|
Gustav Klimt, Ritratto femminile (volto di fanciulla), 1898 circa, Belvedere Vienna. |
[Zeús]
comandò all'inclito Hḗphaistos che subito impastasse
terra
con acqua e vi infondesse voce umana e vigore,
e
il tutto fosse d'aspetto simile alle dee immortali, e di bella,
virginea,
amabile presenza. E quindi che Athēnâ
le
insegnasse le arti: il saper tessere trame ben conteste.
Di
spargerle sul capo grazia, ordinò all'aurea Aphrodítē,
tormentosi
desideri e le pene che struggono le membra;
e
ad Hermês, messaggero Argeiphôn, di darle
un'indole
ingannatrice e l'anima di una cagna.
Così
egli parlò; ed essi obbedirono al sovrano, il cronide Zeús.
E
senza indugio, l'inclito ambidestro plasmò con la terra
un'immagine
simile a una casta fanciulla, per volere del cronide;
Athēnâ
occhi azzurri le annodò la cintura e l'adornò;
attorno
al collo le Chárites e la veneranda Peithṓ
le
misero aurei monili; la incoronarono
le
Hôrai, chiome fluenti, con fiori di primavera;
sul
corpo le adattò ogni ornamento Pallàs Athēnâ.
Quindi,
nel suo petto le infuse, l'araldo Argeiphôn,
le
menzogne, gli astuti discorsi e un 'indole ingannatrice,
così
come voleva Zeús dal cupo fragore, e voce
infine
le diede l'araldo divino. Questa donna fu chiamata
Pandṓra
perché tutti gli abitanti dell'Ólympos
le
dettero doni, sciagura per gli uomini che si nutrono di pane.
(Hēsíodos, Érga kaì Hēmérai 60-82)
|
John William Waterhouse Pandora (1896) |
|
John William Waterhouse Pandora (1896) (dettaglio). |
Da
lei [Pandṓra] infatti discende la stirpe nefasta e la razza delle donne
che,
sciagura grande per i mortali, fra gli uomini [ándres] hanno dimora,
compagne
non di rovinosa indigenza ma d'abbondanza.
(Hēsíodos, Theogonía 591-593).
|
Alexandre Cabanel, Pandora, 1873, Baltimora, Walters Art Museum |
|
Artista Sconosciuto, Pandora. |
Come
quando negli alveari ombrosi le api
nutrono
i fuchi, partecipi di opere cattive:
esse
per tutto il giorno, fino al tramonto del sole,
ogni
giorno s'affrettano sollecite e fanno i bianchi favi,
ma
quelli restando dentro gli ombrosi alveari
l'altrui
fatica nel loro ventre raccolgono;
così
per gli uomini mortali un male, le donne,
Zeús
alto tonante fece, partecipi d'opere
moleste,
e un altro male diede in cambio d'un bene.
Colui
che fuggendo le nozze e le moleste opere delle donne
non
vuole sposarsi e giunge alla triste vecchiaia
privo
di chi della sua vecchiaia abbia cura, costui non di vitto mancante
vive,
ma lui morto, i suoi beni dividono
remoti
cognati; per colui invece a cui le nozze diedero il destino
ed
ebbe una buona sposa, saggia nel cuore,
per
lui per tutta la vita, il male contende col bene,
senza
sosta; ma chi s'imbatte in una funesta genìa
vive
tenendo dentro al petto incessante dolore,
nel
cuore e nell'anima, e il male non ha medicina.
Così
non si può ingannare il volere di Zeús, né ad esso sottrarsi...
(Hēsíodos, Theogonía 594-613).
Domenica mattina,
mancano pochi minuti alle 8.00, nella sala colazioni dell’hotel non c’è nessuno
ancora, Milano dorme dopo la notte allegra del sabato, e dormono anche i
turisti; io non sono turista, ho un congresso alle 9.00 in punto, sto facendo
colazione, venti minuti di strada a piedi, col mio passo abbastanza veloce,
qualche minuto per i saluti, riabbracciare vecchi amici, i convenevoli, in
genere si comincia puntuali con questo gruppo di lavoro, odio aspettare gli
inizi, preferisco avere delle pause più lunghe in mezzo ai lavori che iniziare
in ritardo e poi fare un’unica tirata o una breve pausa.
Bevo un bicchiere
colmo d’acqua naturale, come faccio ogni mattina per abitudine, un’abitudine
sana, perché dopo molte ore l’organismo necessita come prima cosa di acqua, il
secondo elemento essenziale è lo zucchero, il tanto vituperato glucosio in
particolare, perché il cervello si nutre di glucosio puro e dopo otto ore di
digiuno il livello degli zuccheri è notevolmente basso.
