Hélène e Simone De Beauvoir |
Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir |
«Così quel lume: ond’ io m’attesi a
lui;
poscia rivolsi a la mia donna il
viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un
riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo
fondo
de la mia gloria e del mio paradiso».
(Dante Alighieri, Paradiso, XIV,
31-36).
Jean-Paul Sartre |
Closerie des Lilas |
Simone de Beauvoir |
Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre attraversarono quasi tutto il XX° secolo come due comete luminose, ma sarà che il loro forte impegno sociale li ha inscritti molto profondamente nelle vicende del loro tempo, sarà che l’impegno non è più di moda e l’intellettuale, il filosofo e lo scrittore preferiscono le passerelle dei talk show e civettare sui social network alle proteste e alle rivendicazioni sociali, sarà che le mode cambiano vorticosamente anche in termini di pensiero, sarà che tendiamo a dimenticare in fretta e a consumare tutto come fosse un prodotto, un detersivo che lava più bianco del precedente, o una merendina che è ancora più buona e più sana di prima, che oggi li abbiamo dimenticati.
Eppure, se ancora oggi parliamo di libertà, se ci domandiamo
ancora se uomo o donna si nasce o lo si diventa, se la quotidianità può essere
pensata in modo rigoroso e se possiamo fare filosofia sulla vita, se dobbiamo
partire dall’individuo concreto e concretamente esistente e abbandonare ogni
astrazione e ogni idealismo, se l’uomo possa vivere isolato o è immerso nella
vita degli altri uomini, se la donna sia un essere umano al pari dell’uomo e
non tutto ciò che l’uomo non vuole essere, se possiamo porci il problema
dell’autenticità e se possiamo pensare di andare al cuore stesso delle cose, al
nucleo dell’esistenza, lo dobbiamo
fondamentalmente a loro due.
Stavano girando a vuoto da qualche anno, lei scrivendo
romanzetti da poco e lui vagheggiando una improbabile filosofia della
distruzione, quando il loro comune amico, Raymond Aron, aprì i loro occhi;
stavano seduti come sempre a chiacchierare al Bec de Gaz, in Rue de
Montparnasse sorseggiando la specialità della casa, un cocktail all’albicocca,
mentre Raymond si mostrava entusiasta del suo anno di studio presso l’Istituto
Francese di Berlino e, soprattutto, si mostrava entusiasta della
“fenomenologia”, un nuovo modo di fare filosofia che insegnava a Freiburg, nel
Baden-Württemberg, un certo professor Edmund Husserl.
Ad un certo punto, molto accalorato Raymond si rivolse al suo
vecchio amico dai tempi dell’École normale supérieure, dicendogli: «Vedi, mon
petit camerade – “mio piccolo compagno”, come egli lo chiamava affettuosamente
fin dai tempi della scuola – se sei un fenomenologo, puoi parlare di questo
cocktail ed è filosofia!».
Sartre si illuminò come Parigi durante l’Esposizione
Universale del 1900, quando venne chiamata la Ville Lumière, esisteva davvero
un modo rigoroso per parlare delle cose e delle persone così come sono, per
andare al cuore stesso delle cose (come si era espresso un altro filosofo
tedesco, Martin Heidegger, allievo di Husserl, per definire la fenomenologia:
zu den Sachen selbst … alle cose stesse, aveva scritto nel suo straordinario
Essere e tempo)?
Tomba di famiglia Lacoin |
Simone, Françoise e Hélène de Beauvoir |
Jean-Paul Sartre e Albert Camus |
Si poteva davvero parlare di questo cocktail all’albicocca,
di Simone, di Raymond, di Jean Paul, delle loro futili chiacchiere, di questo
loro momento insieme e fare filosofia vera, produrre pensiero rigoroso, senza
per questo rivolgersi al soggetto trascendentale kantiano, al der Geist
hegeliano, al mondo iperuranico delle Idee di Platone, agli intermundia di Epicuro, superando l’opposizione
fra realismo e idealismo, iniziando ogni discorso a
partire dalla coscienza di ogni singolo individuo per arrivare a conoscere il
mondo così come ci si offre e noi stessi così come siamo?
