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Gentile Bellini, Processione in Piazza San Marco, Gallerie dell'Accademia, Venezia, 1496. |
Questo post segue ed è la
naturale continuazione di quest'altro,
se avete la pazienza, la bontà e il tempo a vostra disposizione vi consiglio di
leggerli in sequenza, altrimenti non importa … entriamo nella vita che è già
iniziata ed impariamo di più dall’esperienza diretta che da quelle trasmesseci
dalla cultura o da qualsiasi riassunto delle puntate precedenti, non vedo
perché non possiamo iniziare a leggere a partire dal punto che meglio ci
aggrada.
Il Querini e gli altri veneziani
rimasero circa quattro mesi nell’isola, ospiti degli indigeni, egli di questo
soggiorno scrisse una relazione dettagliata che è oggi conservata nella
Biblioteca Apostolica Vaticana, in cui annota quei fenomeni che più lo
colpirono, come la descrizione del cosiddetto “sole di mezzanotte” e della
“notte polare” resa con queste parole:
« Per tre mesi all’anno, cioè dal
giugno al settembre, non vi tramonta il sole, e nei mesi opposti è quasi sempre
notte. Dal 20 novembre al 20 febbraio la notte è continua, durando ventuna ora,
sebbene resti sempre visibile la luna; dal 20 maggio al 20 agosto invece si
vede sempre il sole o almeno il suo bagliore …».
Non è difficile cogliere tutto lo
stupore di questi uomini abituati ad una scansione giornaliera fra il giorno è
la notte che oscilla in ritmi di circa dodici ore ciascuno (con escursioni
stagionali in cui la durata del giorno prevale su quella della notte, seppur di
poche ore, e viceversa), che si trovano in un luogo della terra a loro
sconosciuto in cui è sempre notte per quasi tutto il periodo della loro
permanenza.
Una notte, invero, molto più
illuminata di quelle che solitamente conosciamo, perché le nostre notti possono
essere più o meno illuminate dalla luna in base al suo ciclo e alle sue fasi
crescenti o calanti, o dalle stelle se non c’è foschia, mentre nelle latitudini
inferiori al Circolo Polare Artico, fino a circa il 60° parallelo, è possibile
scorgere un chiarore crepuscolare dovuto al fenomeno della rifrazione della
luce del sole dopo il suo tramonto.
Fëdor Dostoevskij ambienta nelle notti
crepuscolari di San Pietroburgo uno dei suoi romanzi giovanili più riusciti: Belye
noči (Le notti bianche); lirico, romantico e crepuscolare, ti da subito l’idea
che quelle vicende, così come sono narrate, possono accadere solo in una città che è la più europea di quelle russe, che si trova al 59° parallelo, al confine
fra la zona polare e quella temperata, in un’epoca storica in cui la Russia era
attraversata da tutta una serie di cambiamenti che sfoceranno nella Rivoluzione
di ottobre ma che al momento sembrano alternarsi fra il nulla politico,
sociale, culturale ed esistenziale del nichilismo e la promessa di
realizzabilità di un paradiso terrestre dove ogni ingiustizia, disuguaglianza,
affanno vitale, non abbiano luogo ad esistere, dei movimenti socialisti e
comunisti.
Nulla a che vedere, dunque, con
quelle ridicole “notti bianche” che hanno preso il via a fine millennio a
Berlino, e si sono propagate immediatamente come la gramigna a molte altre
grandi città del mondo, in cui durante l’arco di una notte si organizzano
iniziative culturali e di intrattenimento, con l’apertura di musei, luoghi di
interesse storico, parchi archeologici, locali di intrattenimento, bar e
negozi, in un tripudio commerciale in cui gli interessi economici passano per
cultura, e la cultura e l’arte seguono le logiche dell’economia, invece che
quelle del cuore.