Mi guardo intorno,
conosco l’hotel, non è la prima volta che vado, lo frequento da anni e posso
dire di conoscere molti se non tutti quelli che ci lavorano, con alcuni sono in
rapporti cordiali, come con la signora che in questo momento organizza e dirige
il servizio colazione e che si occupa anche a turno con altre persone del bar e
del ristorante.
Talvolta mi offre un
caffè o un digestivo e si ferma a scambiare due parole se può, ci chiamiamo per
nome, so qualcosa della sua vita privata perché lei qualcosa me l’ha confidato e
lei conosce i motivi per cui capito spesso in quella città e qualche
indiscrezione che coglie qua e la.
Guardo le brioches al
buffet, sono ancora le otto del mattino, il fornaio le avrà consegnate solo
un’ora avanti, in tempo per la colazione che inizia alle sette, ma sono già di
gomma; è strano, in genere a Milano nei bar difficilmente trovi delle brioches pessime
come quelle, eppure in quasi tutti gli hotel è così, brioches di gomma … le
faranno appositamente per gli hotel.
Le guardo schifato e
passo oltre, ci sarebbe poi la torta al cioccolato, fatta dal pasticciere del
ristorante (che è molto bravo) la sera prima, e conservata per la colazione, è
ancora intera perché io devo essere davvero il primo ospite a scendere in sala
e servirmi, sembra quasi un peccato doverla tagliare, è molto invitante, ma non
mi faccio tentare.
I grassi, che pure non
godono di una buona reputazione, sono anch’essi importanti per l’organismo, ma
non bisogna esagerare, e la sera prima ho mangiato molto bene a cena con i miei
colleghi, e credo di aver fatto un rifornimento di grassi sufficiente per tutta
la settimana; viro la mia attenzione su dei panini molto piccoli, quasi delle
palline di farina, sono croccanti fuori e morbidi dentro, ne prendo un paio, un
vasetto di marmellata, mi piace spalmarle col coltello a spatola e odio quando
mettono la marmellata o il miele in vaschette di plastica o in quei sifoni
anch’essi di plastica come se fosse ketchup.
Infine, chiedo
cortesemente un espresso, ed è mentre la doppia esse finale della parola
espressssso sibila ancora nell’aria che entra lei; la prima cosa che mi
colpisce prima ancora del viso, degli occhi, del fisico o delle sue mani è il
suo modo di incedere, il suo portamento, da regina, da donna fiera di esserlo e
nel pieno rigoglio delle forze, della sua maturità e della sua femminilità.
Su quella fronte nobile
e sul viso altero stanno incastonati come gemme due splendidi occhi verdi, da
gatta certo, ma non glaciali, piuttosto dolci direi e malinconici, seppure
pronti ad accendersi di lampi e scintille se dovessero incontrare qualcosa che
incroci il loro interesse.
I capelli sono corti e
sarebbe una disdetta per uno come me a cui piacciono le donne capellute, quelle
a cui cadono a cascata ciocche copiose di capelli da ogni lato, quelle che ti
avvinghiano a sé con tutti quei fili sottili, ma devo ammettere che in quel
viso il capello corto sta molto meglio di lunghe onde di capelli, e anche il
colore sembra dipinto apposta per esaltarne la bellezza, un biondo cenere
naturale, con punte un po’ più chiare e qualche filo argentato ai lati non
coperto da nessun colore che le da un fascino tutto particolare di donna sicura
della sua bellezza al punto da piacersi così anche se la trama del tempo appare
sulla sua chioma.
Deve avere, forse,
qualche anno in più di me, me ne accorgo da molte cose, ma ne dimostra dieci in
meno; è ben vestita, da turista, ha una bella voce, nonostante il forte accento
tedesco e l’italiano incerto che pronuncia.
Si accorge di me, mi
guarda e mi sorride, di un sorriso che potrebbe significare: “Sono contenta di
fare la colazione in tua compagnia”, fino a “Che splendido esemplare di
interessante maschio italico di prima mattina”, rispondo educatamente al
sorriso e la saluto, lei contraccambia con un sorriso più aperto … ora è
divertita e intrigata da quell’incontro.
Prende posto, sta un
attimo seduta a guardarsi intorno come se fosse venuta li solo perché non aveva
di meglio da fare, ogni tanto posa il suo sguardo su di me e mi regala qualche
timido sorriso, sbatte le sue lunghe ciglia come se volesse mettermi meglio a
fuoco, sembra una bambina che abbia trovato un giocattolo interessante.