A leggere tutti quei filosofi dalle lunghe barbe bianche sembrava
quasi che la verità, le cose importanti di cui debba occuparsi un pensatore
stiano sempre al di là, oltre se stesso, nella divinità, nelle leggi di natura,
in qualche altra dimensione, che poi è quella "vera", mentre il mondo reale
sarebbe solo una brutta copia; e anche quando parlano dell’uomo, si riferiscono
all’Uomo, a quello trascendentale, all’essenza stessa dell’umano, mai a te, a
me, a lui … pareva che per pensare bisognasse scordarsi di essere ciò che si è.
Sartre non stava più nei pantaloni per la gioia di quella
rivelazione, corse nella prima libreria nel Boulevard Saint-Michel, chiese
tutto ciò che avevano in francese sulla fenomenologia, acquistò il libro di
Lévinas La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl (che fu tutto
ciò che riuscì a trovare), e iniziò con impazienza a leggerlo per strada
strappando i bordi delle pagine perché in quell’epoca i libri venivano
pubblicati intonsi, con le pagine incollate l’una all’altra, da tagliare con un
tagliacarte.
Che stupidi erano stati lui e Simone, avevano letto la
lezione Che cos’è la metafisica? di Martin Heidegger, pubblicata sulla rivista
Bifur insieme ad uno scritto di Sartre tratto dal suo La Légende de la Vérité e
ne avevano concluso: “… non ne vedemmo l’interesse poiché non ci capimmo
niente” (Simone de Beauvoir, L’età forte, p. 68).
Husserl stava dimostrando che poteva darsi un pensiero
rigoroso che molto meglio di ogni filosofia empirica o idealista e meglio di
ogni scienza poteva dar conto dei fenomeni superando l’impasse kantiana fra
fenomeno e noumeno, perché il fenomeno non è ciò che appare in contrapposizione
a ciò che una cosa è, non è qualcosa che può venire colta dai nostri sensi né
tantomeno ce ne possiamo impadronire col pensiero e con le congetture.
Famiglia De Beauvoir - Collage |
Martin Heidegger |
Café de Flore - Jean-Paul Sartre, sotto l'occupazione nazista |
Closerie des Lilas |
Simone de Beauvoir |
Il fenomeno husserliano viene colto esclusivamente attraverso
l’intuizione eidetica dalla coscienza, che coglie l’essenza stessa delle cose,
mentre scienza e filosofia possono addirittura portarci fuori strada e dobbiamo
operare un’epoché, una messa fra parentesi delle conoscenze che ci giungono
attraverso questa via.
Heidegger aveva applicato l’intuizione eidetica al soggetto,
all’individuo concreto, all’essere, per fondare il proprio pensiero sulle
radici dirette dei filosofi presocratici, quelli che potevano permettersi di
dire: “L’essere è e il non essere non è”, anzi all’esser-ci al da-sein, che
indica sempre l’individuo concreto scagliato sempre e comunque in una
situazione concreta.
Nessuna disciplina, nessuna scienza, nessuna filosofia e
nessun pensiero si interrogavano sull’essere stesso, nessuno osava andare al
cuore stesso dell’essere, nessuno osava porsi la domanda del senso stesso
dell’esistenza, che per Heidegger sarà il tempo e per Sartre sarà la libertà;
ci si occupava d’altro, di rapporti logici o matematici fra gli eventi, che
magari ti permetteranno di far atterrare l’Apollo 11 sulla luna, ma non ti
diranno nulla di Neil Armstrong e di Buzz Aldrin, chi sono, perché sono li, che
senso stanno dando a quella loro esperienza e alla loro esistenza, e quando si
era costretti a pensare all’uomo, all’essere, lo si rendeva talmente etereo,
astratto ed impersonale da essere chiunque e, dunque, nessuno.
L’essere che è ciascuno di noi è sempre disperso nei suoi
dati anagrafici, nella sua storia episodica, nel far parte della natura o della
cultura, tutto ciò che è viene spiegato riducendolo a regole fisiche, o
chimiche, alla sua appartenenza al mondo animale, alle leggi della biologia,
alla cultura e all’ambiente in cui è immerso e a qualsiasi altro principio
esterno al soggetto stesso, nessun sapere parte dal fatto che l’uomo è libero e
capace di fare una scelta e di dare un senso a ciò che fa e a ciò che è.