Noi uomini che viviamo nella fascia temperata del globo terrestre rimaniamo attoniti da tale spettacolo, perché siamo abituati all’alternanza giornaliera del giorno e della notte, della luce e del buio e siamo sempre in affanno nel nostro rapporto col tempo, perché le ore del giorno non ci bastano per fare tutte le cose che vorremmo fare, e vorremmo spesso un giorno più lungo per portare a termine ogni cosa, mentre otto ore ci sembrano troppo poche talvolta per le faccende d’amore, in quel breve arco di tempo non prendiamo nient’altro che un assaggio delle delizie che in genere ci riserva e siamo costretti dal desiderio a rinnovare costantemente questi momenti e questi incontri, ad inseguirli, per cui l’amore diventa mancanza di respiro, dispnea, piacere sempre incompleto.
E davvero era il caso che la notte si protraesse quanto più possibile perché questi uomini della Serenissima Repubblica di Venezia, dopo essere scampati al naufragio e alle correnti di deriva che li sballottarono nell’atlantico su di un guscio di noce, approdarono su qualcosa di molto simile, per loro, al paradiso.
Il clima, nonostante fosse inverno, era relativamente mite per quella latitudine a causa delle temperate correnti del Golfo, circa la bellezza dei luoghi basterebbe dare un’occhiata alle immagini che tentano di descriverli, per capire che il mondo possa essere bello anche in zone così a nord, ma ciò che rese sublime e indimenticabile il loro soggiorno fu la calorosa ospitalità dei norvegesi, Querini scrive:
«Questi di detti scogli sono uomini purissimi e di bello aspetto, e così le donne sue, e tanta è la loro semplicità che non curano di chiuder alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo: e questo chiaramente comprendemmo perché nelle camere medeme dove dormivano mariti e moglie e le loro figliuole alloggiavamo ancora noi, e nel conspetto nostro nudissime si spogliavano quando volevano andar in letto; e avendo per costume di stufarsi il giovedì, si spogliavano a casa e nudissime per il trar d'un balestro andavano a trovar la stufa, mescolandosi con gl'uomini (...)».
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Giuseppe Bernardino Bison, Ballo in maschera, Museo Civico Revoltella, Trieste. |
Di questa “ospitalità” rimane
tuttora qualche traccia nei tratti somatici dei discendenti di quella antica
popolazione e fu talmente piacevole constatare che essa era assolutamente
gratuita, che si riverbera tutta la sorpresa lo stupore a e lo sbalordimento
nelle parole che il gentiluomo veneziano usa per farne partecipi i notabili
della sua Repubblica; egli infatti prosegue:
«…gli isolani, un centinaio di
pescatori, si dimostrano molto benevoli et servitiali, desiderosi di compiacere
più per amore che per sperar alcun servitio o dono all’incontro…».
I sedici veneziani superstiti già
erano grati agli abitanti dell’isola di Røst per averli salvati dal naufragio,
nutriti, accolti fra di loro, ospitati, ma travalicava ogni loro possibilità di
comprensione il fatto che le norvegesi (e Querini ci tiene a sottolineare
quanto fossero belle e ben fatte) si comportassero con loro con calore, con spontaneità
e, se qualcuno degli ospiti era particolarmente gradito, gli si offrivano anche
sessualmente, trattando così la sessualità come una cosa naturale, come
un’esigenza al pari delle altre, come la fame, la sete, il freddo.
I marinai veneziani erano tutti
uomini, non avevano delle donne con loro, per gli abitanti di quelle isole era
del tutto naturale che avessero dei desideri sessuali verso le loro donne, era
altrettanto naturale che quelle donne potessero desiderarli, era dal tutto
naturale che, sposati o no, accadesse lo scambio sessuale, senza drammi, senza
gelosie, senza problemi di adulterio o delle ritorsioni violente che si
sarebbero avute altrove; insomma, era così naturale che il sesso sembrava far
parte dell’ospitalità accordata loro.
E non si trattava semplicemente
dell’offrire le proprie donne agli ospiti, come accade in alcune popolazioni,
come ad esempio gli inuit o gli eschimesi, in quei casi la concezione della
donna è quella di una proprietà, come i propri utensili, la propria slitta, il
proprio coltello, che l’uomo offre in prestito all’ospite; fra i norvegesi
furono le donne, in una cultura paritaria fra maschi e femmine e che considera
il sesso come un fatto naturale e non come un peccato e il partner come un
compagno e non come un oggetto, a decidere di concedersi.
