venerdì 5 aprile 2013

A VOLTE NUVOLA SEI ... 2


Anna Proclemer, Vitaliano Brancati e la loro figlia Antonia



Vitaliano Brancati in bicicletta



Vitaliano Brancati nel suo studio di Roma





« ... ci sono sofferenze che scavano nella persona come i buchi di un flauto, e la voce dello spirito ne esce melodiosa, altre invece, come le mie, assorbono tutta l’attenzione e incantano l’intelligenza ... Un uomo rimane chiuso nel cerchio del suo corpo, e non produce che sbadigli o silenzio ...». (Vitaliano Brancati, 1955, Paolo il caldo, Bompiani, Milano, 1990, p.90).

 
Leonardo da Vinci, Testa di Leda particolare, Windsor Raccolte Reali

Leonardo da Vinci, testa femminile detta "scapigliata", Galleria Nazionale, Parma



«Le bastonate di quella notte avevano prodotto un qualche danno grave dentro il petto di Giovanna ove nessun medico avrebbe spinto il suo udito. La ragazza deperiva sotto gli occhi di Paolo che passavano dai veli del desiderio a quelli della stanchezza senza mai guardarla attentamente. Un giorno però quei disturbi leggeri, quegl’impedimenti incomprensibili, ch’egli andava avvertendo nei contatti furiosi con lei, e ai quali mai aveva voluto dare importanza, sommandosi d’un tratto formarono un’impressione agghiacciante, qualcosa come l’apparizione di uno spettro in pieno giorno. Bruttezza. Sulla paglia, accanto a lui, c’era stata una ragazza brutta. E forse anche fredda e svogliata. Giovanna si accorse subito che, per la prima volta dopo la notte delle bastonate, Paolo la vedeva, e, comprimendosi internamente in uno sforzo violento, richiamando in fretta alla memoria tutti i casi della vita in cui aveva avuto vergogna, cercò di arrossire per dare un colorito alla sua faccia spenta su cui egli posava uno sguardo sempre più triste. In questo sguardo, tramontava rapidamente per lei il sole della vita. Con la scusa di fargli una carezza, ella alzò una mano e gliela premette sugli occhi. Ma fu lei questa volta che, al riparo dallo sguardo di Paolo, si osservò freddamente la mano; e convenne che quei cinque ossi, ricoperti di pelle fibrosa, non potevano suscitare il desiderio di nessuno. Tanto meno di un signore fine come Paolo. Al pensiero di quanto fine, delicato, forte, istruito, bello era stato il suo amante, ella si commosse. Che fortuna era toccata ad un povero essere pagato tre lire al mese! Si mise a piangere, e, togliendo la mano dagli occhi di Paolo, si riposò finalmente dallo sforzo che compiva da tanti giorni per simulare la salute e la bellezza. Che la guardasse pure mentre piangeva, e la vedesse bene com’era diventata.
“Perché piangi?” fece Paolo, tenendosi involontariamente un po’ alla larga come da una persona che potesse contagiarlo, “Perché stai piangendo?”. Ma mentre le rivolgeva quella domanda, fu assalito da una strana e indeterminata speranza. Piano piano egli sperò ch’ella potesse dirgli, ed ella infatti, contemporaneamente al chiarirsi della speranza di lui, gli stava realmente dicendo: Noi non possiamo vederci più”. Come un fragore produce in chi dorme un sogno che, nella sua fulmineità, è una lunga storia terminante proprio con quel fragore. “Non possiamo vederci più”.
“Perché?” azzardò egli, raschiando con la gola per liberare l’ultima sillaba dalla raucedine che aveva soffocato la prima. E con voce troppo forte per essere naturale, ripeté: “Dimmelo almeno, perché?”.
Giovanna abbassò la testa. Immergeva continuamente una mano nella paglia sollevandone alcuni fili che ricadevano attraverso le dita divaricate. In quella ragazza analfabeta, la percezione della verità, invece di prendere la via delle parole, aggravava subito quel silenzio stupito, quel sentimento d’inferiorità e di vergogna che i manifesti, i libri, le insegne dei negozi, i titoli dei giornali, le lettere lasciate aperte sui tavoli, le infondevano continuamente. Era proprio quando capiva qualcosa che si ricordava del rimprovero: “Non capisci nulla,” che anche i bambini di sei anni le rivolgevano con un sorriso, dopo averle messo sotto gli occhi un foglio stampato. “Non capisci nulla!” Tutta la sua mente s’intirizziva e contraeva. Adesso per esempio: essa aveva sentito che bisognava dire quella frase: “Non possiamo vederci più,” e l’aveva detta due volte, ma la domanda di Paolo che, essendo un’esortazione a spiegarsi, portava con sé la terribile frase: “Non capisci nulla,” invece di convincerla a rispondere e a chiarire a se stessa il motivo di una tale risoluzione, le serrava di più il cervello, in una morsa dolorosa. “Non possiamo vederci più,” ripeté per la terza volta.
Egli finse di arrabbiarsi: “Che modo di ragionare! ... Mi dici: non possiamo vederci più, e non mi spieghi nemmeno perché ... mi licenzi come una serva ...”. A questa parola, in cui si era racchiusa l’essenza della sua vita, ella fece un moto impercettibile con le sopracciglia. “Mi licenzi su due piedi, senza darmi nemmeno il pre-avviso!” Vedendo che non correva il pericolo di convincerla, egli finì coll’arrabbiarsi veramente: “Sei una mula, ecco cosa sei, una mula.” Le fece il verso con una mossa sguaiata, in cui ella, fissando gli occhi per un attimo, si vide con vergogna come in uno specchio: “Non possiamo vederci più, non possiamo vederci più ... E va bene, non vediamoci più ... Se lo vuoi, non ci vedremo più!” Si alzò pieno di sdegno : “Non vediamoci più ... Tu ancora non mi conosci ... Io ti prendo sulla parola ... Non mi vedrai più nemmeno da lontano! ... E ricordati che, dopo, sarà troppo tardi. Anche se mi manderai a chiamare col prete che ti porta i Sacramenti, io non verrò più!” Attese, volgendole le spalle, che ella dicesse qualcosa. Ma non sentiva che il fruscio della paglia in cui la ragazza continuava a immergere la mano.
“Addio.” Nessuno rispose. Egli si voltò e vide, al di là di una fronte curva e protesa, gli occhi di lei che, alzati in quel momento, davano la vertigine come squarci da cui si mostri l’interno sanguinoso del corpo con le sue pulsazioni. Paolo tornò a voltarsi verso la porta: “Addio ... Non vuoi nemmeno rispondermi? Ti sto salutando: addio ...” Abbassò la voce, sfiduciato: “E va bene, fa’ come vuoi ... Io ti ho salutato.” E uscì.
Dopo di lui, lenta, senza lacrime, incurante di essere sorpresa o semplicemente veduta, uscì Giovanna. Uscì un essere penosamente oscuro, come se, a vent’anni, ella avesse speso tutti i diritti a rivedere la luce del giorno che le spettavano in una lunga esistenza, e ora le rimanesse davanti una serie interminabile di notti, saldamente attaccate l’una all’altra, senza un filo d’alba. Come una pietra che rotola per un declivio, ella si avvicinò al pozzo, lo guardò senza paura né desiderio, e vi si buttò. Fu subito ripescata, e dopo due giorni di incoscienza, una vita priva di sapore rifluì nel suo corpo. Con la stessa inerte semplicità con cui s’era buttata nel pozzo, continuò a vivere». (Vitaliano Brancati, 1955, Paolo il caldo, Bompiani, Milano, 1990, pp. 54-57).