Per Sartre, invece, rappresentare: “… noi stessi come il
frutto passivo della razza, della classe, della professione, della storia,
della famiglia, dei nostri geni, delle influenze subite nell’infanzia, degli
eventi e persino di impulsi occulti del subcoscio che a nostro parere sono al
di fuori del nostro controllo” (Sarah Bakewell, Al caffè degli esistenzialisti.
Libertà, Essere e Cocktail, Campo dei Fiori Editore, Roma, 2016, p. 183) è un
atto di malafede (mauvais foi).
Closerie des Lilas |
Emmanuel Lèvinas |
Da sx Michelle Vian - Simone de Beauvoir - Olga Bost |
Maurice Merleau-Ponty |
E frutto di malafede sono dunque gran parte della filosofia e
tutta quanta la scienza, che diluiscono il soggetto in qualcos'altro, che
cercano sempre e comunque all’esterno l’essenza e il senso di ciò che è, e mai
all’interno, nel soggetto stesso, mai anche solo per gioco arrivano a supporre
che l’essere nella sua assoluta libertà costruisca se stesso e il suo senso man
mano che procede nella sua esistenza, mai sospetteranno che esiste un pensiero
che mi rende presente a me stesso, che mi riconduce a me e mi trasforma, che io
anticipo me stesso in questo mio procedere, realizzandomi.
Come scrisse Sartre: “L’esistenza precede l’essenza”
(Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo, Mursia, Milano, 2016, p.
50-51), che vuol dire molto banalmente che nessuna essenza, cioè nessuna
determinazione o etichetta può definirmi, perché nel momento in cui penso di
essere qualcosa sono già qualcos’altro, perché quest’atto mi modifica, l’unica
verità è l’esistenza stessa, la mia libertà di essere e il percorso o il
processo stesso della mia esistenza.
Eppure, se avessimo voluto avremmo già potuto cogliere da
almeno 2500 anni circa l’emergenza e la necessità per il pensiero di pensare a
cose concrete e reali, all’individuale e non all’universale; Talete, il saggio
di Mileto vissuto fra il VII° e il VI° a. C.: “A chi chiedeva che cosa fosse
nato prima, la notte o il giorno, «La notte» rispondeva «prima di un giorno»”.
(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Libro primo, Laterza, Roma-Bari, p.14).
Ciò che per moltissimo tempo a tutti coloro che l’hanno letto
è sembrato un aneddoto, un saggio di arguzia, un indovinello, era in realtà un
principio basilare di ogni pensiero, il punto di partenza di ogni filosofia, la
condizione essenziale per la ricerca di ogni verità: posto in termini
universali, il dilemma se la notte preceda il giorno, o se l’uovo preceda la
gallina o viceversa, non è risolvibile; si risolve solo se alla Notte e al
Giorno, all’Uovo e alla Gallina sostituiamo una determinata notte, un
determinato giorno, un particolare uovo e una particolare gallina, solo in
questo caso possiamo decretare se questa notte ha anticipato questo giorno, o
se è questa gallina che ha fatto quest’uovo, oppure dall’uovo che abbiamo visto
prima è nata questa gallina.
Solo se possiamo partire a pensare dall'individuo concreto possiamo poi applicare il frutto del nostro pensiero all'individuo stesso così com'è, possiamo incidere sulla sua vita concreta, altrimenti o non avremo alcun effetto sul soggetto reale o lo avremo a condizione di snaturarlo, di alienarlo da ciò che è, da farlo diventare oggetto.
Solo se possiamo partire a pensare dall'individuo concreto possiamo poi applicare il frutto del nostro pensiero all'individuo stesso così com'è, possiamo incidere sulla sua vita concreta, altrimenti o non avremo alcun effetto sul soggetto reale o lo avremo a condizione di snaturarlo, di alienarlo da ciò che è, da farlo diventare oggetto.