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Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto, Il ponte dell'Arsenale, Collezione privata (Woburn Abbey), 1730-31. |
Non ci stupisce, dunque, che i
veneziani fossero sbalorditi da tutto questo, e soprattutto lo erano perché
tutto ciò avveniva “più per amore che per sperar alcun servitio o dono
all’incontro”, una simile ospitalità avrebbe stupito anche noi; per meglio
comprendere il loro (e il nostro) stupore dovremmo ribaltare con la fantasia i
ruoli stabiliti dal destino, immaginare, cioè, cosa sarebbe accaduto se invece
di 16 veneziani naufragati in un arcipelago scandinavo, fossero naufragati 16
uomini scandinavi a Venezia (lo so che non ci sono correnti che possano far
naufragare un relitto nella laguna veneta, ci sono solo le “correnti turistiche”
che portano migliaia di persone da tutto il mondo, ma fate uno sforzo di
immaginazione).
Certamente questi uomini
sarebbero stati tratti in salvo, idratati e nutriti, fors’anche ospitati per
breve tempo, quanto basta perché si rimettessero in forze, poi se avessero voluto
prolungare la loro permanenza oltre i giorni stretti del rifocillamento o se
fossero stati impediti di mettersi in viaggio immediatamente per qualsiasi
motivo, gli scandinavi avrebbero dovuto pagarsi il loro vitto e alloggio in
denaro se ne avevano o col lavoro.
E non crediate che gli avrebbero
offerto un lavoro alla pari, delle pari opportunità, in quanto forestieri (per
il veneziano esistono tre categorie di uomini al mondo: città, cioè i veneziani “purissimi”, quelli di Santa Lucia, perché
i mestrini sono già tagliati fuori; campagna,
cioè tutto il contado, quelli che una volta erano i possedimenti sulla terra
della Serenissima Repubblica di San Marco, che venivano usati come foresteria,
con buona pace dei vecchi e dei nuovi “serenissimi” che vorrebbero riesumare il
“glorioso” passato; e foresti, cioè
tutti coloro che, cittadini del mondo, non hanno l’orgoglio e il privilegio di
appartenere a Venezia) avrebbero dovuto accontentarsi dei lavori più umili,
perché quelli più nobili sono appannaggio dei cittadini legittimi.
In quanto a fare le cose “per
amore”, senza sperare in alcuna mercede, il veneziano dubito molto conosca il
significato di questa locuzione, pur non essendo sparagnino come un genovese (e
lo dico con cognizione di causa, perché anni fa ospitai per 15 giorni nella
casa dei miei in Sicilia sei amici conosciuti a Genova, i quali si presentarono
con un vasetto di 120 gr. di pesto genovese, come se fosse una sacra reliquia),
ed essendo, anzi, piuttosto incline al lusso e allo sfarzo, è invero un po’
bottegaio, un po’ commerciante e un po’ predone.
La ricchezza, la potenza e la
bellezza di Venezia, d’altronde, sono il frutto di traffici, di commerci e di
saccheggi, la povera Santa Lucia fu trafugata ai bizantini durante il sacco di
Costantinopoli nel 1204, nel corso della quarta crociata, che a loro volta
l’avevano trafugata ai siracusani, che a loro volta l’avevano uccisa
decapitandola; la quadriga di cavalli di rame che potete ammirare sulla
terrazza della Basilica di San Marco proviene anch’essa da Costantinopoli, si
trovava originariamente nell’Ippodromo di quella città e a sua volta proveniva
dalla Grecia, forse opera del grande Lisippo, nel 1797 Napoleone la impacchettò
e se la portò a Parigi, ma ritornò a Venezia dopo la sconfitta dell’imperatore
francese, grazie all’interessamento del capitano Dumaresq e dell’imperatore
d’Austria. Anche fregi, marmi pregiati, monili, utensili, molto oro, argento e
pietre preziose, e reliquie, che ornano e rendono orgogliosa la città,
provengono in parte da saccheggi e trafugamenti, e in parte da “onesti”
commerci.