Leonardo da Vinci, donna con gli occhi chiusi, Galleria degli Uffizi, Firenze



Leonardo da Vinci, ritratto di donna, Galleria degli Uffizi, Firenze



Mi sono sempre chiesto cos’è che trasforma il cibo che ingeriamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e tutto ciò che colgono i nostri sensi in opere così sublimi come questa? Quale strana metamorfosi permise a Michelangelo di trasformare quel pezzo di pane duro che suggeva, non masticava, lo metteva in bocca e aspettava che si sciogliesse perché non abbandonava mai la sua mazza e il suo scalpello nemmeno per tenere con una mano il pane, e finiva per mangiare pane e polvere di marmo, nel suo David, nel Mosè, nella Pietà, nel blocco marmoreo delle tombe medicee in Firenze, e nelle sue opere non finite, altrimenti dette Prigioni?
E, per converso, quali infauste coincidenze devono darsi convegno perché prenda piede l’idea catastrofica che sarebbe bene eliminare qualunque essere umano (e non importa se uomo, donna o bambino) per qualche sua disabilità, imperfezione o semplicemente per una sua diversità (di fede, di cultura, di colore della pelle, di lingua o perché troppo giovane o troppo vecchio) possa essere considerato un “peso” per il resto della società, quella dei cosiddetti “puri” e dei “sani”? 
Quale sensibilità, quali corde dell’anima bisogna arpeggiare perché suonino la musica di queste pagine del pachinese Brancati, che riesce in poche pagine a commuoverci, a farci riflettere e ad illuminarci su una verità profonda, come se ci avesse svelato uno degli ingredienti fondamentali di cui siamo fatti?
In questo brano che ho riportato Brancati mette a confronto da un lato l’amore puro, totale, incondizionato, quello che toglie l’amato persino dal disagio di mettere fine al rapporto, di trovare il modo e le parole, quello che crede di non essere abbastanza e lascia vivere l’essere amato in piena libertà, anche se questo è per lei la fine di tutto, anche della propria stessa vita o, comunque, di qualsiasi gioia o piacere nel vivere.
Dall’altro c’è la viltà e il cinismo spietato di chi cerca disperatamente l’altro per il suo piacere, per quella sorta di “vitalità animale” (come la chiama lo scrittore) e di sensualità che brama soddisfazione e che non si ferma davanti a nulla; una vita fatta di luci, ma basta soltanto un’ombra, quell’ombra che riporta all’apprensione, all’angoscia e a quel senso di tragedia che secondo Brancati accompagna il siciliano fin dalla culla, perché quell’oggetto del desiderio perda ogni sua attrattiva, come un paio di calze smagliate, una camicia macchiata o un paio di pantaloni sgualciti.