Georges Dudognon -Sartre-Vian-De Beauvoir-Olga Bost-Boris Vian. Café de Flore, Paris, 1950. |
Edmund Husserl |
Non c’era nulla da fare, lui e Simone erano giunti tardi, i tedeschi era arrivati come al solito prima di loro ed essi potevano soltanto correre, agitarsi e gridare, come il Bianconoglio di Alice: “Marianna! Mariannissima! … Sono in ritardo! In arciritardissimo! … Uh, poffare poffarissimo! È tardi! È tardi! È tardi! - Alice: Questo sì che è buffo. Perché mai dovrebbe essere tardi per un coniglio? Mi scusi? Signore! - Bianconiglio: Macché! Macché! Non aspettano che me! In ritardo sono già! Non mi posso trattenere! - Alice: Dev'essere qualcosa di importante. Forse un ricevimento. Signor Bianconiglio! Aspetti! - Bianconiglio: Oh, no, no, no, no, no, no! È tardi! È tardi, sai? Io sono già in mezzo ai guai! Neppure posso dirti "ciao". Ho fretta! Ho fretta, sai?”.
Era davvero tardi, i filosofi tedeschi li avevano preceduti
di misura, ancora un po’ e avrebbero pubblicato loro la teoria sartriana della
“contingenza”, fortuna che Heidegger, almeno leggendo Lévinas, sembrava non
averci ancora pensato, ma non si sa mai, i crucchi sono diabolici, una ne
fanno, cento ne pensano, e sicuramente Martin doveva aver già accarezzato con
le sue mani lubriche, unte di wurstel, salsicce e krauti, le bianche scogliere
della sua “contingenza”.
Urgeva correre ai ripari, Simone-Alice e Jean-Paul
Bianconiglio non avevano altro tempo da perdere, Sartre si convinse che doveva
recarsi a Berlino a studiare direttamente il pensiero fenomenologico di Husserl
e quello ontologico di Heidegger nella loro lingua originale, fu così che
Raymond Aron si mosse affinché al suo petit camerade fosse assegnata una borsa
di studio per recarsi presso l’Istituto Francese di Berlino, nonostante le
croci uncinate naziste si stessero per inerpicare nel Reichstag e i bagliori
del Bücherverbrennungen, che polverizzavano la cultura europea presente nella
capitale tedesca, fossero una sinistra eco di ciò che si preparava da li a
poco.
Non si poteva più essere i primi, è vero, però si poteva fare
meglio dei “fritz” o dei “boche” (da caboche, testone), magnakrauti o
magnakartoffeln, e Sartre si recò a Berlino fra il 1933 e il 1934; ci vollero
dai 10 ai quindici anni di maturazione e di affinamento e una guerra in mezzo
alla coppia filosofica francese per dare una risposta ai tedeschi: l’Essere e
il nulla fu pubblicato nel 1943 e il Secondo sesso nel 1949.
Ma questa non è una storia del pensiero o della filosofia
occidentale, il mio intento qui è quello di occuparmi del desiderio (e della
memoria) di Sartre e della De Beauvoir, e tutta questa premessa è importante
solo per introdurre il fatto che con loro due la filosofia diventava
letteratura, si poteva filosofare narrando, si poteva parlare di un albero, un
castagno, che Roquentin, il personaggio de La nausea, descrive con una
accuratezza incredibile, come se fosse una parte di sé ma, soprattutto, si poteva vivere filosoficamente, secondo concetti e principi formulati in piena libertà.
Jean-Paul Sartre |
Jean-Paul Sartre, Paris, 1944. |
Jean-Paul Sartre |
Jean-Paul Sartre |
Si poteva esprimere la propria beatitudine nell’ascolto della canzone Some of These Days o la propria epidermica repulsione per tutto ciò che è vischioso e appiccicoso
(la viscosité o la visqueux, viscosità o vischiosità appiccicosa saranno
argomento dell’Essere e il nulla) e verso i corpi, la bocca e le labbra
“bagnate d’esistenza” (La nausea p. 139), che riflette l’analoga idiosincrasia
di Sartre, indizio del suo orrore della contingenza in cui non esiste alcuna
necessità intrinseca nell’accadere delle cose.
Anzi queste possiedono una “ecceità” incoercibile e una
libertà assoluta, per cui possono essere o non essere o essere diverse da ciò
che sono o dovrebbero essere e dei suoi problemi con le donne e i loro umori
corporei, per cui il rapporto sessuale era per lui molto breve, senza
preliminari, pura consumazione e autosoddisfacimento, senza porsi il problema del
godimento della donna.