Il viaggiatore che si trovi a
Venezia, da qualche secolo a questa parte, da quando almeno Venezia non
possiede più un piccolo impero e non è più padrona dei commerci e regina del
Mediterraneo, quella che convogliava le lunghe catene di commercianti beduini
che percorrevano le cosiddette via della seta o via delle spezie, che dalla
Cina, dal Giappone, dall’India, dall’Arabia Felix, portavano fino alle
coste del mar Mediterraneo, toccando
città esotiche, dall’alone di favola, come Samarcanda, Antiochia, Petra,
Costantinopoli (o Bisanzio o Istanbul), Alessandria, Edessa, Damasco, può
ammirare una città esposta ogni giorno come una vecchia baldracca ancora
piacente, ancora dotata di quella bellezza e di quel fascino che le
conferiscono i secoli, il lusso e lo sfarzo che la circondano, l’orgoglio e i
modi raffinati da vecchia signora che sa ancora porsi con un garbo e una grazie
infinite, che non si trovano più da nessun’altra parte al mondo.
Di questa città/donna non ami
tanto le bellezze attuali, ma attraverso ciò che si è conservato di quell’antico
splendore ami nostalgie ed epifanie di un’arcana bellezza che, seppure solo
intuita, adombrata, vagheggiata, è pur sempre migliore delle bellezze standardizzate
e globalizzate, private cioè di qualche caratteristica che le renda uniche e irripetibili,
di tante città più moderne.
Ma l’anima un po’ bottegaia un
po’ da filibustiere del veneziano è rimasta perfettamente intatta, e tratterà
il turista come un re solo se ha la borsa ben fornita di denari, come il re di
denari appunto; la sua ospitalità sarà squisita, i suoi modi cortesi e
raffinati, il suo sorriso garbato, il suoi inchini e le sue piroette degne
della commedia dell’arte, vi farà sentire “siore e parone” finché voi sarete
come Pantalone de’ Bisognosi, non tanto per l’avarizia, quanto perché alla fine
è quello che paga sempre il conto, o che vi comportiate come Colombina, un po’
civetta, briosa, allegra, scaltra, graziosa, deliziosamente bugiarda, con la
tendenza a cacciarsi nei guai e a ingelosire chi la ama (come Arlecchino), o a
beffare e a fare innamorare qualche vecchio trombone (come Pantalone),
maliziosetta, sbarazzina, manesca con chi le manca di rispetto ma di facili
costumi con chi le aggrada.
Niente è gratuito in questa
città, niente è regalato, niente vi viene dato per amore e troverete amore solo
se lo portate con voi al vostro fianco; a ben vedere il turista lascia in
questa città più di quello che prende, paga profumatamente per un sogno che,
come tutti i sogni, reca con sé la parvenza di essere un dono e quasi nessuno
si rammarica alla fine dell’alleggerimento consistente della sua borsa.
Nessuna donna veneziana avrebbe
regalato le sue grazie senza compenso, senza niun guiderdone, ai giovani e
baldi norvegesi, seppure fossero “purissimi e di bello aspetto”, avrebbero
potuto guardare le signore affacciate alle finestre, avrebbero potuto godere di
altre signore pagandole, avrebbero trovato mariti compiacenti solo se avessero
potuto comprare la loro compiacenza, altrimenti avrebbero incontrato il loro
coltello in gola o affondato nelle loro viscere e sarebbero stati rotolati giù
per qualche canale o posti in qualche calle dietro a qualcuno dei numerosi
pozzi che ornano la città.
Uno sguardo di troppo ad una
donna perbene, ad una donna sposata, qualche parola maldestra, per non parlare
poi di qualche tentativo di contatto, vietato sempre e comunque (tranne forse in
alcuni balli), che avrebbero fatto saltare la mosca al naso a qualche marito
geloso e ne avrebbero scatenato il senso di proprietà della donna e la gelosia
entrambi sconosciuti agli uomini scandinavi.