Leonardo da Vinci, testa di donna, Museo Bonnat, Bayonne

Leonardo da Vinci, testa di giovane donna, Accademia, Venezia



Una viltà che non ha età, non viene sfiorata dalla maturità o dall’esperienza e non ha sesso (una donna può essere vigliacca tanto quanto un uomo ... e forse anche di più ... in amore), perché talvolta può capitare a qualche individuo del mio stesso sesso di fermarsi a pensare e magari di scusarsi di fronte a certi avvenimenti, di quanto vile può essere un uomo quando lascia una donna o, ancora di più, di quanto abietto può essere quando non vuole essere lasciato da una donna, quando usa tutta la sua forza, il suo potere, il controllo, la sua violenza e le infligga umiliazioni di ogni tipo.
È questo, naturalmente, uno spostamento: scusarsi per il proprio sesso e non per se stessi ... a ben guardare troviamo certamente delle viltà nostre personali per cui scusarsi delle viltà del maschio in generale, invece che delle proprie, rischia di essere un’altra viltà.
Sono sicuro che anche voi, come me, se guardate bene nelle pieghe della memoria, incontrerete le vostre viltà: verso un partner, un figlio, i vostri genitori o i vostri fratelli, un amico o un parente ... le viltà peggiori sono quelle che manifestiamo con le persone che più ci hanno amato, quelle che credevano in noi, che si fidavano e confidavano in noi.
Sono sicuro che anche voi avrete notato, nella vostra furia e nella vostra cecità, quella mano, quei “cinque ossi, ricoperti di pelle fibrosa, [che] non potevano suscitare il desiderio di nessuno” e che poco prima vi avevano fatto l’ultima carezza, un tenero gesto di pudore per risparmiarvi di vedere qualcosa di esteticamente non bello, qualcosa che non sia luce, come se voi doveste nutrirvi di luce soltanto, che tentava ritmicamente e stancamente di afferrare e stringere invano la paglia che era stata il vostro giaciglio d’amore e che adesso è tutto ciò che le rimane.
Non si ripara niente col pensiero e a posteriori ... ma avrei voluto lasciarti con una carezza e un bacio (o almeno facendo in modo che tu potessi odiarmi) invece che con l’alibi di un’arrabbiatura (che eri molto brava a suscitarmi), con un sorriso che fosse l’ultima immagine che avessi di me, invece che col cipiglio di lesae maiestatis e con la furia di chi sta per avverare una tragedia senza ritorno.  
 

7 commenti:

  1. Bel post. Quel che si ha voglia di fare e di dire si fa. Quel che non si ha voglia di dire e di fare non si dice e non si fa. Quindi non esiste, non è esistito, non esisterà. Nessun rammarico e nessuna viltà, dunque. Cos'è la viltà, allora? È fuggire, è rimandare, è cercare alibi per non dire e non fare. Sperando che, nel frattempo, accada qualcosa che giustifichi quel fuggire, quel rimandare, quel cercare alibi per non dire e non fare. Ecco, la viltà è questa.

