni ottanta ci svegliavamo alle cinque del mattino per andare al mare, ed era un problema non da poco trovare un parcheggio; ma forse adesso è anche peggio di allora …
Ho postato due versioni di Take Five, dello straordinario Dave Brubeck, una dal vivo, fresca come un riccio di mare e spumeggiante come una sirena, l’altra registrata in studio, con un’esecuzione che mi pare quasi perfetta, per coloro che hanno l’orecchio più raffinato.
Auguro una buona estate anche a te, ciao.
Beh, in questo ultimo periodo stanno finalmente mettendo a posto alcune delle gallerie autostradali. Hanno iniziato a levante, dalle mie parti, e stanno finendo il ponente. Con una marea di disagi. Domani riaprono il ponte Morandi...
EliminaUn salutone
Grazie per questo aromatico viatico per la mia vacanza siciliana.
RispondiEliminaTi auguro una buona vacanza, allora, aromatica e non solo … se non hai pregiudizi e sei curiosa la Sicilia saprà stupirti.
EliminaIo finora ho fatto solo un lungo fine settimana a Vipiteno, per avere una breve tregua dal caldo, ma le ferie le farò più in là: non so ancora quando né dove, certamente a Sud … ho voglia di mare, come si può arguire da questo post.
Ciao
È un post pieno di sapori, dopo averlo letto e guardato ne esci sazio ma leggiu leggiu 😊 ti saluto dal treno che mi porta a casa dove i Rizzi li ho conosciuti da bambino.
RispondiEliminaMolto bella la similitudine fra l’esperienza gastronomica di Montalbano e la tua lettura di questo post, mi fa piacere il fatto che, nonostante le pietanze in tavola siano tante e, si spera, buone, entrambi ne usciate “leggi leggi” :-)
EliminaCiao e buone vacanze
Non sono un'esperta di vini, ma dalla descrizione deduco che deve essere proprio delizioso questo Perla Marina.
RispondiEliminaPerchè non sorseggiarne un goccio? Ce l'hai ancora quel calice vuoto accanto al tuo? Si, lo so, non credo sia l'ora giusta, non sono neanche una forte amicizia, ma che importa, due persone che non si conoscono non possono sorseggiare insieme un vino così speciale? Cin Cin Garbo! Alla tua! Alla nostra!
Ah, se hai anche una forchetta, non disdegno un'assaggino anche di quei spaghettini ai ricci di mare. E vabbè, sono lì, come faccio a non assaggiarli, uffa!
Post STUPENDO. E poi, i ricci con me sono di famiglia. No quelli di mare. I capelli. ^_^
Bello Bello Bello questo post. Si.
Bevuto ho bevuto. Mangiato ho mangiato. Adesso posso andare a nanna.
Notte Garbo.
Nemmeno io sono un esperto di vini, ma in questo caso non serve essere esperti per accorgersi che è delizioso, sono sicuro che ti farà dimenticare per un po’ il tuo Astoria, nonostante anche questo sia gradevole al palato ed abbia la bottiglia fighetta.
EliminaOk, scartiamo la forte amicizia, gli amori non impegnativi poi non ne parliamo proprio, gli amori sono tutti “impegnativi”, e chi ama lo sa benissimo, ti rimangono i ricci o la sirena, le altre due categorie con cui questo vino si sposa bene.
Non ho mai provato a fare gli spaghetti ai ricci, perché qui in Veneto mi manca la materia prima per comporre il piatto, mi dico sempre, eppure so che non è così, perché anche in Sicilia dove in estate trovo i ricci in ogni angolo di via, ancora vivi, oppure posso pescarli personalmente, non mi è mai venuto in mente di farli, eppure sono piuttosto bravo a cucinare i primi “marinari”, persino gli spaghetti alla “busara”.
Per questo quando posso vado a mangiarli in qualche localino, naturalmente nella mia Sicilia (o in tutto il sud in genere), perché al nord li troverei, forse, a Milano, ma dubito che a Bologna mettano un piatto simile in menù, e se lo facessero, molto probabilmente si tratterebbe di polpa di riccio conservata nel vasetto, e non fresca come dovrebbe essere.
Ben volentieri ti concedo l’assaggio di questi spaghetti, intercettati nel mio girovagare per la Penisola, che meritano tutti una lode e il fatto stesso di menzionarli e mostrarli; e, poi, non vorrai mica bere a digiuno, e a quest’ora di notte … :-)
Meno male che hai precisato, da com’eri partita ti credevo discendente di una famiglia di “rizzari” (pescatori di ricci) ... per “ricci” intendevi i capelli, e anche quelli come vedi in questo post sono presenti e graditi da queste parti
Grazie per i tuoi complimenti sperticati, fa piacere essere apprezzato di tanto in tanto
Ti auguro una buona estate, fresca come una bolla di cartizze nel suo cestello.