Simone de Beauvoir nasce a Parigi nel 1908, al numero 101 di
Boulevard Montparnasse, all’angolo col Boulevard Raspail, nel Quartiere Latino, che da li a qualche anno sarà luogo di residenza e di ritrovo di artisti e
letterati e che lei stessa contribuirà a rendere famoso; la famiglia appartiene
di diritto all’alta borghesia cattolica, il de particella nobiliare che precede
il suo cognome fa presumere origini aristocratiche, di cui però si è persa ogni
eco perché Simone non ne parla e perché seppure la famiglia abbia delle
frequentazioni e delle conoscenze altolocate, non possiede i mezzi economici
per appartenere a questo mondo, visto che il nonno prima e il padre
successivamente avevano dilapidato la fortuna di famiglia.
La madre Françoise è
ultracattolica e bigotta, esercita un controllo sulle figlie fin quasi all’età
adulta (apriva loro la posta prima di consegnarla) e trasmette loro una certa
rassegnazione tutta femminile riguardo alle loro sorti sia come donne sia in
quanto nate in una famiglia con poche risorse, era contraria a che le figlie
continuassero gli studi, solo la determinazione di entrambe e l’alleanza col
padre la spunta.
Quest’ultimo, George Bertrand è avvocato, poco accorto nel
gestire i propri affari, ma dotato di una buona cultura che tentò di
trasmettere alle figlie stimolandole a leggere Kipling, Verne, Fenimore Cooper,
…; gli piaceva molto recitare i versi e le commedie di Moliere, Racine,
Rostand, non potendolo fare come professione, perché era disdicevole per un
uomo della sua estrazione sociale, si diletta a farlo per gli amici in teatri
amatoriali e per le figlie, la moglie e i familiari in casa.
Jean-Paul Sartre |
Closerie des Lilas |
Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir |
Simone de Beauvoir |
Dal momento che non sono benestanti alle due bambine viene trasmesso fin da subito un certo pessimismo circa il loro futuro, senza alcuna dote non potranno fare alcun matrimonio prestigioso, dovranno accontentarsi di sposare un borghese, un funzionario, un impiegato, forse saranno persino costrette a lavorare; è in questo pessimismo che si insinua in Simone e nella sorella Hélène (detta Poupette) un desiderio incoercibile di rivalsa.
Se la loro nobiltà è perduta, se le loro sostanze sono state
dilapidate loro faranno di tutto per elevarsi socialmente con le loro sole
forze, con i loro talenti con la loro ambizione … Simone diventerà un’ottima
scrittrice mentre Hélène tenterà di diventare una passabile pittrice, senza
tuttavia mai eccellere e raggiungere il successo, nonostante la sorella avesse
attivato tutte le sue conoscenze perché venisse notata, persino una visita di
Picasso ad un suo vernissage, in cui questi esprimeva i suoi apprezzamenti in
presenza della stampa.
Simone darà aspra battaglia per emanciparsi dalle paludi del cattolicesimo
e del bigottismo materno, dal suo controllo ossessivo e dal timore che le
figlie la superassero e fossero più felici di lei, e dall’ambizione paterna che
dava mandato ereditario alle figlie di riconquistare la perduta nobiltà, non
più con la nascita e il privilegio, ma in maniera schiettamente borghese con le
opere e con il lavoro assiduo … quanto ci sia riuscita la sua vita e le sue
opere sono li a testimoniarlo.
Nel periodo dell’adolescenza vive due grandi amori, il primo
per Elisabeth Lacoin ( che nelle sue Memorie chiama Zazà… “Dove sta Zazà, uh,
Maronna mia!”), ragazza irrequieta e ribelle che la conquista proprio col suo
anticonformismo; in realtà Elisabeth era molto legata e molto dipendente dalla
madre, con la quale aveva un rapporto passivo-aggressivo, ora di franca
ribellione ora di assurda acquiescenza e rassegnazione.
La madre di Elisabeth, esempio classico del moralismo, della
crudeltà e della codardia della borghesia parigina, era contraria a che la
figlia frequentasse la De Beauvoir e fu ancora più contraria all’amore che la
figlia manifestava per il giovane Maurice Merleau-Ponty (Pradelle nelle
Memorie): poiché i due giovani si amavano, questa donna per ostacolarli e far
si che la figlia sposasse qualcuno a lei gradito, minacciò il ragazzo di
rivelare a tutti ciò che sapeva della madre di lui, cioè che sua madre fosse
stata infedele al marito e almeno uno dei suoi tre figli non era legittimo.