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  2. Viltà, per come la vedo io, è non riuscire a dar voce a quello che senti e a quello che sei, è il prendere determinazione per ciò che fai da ciò che non ti appartiene; è l’inutile tentativo di sfuggire a se stessi (e può accadere che uno tenti di farlo anche per tutta la vita ... credendo così di sfuggire al dolore e all’angoscia di esistere, ma in realtà entrando in un altro tipo di dolore e di angoscia, che è quello di chi tradisce se stesso e sciupa ogni anelito della sua anima e del suo corpo) e di turbinare in balia dei venti, di navigare inseguendo le correnti, senza mai chiedersi dove vuole andare, senza mai partire da sé per dirigere la traiettoria del suo andare.
    Mentre Giovanna, nel brano citato sopra, si rende conto che il suo tempo è finito e che l’amore di Paolo per lei non è mai fiorito, che il barone Paolo Castorini non poteva mai amare una serva pagata tre lire al mese, completamente ignorante e che era per giunta andata a letto con suo nonno, con suo zio e con suo fratello; Paolo non riesce ad essere altrettanto onesto con lei e con se stesso, ha bisogno di dirsi che è lei che lo sta lasciando, e si finge persino arrabbiato per non sentire il dolore e il rimorso. Ecco, viltà è non essere presenti a se stessi, non riuscire a raccontarsi la propria verità.

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  3. Da quanto dice, la viltà consiste nel fuggire. Anche se lei parla di sfuggire. Sfuggire presuppone una direzione, comunque, visto che serve ad evitare qualcosa o qualcuno. Diciamo che la direzione c'è, anche se non è scelta personalmente.

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  4. Viltà e mi torna in mente Don Abbondio che si mette il dito nel colletto e gira la testa a cercare via di fuga.
    Ecco, viltà è cercare vie di fuga, da se stessi e dagli altri.
    Forse.

    Ciao garbo da luigi.

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  5. Cara Signora, io non possiedo un’elevata sottigliezza linguistica, per certi aspetti sono ignorante come una talpa ... però ho il pregio di imparare rapidamente, meno cose ancora che sull’idioma italico so ad esempio sulle donne, in questo campo le confesso che sono di un candore e di un’ingenuità imbarazzante. Per cui non le nego che per me “fuggire” o “sfuggire” pari erano, e non avrei mai pensato che il termine “sfuggire” presupponesse di sapere già a priori la direzione verso cui dirigersi; io mi accorgo, molto spesso, che non solo non sappiamo dove andare (e questo vale anche, sublime inganno, quando crediamo di saperlo bene), ma anche, altrettanto spesso, non sappiamo bene da che cosa stiamo fuggendo e perché.
    Talvolta crediamo, a torto, di fuggire da qualche pericolo esterno, che cambiando aria, luogo e, magari, il partner, risolveremo i nostri problemi ... è soltanto una questione di tempo e ci ritroviamo poco dopo con gli stessi problemi di prima, anche se respiriamo aria diversa, siamo altrove in compagnia di qualcun altro.
    Fuor di metafora, non si può fuggire o sfuggire a se stessi e il più delle volte i problemi maggiori che abbiamo siamo noi a crearceli più o meno inconsapevolmente, tessendo rapporti con l’ambiente che ripropongono sempre le stesse dinamiche in situazioni esterne e con persone diverse.
    La viltà, in questo caso, è spostare tutto all’esterno e non riconoscere il contributo nostro personale in ciò che ci accade ... l’unico modo per sfuggire in questo caso è attraversare queste dinamiche (Jaques Lacan avrebbe detto “attraversare il fantasma”), entrarci dentro, conoscerle e riconoscerle come proprie.
    Solo quando sono diventate completamente nostre smettono di agire automaticamente come fossero calamità naturali inevitabili ed esterne, e diventano qualcosa che è in nostro potere e nella nostra facoltà mettere in atto o osare qualcosa di diverso.

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  6. Caro Luigi,
    Don Abbondio è l'esempio più emblematico di viltà, ma c'è una viltà nei confronti di un pericolo esterno rappresentato dai bravi e c'è una viltà nei confronti di se stesso, del proprio desiderio, della vocazione a cui si è dedicata la nostra vita. Don Abbondio è prete, e in quanto tale lo scopo della sua vita dovrebbe essere quello di somministrare i sacramenti, di non temere per la propria vita perché tu testimoni la vita eterna promessa da Cristo, ..., nel momento in cui si fa intimidire e cerca di evitare (riuscendoci) di somministrare il matrimonio, tradisce lo scopo stesso della sua vita. Cessa di essere un prete per essere soltanto uno che si nasconde dietro la tonaca e si mantenere dalla comunità come un inutile parassita.
    Ciao

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  7. Molto bello, il suo commento, signor Garbo. Ci penserò su, anche se so bene a cosa si riferisca quando parla di dinamiche ricorrenti e condivido. Non la faccio ignorante come una talpa, no, proprio non mi riesce. E devo dire che ho molto apprezzato l'ariabesco che ha creato sopra la mia distinzione tra "fuggire" e "sfuggire". Notevole.

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