Poi si alza come se si
scuotesse da un sogno ad occhi aperti, come se si fosse appena svegliata, si
dirige al buffet ed è costretta a darmi le spalle, non vedo cosa sta facendo,
guarda, gira, scruta, seleziona, il succo d’arancia che prende lo vedo
benissimo, il resto posso solo congetturarlo, tirare ad indovinare, diventa
interessante per me immaginare cosa sta mettendo nel suo piatto, e forse lei
non immagina neanche di essere l’oggetto di una simile curiosità … in fondo
quella schiena offriva già da sola una materia molto più interessante alla mia
curiosità.
(Intarsio del 04-06-2014, ore 10.20)
Molti individui di sesso maschile
si sarebbero deliziati soltanto di quella visione, altro che volgere la loro
curiosità sulla sua colazione, i più esperti si sarebbero posti il problema del
calcolo esatto dell’angolo di curvatura dell’attaccatura delle natiche, della
misurazione dell’angolo giro, con l’occhio esperto come se avessero un
invisibile goniometro, come se fin da piccoli non avessero giocato altro che al
piccolo geometra.
In fondo è fondamentale sapere se
la curvatura è dolce, se assomiglia più ad una rotonda o all’imbocco di un’autostrada,
i cardini dell’universo riposano su questo mistero, che è più intrigante della
scoperta delle sorgenti del Nilo o di sapere se Pauline di Tempesta d’Amore
sposerà Daniel o Leonard.
Nei bar fra maschi si accendono
interminabili dispute su quanti gradi,
primi e secondi o su quanti radianti misura un sedere, non importa se siano
analfabeti o laureati in lettere, in questi casi si improvvisano tutti geometri
provetti (c'è chi crede addirittura di poter eguagliare Giotto, Brunelleschi, Michelangelo, Bramante, Leon Battista Alberti o Bernini), come durante i mondiali sono tutti mister, e si accettano scommesse.
Non si è mai sicuri di aver
misurato correttamente perché molti sono i fattori che influiscono sull’angolo
di curvatura: dalle fasi lunari (condizionano le maree, volete che non
influiscano anche sui rilievi e sulle misurazioni?), alla fetta di tiramisù che
la signora ha mangiato nel frattempo, alle discrepanze fra una misurazione
effettuata a distanza, col goniometro mentale, su superfici coperte da vestiti
e che si presuppongono lisce e la superficie reale, che magari potrebbe presentare
delle asperità come la superficie lunare, dovute all’increspatura a buccia d’arancia
chiamata cellulite che colpisce certe donne o a isole adipose selvagge che
creano rigonfiamenti e avvallamenti anomali e, in ultimo, all’abitudine alla
sedentarietà, che a lungo andare crea il fenomeno del sedere quadrato anziché tondo,
o quello strano fenomeno per cui esso si conforma alla linea ergonomica delle
poltrone da ufficio, della sedia della cattedra o alla conformazione del
divano, plasmandosi con le spinte e controspinte del cuoio, della stoffa, delle
molle interne o del gradiente di resistenza del lattice.
(Fine).
Ecco, le brioches le
ha guardate, poi le ha scartate, brava, sarai tedesca ma non sei mica balùba (come si dice da queste parti),
le brioches di gomma proprio no, nonostante facciano tanto colazione latina
(italiana e francese sostanzialmente) non è il caso di insistere visto
l’aspetto con cui si presentano.
Poi però spunta fuori
la cultura teutonica, abbandonata l’idea della brioches, artiglia con la
forchetta fette di formaggio e di salame ungherese, che pone accanto al vasetto
di marmellata … quando lo prende si gira a guardarmi perché ha notato che io
l’avevo preso, come a chiedermi come l’avessi trovata, e quando le faccio un
cenno di assenso e un sorriso lo mette sul suo piatto con qualche panino.
E fin qui, tenuto
conto delle sue origini germaniche, siamo ancora nell’ambito dell’accettabile,
ma poi accade qualcosa che fa precipitare tutto, che spegne all’improvviso ogni
simpatia, che oscura bellezza e portamento, che mette definitivamente una stele
tombale non solo ad ogni possibile rapporto fra me e lei, ma fra Italia e
Germania e fa vacillare le fondamenta stesse della Comunità Europea.
Ella si avvicina
pericolosamente ad un angolo della sala che per me è tabù, li dove negli hotel
che servono una colazione internazionale trovi il pane tostato, il bacon
grigliato, le uova sode e quelle strapazzate; quasi volteggiando in un valzer
immaginario, con la stessa nonchalance
di Pandora quando scoperchiò il vaso donatole da Zeus e che conteneva tutti i
mali del mondo, ella aprì il coperchio dello scaldavivande in acciaio e
cominciò a servirsi col cucchiaio delle uova strapazzate che li venivano
conservate ad una temperatura costante.