Robert Doisneau |
Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir al Bec de Gaz |
Jean-Paul Sartre |
Jean-Paul Sartre |
Merleau-Ponty, legatissimo alla madre vedova, rinunciò ad
Elisabeth, adducendo a pretesto che non voleva ferire sua madre annunciando un
loro fidanzamento ufficiale, secondo lui per la donna sarebbe stato uno shock
troppo forte che i suoi tre figli stessero per lasciarla contemporaneamente,
visto che la sorella di Maurice stava per sposarsi e il fratello maggiore,
sposato, era in procinto di partire per il Togo.
Elisabeth in un primo tempo accettò questa spiegazione del
fidanzato, poi volle vederlo e per farlo infranse il veto di sua madre di
frequentarlo, in un giorno di pioggia battente si recò a casa di lui, ma non vi
trovò nessuno, lo attese a lungo sotto la pioggia, finché la madre di Maurice
non rincasò e la trovò sulla porta.
Dopo un momento di smarrimento la ragazza la accusò di
insensibilità e di non volere la felicità sua e quella di suo figlio, era
febbrile e in stato confusionale, la povera donna cercò di tranquillizzarla
finché non rientrò il figlio che accompagnò a casa Elisabeth, prima di
andarsene lei lo rimproverò per non averla mai baciata e pretese da lui un
bacio.
Rientrata in casa, sua madre si spaventò molto nel vederla in
quello stato , chiese spiegazioni al giovane e saputo ciò che era successo si
dichiarò favorevole alle loro nozze, se era questo ciò che volevano, anche la
signora Merleau-Ponty si disse d’accordo, ma era già troppo tardi, la ragazza
emotivamente molto scossa, era febbricitante e delirava, ,diceva cose senza
senso come: “Il mio violino, Pradelle, Simone e champagne” (Memorie, p. 368).
Venne chiamato un medico, che la fece ricoverare d’urgenza
nella clinica di Saint-Cloud, qui Elisabeth presagendo la morte sembra abbia
detto a sua madre: “Non vi addolorate, mamma cara. In tutte le famiglie c’è
qualcuno da buttare via” (Ibid. p. 368), morì di meningite o di encefalite da
li a poco.
Simone de Beauvoir dans les bras de sa mére, Françoise, quand elle n'avait pas encore une année de vie.1908. |
Simone de Beauvoir, right, with her close friend Élisabeth “Zaza” Lacoin, , circa 1928 |
By Charis Tsevis. |
Jean-Paul Sartre |
L’altro suo grande amore, il cugino Jacques Champigneulle, di
qualche anno maggiore di lei, la attraeva per la sicurezza e la nonchalance con
cui attraversava la vita, era anch’egli ribelle, gran viaggiatore, ostentava
una conoscenza del mondo che incantava la giovane cugina, le narrava le sue
avventure (quasi tutte) e la consigliava nelle scelte di vita o dei libri da
leggere, proponendole Gide, Proust, Radiguet, Claudel, Jemmes, allora
considerati molto in voga.
Nonostante qualcuno abbia parlato di storia d’amore, e
qualcun altro abbia aggiunto l’aggettivo “intensa”, pare che fosse un amore a
senso unico, cioè Simone amava il cugino Jacques il quale non ricambiava se non
altro perché di questo amore non ne sapeva niente.
Ciò che rese friabile fino alle briciole questa passione
furono alcune constatazioni che la ragazza fece, come quella di non essere
proprio in cima nei pensieri dell’amato, visto che quando era in viaggio non le
indirizzava manco una cartolina e le mandava i suoi saluti attraverso la posta
che mandava ad amici comuni (dunque agli altri scriveva!).
E alcune indiscrezioni che venne a sapere, che distrussero
ogni idealizzazione ed ogni stima riguardo al cugino; pare che Jacques, come
molti dei suoi coetanei, avesse circuito e sedotto una povera ragazza
proveniente dalla provincia, l’aveva allettata stordendola con i divertimenti
che una città come Parigi offriva e con l’illusione di vivere in una favola
dove tutto era possibile, anche che un Champigneulle potesse sposare una
provinciale di classe meno agiata, e poi l’aveva abbandonata dall’oggi al
domani senza una spiegazione, senza una parola e, vigliaccamente, senza farsi
rintracciare.