Ma i sedici ospiti degli isolani
norvegesi, da buoni veneziani qual’erano, non godettero solo delle splendide
grazie delle walkirie nordiche, non si bearono soltanto della loro calorosa
ospitalità, scrutavano ogni cosa, soprattutto quelle in cui ci si potevano
ricavare un po’ di schei, o meglio qualche ducato o qualche zecchino (che erano
le monete in vigore allora), ed è così che al Querini, alzato l’occhio da
quella interminabile notte brava e guardato qualcos’altro che non fossero le
grazie muliebri, nel suo resoconto non sfugge che:
«
…vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in
alto, che coprono con pelli di pesce; loro unica risorsa è il pesce che portano
a vendere a Bergen. (...) Prendono fra l'anno innumerabili quantità di pesci, e
solamente di due specie: l'una, ch'è in maggior anzi incomparabil quantità,
sono chiamati stocfisi; l'altra sono passare, ma di mirabile grandezza, dico di
peso di libre dugento a grosso l'una. I stocfisi seccano al vento e al sole
senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come
legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che
gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli
sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d'Alemagna. Le
passare, per esser grandissime, partite in pezzi le salano, e così sono buone
(...)».
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Il mio cartoccetto di pesce fritto di laguna e un'ombra di soave in Calle San Barnaba |
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Il mio cartoccetto di pesce fritto di laguna, le patate fritte e un'ombra di soave in Calle San Barnaba |
I merluzzi, che qui venivano
pescati più grandi e più abbondanti che altrove, venivano lavorati
immediatamente dopo la cattura, decapitati, eviscerati, puliti e appesi ad
essiccare interi o aperti lungo la spina dorsale le cui due metà rimanevano unite
dalla coda, a delle rastrelliere, evitando accuratamente che il vento facesse
si che i singoli pezzi si toccassero fra di loro.
L’aria e il clima freddo, secco e
senza pioggia dei mesi fra febbraio e maggio, proteggeva il pesce dagli insetti
e dalla contaminazione batterica; il quale maturava ancora per altri due tre
mesi in un luogo chiuso, purché fosse secco e ben ventilato, in modo tale che
alla fine di tutto il procedimento il merluzzo iniziale aveva perso circa il
70% del suo contenuto originario d’acqua, ma conservasse intatti i suoi
principi nutritivi: proteine, vitamine e sali minerali.
In breve, l’osservatore veneziano aveva notato la ricchezza delle
isole Lofoten, quello stock fish esposto
all’aria ad essiccare, ridotto ad una lastra disidratata, mummificato, che
manteneva la polpa del pesce disidratata e la conservava per lungo tempo meglio
di una mummia egizia e meglio di Marina Ripa di Meana, senza che il pesce
stesso perdesse di sapore o le sue capacità nutritive.
Oltre alla lunga conservazione,
che i tradizionali metodi di conservazione del cibo non equiparavano e che
permettevano viaggi più lunghi ai marinai, quei fogli di pesce si potevano
trasportare facilmente data la loro forma e il loro esiguo peso ed erano delle
autentiche banconote nei mercati, perché potevano essere usate come moneta di
scambio, tanto erano richiesti e pregiati, ed erano anche molto maneggevoli, in
ogni caso non più ingombranti delle vecchie banconote da diecimila lire ancora
visibili nei film di Totò.
Il 15 maggio 1432 Pietro Querini e
alcuni dei suoi compagni di disavventura (gli altri scelsero di rimanere in
quelle isole) partirono dall’isola di Røst alla volta di Bergen, portando con
sé 60 stoccafissi secchi gran parte dei quali furono venduti per finanziare il
viaggio di ritorno; i veneziani passarono per le città di Trondheim e di
Valdstena, prima di giungere a Londra, dove trovarono ospitalità presso la
nutrita e potente comunità veneziana d’Inghilterra.
Solo il 12 ottobre del 1432, dopo
24 giorni di cavallo, i marinai reduci giunsero a Venezia dove narrarono le
loro disavventure e mostrarono a tutti gli stoccafissi rimasti; la serenissima
non tardò ad accorgersi di quanto potesse essere prezioso un alimento di lunga
conservazione, di scarso peso, facilmente trasportabile e stivabile, ricco di
elementi nutritivi e che, opportunamente cucinato, poteva essere molto gustoso.
(Continua)