Una zaffata
nauseabonda di uovo cucinato si spanse in tutta la sala e si portò via
all’istante ogni nuanche di
romanticismo, ogni nota di tenerezza, ogni corrente affettiva avesse iniziato a
tessersi in quei pochi minuti d’incontro, quell’odore orribile saturò l’aria
della sala e “in quel giorno tutte le fonti del grande abisso irruppero e le
cataratte del cielo si aprirono e la pioggia cadde sulla terra per quaranta
giorni e quaranta notti” (Genesi, 7,
11-12).
Giratasi e tornata
trionfante al suo tavolo col suo bottino, si è accorta che non la guardavo più,
che non solo non c’era più ombra di simpatia per lei sul mio viso, ma nemmeno
un’ombra di interesse; mi ha piantato i suoi occhi addosso per un istante come
se volesse capire, poi ha scosso un po’ la testa e magari avrà pensato di aver
equivocato, questi italiani espansivi, cordiali, ma i cui gesti possono
facilmente essere scambiati per interesse, per una forma di discreto
corteggiamento, mentre volevano essere soltanto buona educazione. Non avrà
pensato nemmeno lontanamente alle uova strapazzate, che in quel preciso istante
in cui ha aperto lo sportellino dello scaldavivande per me la bella donna con
un corpo che sfidava le leggi della fisica e quelle della gravitazione
universale è diventata semplicemente una volgare mangiatrice di uova.
Non ho visto l’ora che
arrivasse il mio espresssso, che un po’ mi riconciliasse col mondo, per
scappare, uscire all’aria aperta e respirare l’odore di Milano la domenica
mattina, un vago odore d’ozono, di caffè appena fatto, di brioches appena
sfornate, di tiglio e di gelsomino che al fresco del mattino esprimono tutta la
loro fragranza e quel caldo odore di alcova che si sprigiona aprendo le
finestre dopo i vapori e gli afrori della notte, per togliermi dalle narici quello che aveva
invaso la sala.
Avrei
voluto uscire con una smorfia schifata e, come Totò, alzando la polvere sotto i
piedi nella sua direzione, ma mi sono limitato ad un saluto freddo e di
circostanza, mentre la signora mia conoscente l’ ho salutata in maniera molto
più calorosa, con un abbraccio visto che finito il servizio colazioni finiva
anche il turno e che non l’avrei rivista alla mia partenza subito dopo pranzo.
(Aggiunto il 04-06-2014, ore 10.22).
Davvero poche sono le cose che
noi maschi non perdoneremmo alle donne, soprattutto quando ci guardano con
certi occhioni teneri e maliziosi al tempo stesso, non voglio qui fare un
elenco, perché potrebbe essere compromettente esprimere in anticipo ciò che
saresti disposto a perdonare ad una donna, è come darle licenza di farlo, e
impunemente per giunta, per cui io non ho detto niente e rimango inflessibile
(insomma, Dio perdona, io no!), tranne certamente almeno due cose: la volgarità
e le uova strapazzate.
Queste ultime poi sono
particolarmente odiose, se proprio devono, se non possono farne a meno, che
almeno sia di nascosto, quando lui non c’è, circondate da segretezza e da
sotterfugi e consumate squallidamente e fugacemente in qualche sala colazioni
di un hotel.
Elpís, la speranza, è
l'unica buona cosa che sia rimasta tra gli uomini; tutte le altre ci hanno
lasciato e sono tornate sull'Ólympos. Pístis, la potente fiducia, è partita;
Sōphrosýnē, la moderazione, ha lasciato gli uomini; le Chárites, le grazie,
amico mio, hanno abbandonato la terra. Dei giuramenti e dei giudizi degli
uomini non c'è più da fidarsi, e nessuno più venera gli dèi immortali. La razza
degli uomini pii è perita, e coloro che sono rimasti non conoscono più né
regole né pietà.
(Théognis, Phragmenta [I, 1135]).
“Scoppiai
inverecondamente in singhiozzi e fuggii nella mia cella, dove per tutta la
notte morsi il pagliericcio e mugolai impotente, perché non mi era neppure
concesso - come avevo letto nei romanzi cavallereschi coi miei compagni a Melk
- di lamentarmi invocando il nome dell'amata. Dell'unico amore terreno della
mia vita non sapevo, e non seppi mai, il nome”.
(Umberto Eco, Il nome
della rosa, Quinto giorno, Compieta, Bompiani, 1980, p. 409).
"Fa freddo nello
scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non
so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus [la rosa
primigenia esiste in quanto nome, possediamo i semplici nomi]”.
(Umberto Eco, Il nome
della rosa, Ultimo folio, Bompiani, 19080, p. 503).