Ciò che aveva deluso maggiormente Simone fu di scoprire che
il cugino non era affatto quello spirito libero e ribelle che lei pensava, egli
non era in realtà molto diverso dai suoi coetanei che seducevano le provinciali
ancora spaesate o le ragazze delle classi inferiori, perché le loro pari grado
erano educate molto severamente perché si abbandonassero con i maschi ai giochi
d’amore, l’illibatezza delle fanciulle era considerato un valore essenziale
dalla borghesia per poter fare un matrimonio decoroso e conveniente anche a
Parigi.
Inoltre, il caro cugino Jacques uscì definitivamente dal
cuore di Simone perché accettò di sposare una certa Odile Riaucourt (sorella di
Lucien, amico di Jacques), che non conosceva affatto e che si era incapricciata
di lui dopo averlo visto una sola volta, solo perché aveva una cospicua dote, e
fu così vigliacco da non avere il coraggio di comunicarlo personalmente la cosa
a Simone, ma di aver delegato la comune amica Olga ad annunciare le sue nozze.
Ho sempre avuto interesse e ammirazione per Sartre e la Beauvoir, come per Camus. Come dici nel blog, hanno attraversato il secolo scorso e hanno vissuto la realtà della loro epoca con coraggio e lucidità unite ad un senso critico che andava bel al di là della loro epoca, e che ancora oggi li trovo così importanti per il periodo che viviamo (logicamente con le differenze del tempo) da renderli, oserei dire, immortali. Le loro idee sono più che mai attuali. Apprezzo come sempre le foto che metti nel post oltre allo scritto, ma questa volta la musica che hai messo mi è sconosciuta (si impara sempre qualcosa) ma interessante.
RispondiEliminaUn salutone e alla prossima
E' difficile sorprenderti musicalmente, apprezzo moltissimo i tuoi suggerimenti musicali sul tuo blog, sono di impeccabile bravura. Sartre, de Beauvoir, e anche Camus, cerco di farli rivivere in ciò che c'è di più vivo nell'essere umano ... la loro memoria e il loro desiderio.
RispondiEliminaCiao
Colgo il tuo riferimento alla libertà di Sartre come un proseguio del nostro dialogo. Accennai tempo fa alla diatriba che contrappose Sartre e Lévi-Strauss per stabilire una sorta di lontana analogia con un dibattito attuale ma era solo per mettere in luce quanto l'attualità fosse una deforme caricatura di quel dibattito passato. Cercavo di mettere in rilievo quello che dal mio punto di vista era il nocciolo del discorso e anche il nocciolo dell'equivoco che ancora oggi ci portiamo addosso a proposito della diade scienza/libertà. Vedi, del resto è già tutto in una celebre frase di Sartre, «L'Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.» La scienza, quella di Lévi-Strauss e non solo quella, lungi dal sollevare da responsabilità, salvo malafede appunto, lavora su quell'altra metà dell'assunto di Sartre: la condanna, i limiti. La scienza, come ogni attività umana non può sottrarsi alla responsabilità del proprio operato. La libertà senza vincoli è lo sbadigliante caos, i vincoli senza libertà sono la condizione di schiavitù, noi siamo gettati in mezzo a questi confini, tra Scilla e Cariddi.
RispondiEliminaDetto questo non dirò mai abbastanza quanto io apprezzi i tuoi affreschi biografici. A presto :-)
Molto interessante il tuo post, trovo fra l’altro che quello dei cambiamenti climatici sia un ottimo esempio per discutere sulla libertà dell’individuo di essere ciò che vuole essere e di produrre da sé l’ambiente naturale, climatico, sociale e culturale in cui intende vivere o, invece, quanto sia condizionato o addirittura determinato e limitato dalle strutture che gli preesistono.
EliminaChe io sappia, uno dei migliori tentativi di mettere d’accordo Sartre con Lévi-Strauss l’ha tentato Jacques Lacan, facendo propendere a mio parere l’asse del bilanciere più sul versante dell’antropologo che da quello del filosofo.
In sostanza, Lacan dice che un bambino quando nasce è talmente avviluppato dalle strutture socio-culturali che formano il suo ambiente, che il primo rischio che corre è quello di soffocare; a questo bambino non resta che assimilare i significanti della sua cultura, che per Lacan costituiscono l’inconscio, che egli non vede più alla maniera di Freud come deposito di rappresentazioni rimosse, ma come discorso dell’Altro, come struttura socioculturale e psicologica che mi preesiste.
Il bambino assimila coscientemente o inconsciamente la maggior parte di questi significanti, di altri invece non vuole proprio saperne, e se ne difende attraverso i meccanismi di difesa già individuati da Freud: Verdrängung (rimozione), Verneinung (denegazione), Verleugnung (sconfessione) e Verwerfung (forclusione).
Se questo dispositivo conduce Lacan a riallacciarsi all’amor fati nietzschiano, facendo si che l’obiettivo dell’essere umano e lo scopo della terapia diventino l’accettazione del proprio destino, in questo modo egli si perde in blocco la creatività umana e la libertà diventa soltanto consapevolezza e accettazione/rifiuto della realtà.
Fare dipendere la soggettività da elementi e strutture esterne elide in un colpo solo non solo la libertà dell’uomo, ma la sua stessa soggettività; dire, come fa Sartre, che siamo “condannati” alla libertà … pure, ma io l’ho capito dopo, perché il suo discorso (e quello di Heidegger) mi hanno affascinato per anni.
Nemmeno la libertà può preesistere al soggetto, non possiamo essere condannati ad essere liberi, altrimenti non saremmo affatto liberi, la libertà può essere una potenzialità dell’uomo, qualcosa che può raggiungere e conquistare, mai una cosa che possiede senza aver fatto nulla per averla: si deve essere liberi di poter essere liberi … oppure no.
Da una osservazione superficiale al mondo degli uomini, diresti che la normalità è il non essere liberi, la libertà fa paura, genera angoscia, e ci sottometteremmo a qualsiasi cosa pur di placare questa angoscia; la libertà è in realtà una responsabilità enorme per l’uomo, significa forgiarsi il proprio destino, significa scegliere senza sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato, anzi che sei tu a stabilire cosa è giusto e cosa sbagliato.
(segue)
E allora, anche adorare un asino che raglia, come fanno gli uccisori del vecchio Dio nello Zarathustra di Nietzsche, diventa estremamente attraente e le ginocchia ti si piegano da soli in preghiera.
EliminaLa libertà si conquista, con coraggio, come la coscienza di sé, e le due cose dal mio punto di vista sono legate fra loro: non c’è libertà al di fuori della consapevolezza, dal poter partire da sé per ritornare in sé, e non c’è consapevolezza senza libertà.
Ciao
P.S. Non ti dirò mai abbastanza come anch’io apprezzo i tui post e i tuoi commenti, ma soprattutto apprezzo te come persona.
Devo ammettere di non aver mai letto Sartre e Beauvoir e di conoscerli veramente poco. Ho letto quindi con piacere il tuo post, una bella lezione, anche perchè molto biografica e io amo le biografie.
RispondiEliminaAl contrario ultimamente ho letto parecchio Camus. La sua scrittura è liquida per me, ti scorre dentro.
Ciao
Si, Sartre in confronto è troppo "farraginoso", faccio più fatica anch'io a leggerlo, tuttavia io lo trovo più "poderoso" e molto più profondo di Camus alla fine. E' piuttosto gradevole, invece la lettura della De Beauvoir e anche lei è molto spudoratamente autobiografica: Le memorie di una ragazza perbene, L'età forte, I mandarini ...
EliminaCiao
Pure io devo ammettere di non averli mai letti, e devo anche ammettere che, qui da te imparo sempre qualcosa.
RispondiEliminaMolto bella anche la musica. Bisogna ascoltarla ad occhi chiusi per accogliere le sensazioni che trasmette.
Ciao Garbo. Buonanotte.
Mi piace molto il tuo modo di "sentire" i miei post più che leggerli, sembra quasi che tu li viva e li indossi, più che tentare un approccio più razionale.
EliminaCiao
P.S. Vista l'ora del tuo commento, spero che la musica ti abbia conciliato il sonno :-)