“L'impossibilità di raggiungere gli esseri reali mi lanciò
nel paese delle chimere, e non ravvisando nulla d'esistente degno del mio delirio,
lo nutrii di un mondo ideale, che la mia immaginazione creatrice popolò presto
di esseri fatti secondo il cuor mio. Mai tale risorsa venne più a proposito, e
si rivelò tanto feconda. Nelle mie estasi continue, mi inebriavo ai torrenti
dei più deliziosi sentimenti mai penetrati nel cuore di un uomo. Dimenticando
completamente la razza umana, mi creai compagnie di creature perfette, celesti
per virtù come per beltà, di amici sicuri, teneri, fedeli, come mai ne trovai
quaggiù. Presi un tal gusto a librarmi così nell'empireo, fra gli oggetti
incantevoli di cui m'ero attorniato, che vi trascorsi ore e giorni senza
contarli; e perdendo il ricordo d'ogni altra cosa, appena trangugiato alla
svelta un boccone, ardevo di fuggire per raggiungere di corsa i miei boschetti.
Quando, pronto a partire per il mondo incantato, vedevo sopraggiungere gli
sciagurati mortali che venivano a trattenermi sulla terra, non potevo moderare
né celare il mio dispetto, e non più padrone di me, serbavo loro un'accoglienza
così brusca che si poteva definire brutale. Ciò non fece che accrescere la mia
reputazione di misantropo, a causa di quanto me ne avrebbe meritata l'opposta,
se si fosse letto meglio nel mio cuore”.
(J.-J. Rousseau Confessions, IX, O.C., I, pp. 427-428;
trad.it. S.A., p. 421).
“In questo mondo il paese delle chimere è il solo degno di
essere abitato, e tale è il nulla delle cose umane, che tranne l’essere che
esiste per sé stesso, non c’è niente di bello tranne ciò che non esiste”.
(J. J. Rousseau, Julie ou la Nouvelle Héloïse, VI, 8, O.C.,
II, p. 693; trad. it. Giulia o la nuova Eloisa, Rizzoli, Milano, 1992, p. 718).
"[…] La mia fantasia non lasciava a lungo deserta la terra
così riccamente ornata. Ben presto la popolavo di figure conformi ai miei
desideri, cacciando lontani opinione, pregiudizi, tutte le passioni fittizie, e
trasportavo negli asili della natura uomini degni di abitarla. Mi creavo una
società incantevole di cui non mi sentivo indegno". (J. J. Rousseau, Lettre a
Malesherbes, 26 janvier 1762, O.C., I, p. 1140; trad. it. S.A., p. 1097).
“Del rimanente, alle volte l’anima desidererà ed
effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come
nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio
dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il
fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che
quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno
spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si
estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario”.
(Giacomo Leopardi, Zibaldone, 171).
Ermengarda era spaventata, in primo luogo per lo stato di
soggezione, di sottomissione, di genuflessione, di soggiogamento in cui si
sentiva nei confronti di quest’uomo, era una cosa mai provata prima, sembrava
che tutto il suo orgoglio di donna libera e fiera si fosse sgretolato in un
attimo, dissolto completamente (tranne l’impossibilità a chiamarlo lei, che rappresentava
ancora un filo di dignità a cui aggrapparsi, quando aveva già ceduto su tutta
la linea e che le faceva credere che fosse lui tutto sommato a cercarla, a
desiderarla, a volerla, mentre lei non faceva altro che aderire, e si poteva
rimproverare solo di non riuscire a resistergli, e non di essere lei a prendere
l’iniziativa, quando poi lui sembrava indifferente).
Era come se sul suo viso, sulle sue labbra, leggesse impresso
a marchio di fuoco quel sorriso sardonico, di soddisfazione e di sufficienza, che
ha la maggior parte degli uomini dopo essere andati a letto con una bella
donna per la prima volta, quel sorriso che è come se dicesse: “Ti ho avuta!” e
che lei non sopportava per niente perché la faceva sentire come una preda,
svilita, oggetto di conquista, semplice possesso, trofeo, vecchia ciabatta che
puoi accantonare … proprio da persone che fino ad un momento prima erano
bramanti, adoranti, che avrebbero fatto qualsiasi cosa per compiacerla.
Probabilmente non immaginava nemmeno che l’orgoglio così
rigido che l’aveva tenuta in piedi fino ad allora e le aveva fornito
un’immagine di sé apprezzabile, altro non era che la difesa estrema contro un
desiderio egodistonico di abbandonarsi/sottomettersi ad un uomo e che la sua
arroganza, i suoi giochi cinici, il suo mettere alla prova i partner che di
volta in volta si alternavano nel suo letto era una ricerca spasmodica di
quell’uomo, di un uomo con certe caratteristiche, dell’uomo degno ai cui piedi
inginocchiarsi e adorare.
In secondo luogo, questa storia con Adelchi poteva mettere a
repentaglio la sua storia ben più seria con Desiderio; era questi, infatti,
l’uomo che amava, su questo punto non aveva dubbi, era con lui che voleva
vivere, e, se anche ancora non lo aveva fatto, sapeva perfettamente che prima o
poi lui le avrebbe chiesto di sposarlo, aveva già fatto tutti i passi
preliminari per questo, dall’annuncio alla propria moglie e ai figli che la
amava, alla separazione dalla moglie, al farle conoscere i suoi figli come
fosse già una di famiglia.
E sapeva altrettanto perfettamente che Desiderio l’amava
davvero, l’amava per com’era, non la voleva con i tacchi alti, con i capelli
pettinati in un certo modo, truccata in un certo modo come piaceva a lui in
quel momento, non con l’abito di sartoria e con gli oggetti preselezionati che
secondo lui erano adatti per lei, non la voleva docile e sottomessa come se non
avesse personalità.
Desiderio, al contrario di Adelchi, la cercava spesso, lei
sentiva che quando erano distanti le mancava, sentiva tutta la struggente
nostalgia dell’assenza, quella che provava lui e quella che provava lei per lui
quasi sempre, eccetto quando era in compagnia di Adelchi.
Le sue fughe improvvise, i non detti, le mezze verità, i
paludamenti, le ritrosie, l’irrigidimento e il non riuscire ad abbandonarsi
completamente nelle braccia del suo uomo, il supplire spesso alla passione che
non sempre era presente con “mestiere” e “maestria”, tutte cose che già
suscitavano qualche dubbio e forse destavano qualche inconfessato sospetto di
non si sa cosa, erano diventate estremamente pericolose, e non voleva perdere
l’unico uomo vero, l’unico che contasse qualcosa per lei, l’unico mai amato,
per una follia.
Potevo io aiutarla a capire cosa le stava succedendo? Potevo
far luce insieme a lei sul suo sentirsi prigioniera di un uomo che in fondo non
amava, proprio adesso che finalmente amava un uomo? Potevo rompere quelle
catene che la tenevano legata e soggiogata con le strategie della mia tecnica
terapeutica, con la mia “maestria” o con qualsiasi altro strumento scientifico,
diavoleria, magia od esorcismo conoscessi?
Dopo aver fatto le mie valutazioni, decisi di inviarla a
qualche collega che conoscevo nella sua città e le diedi due nominativi (in
genere un uomo e una donna) perché potesse avere un margine di scelta; lei mi
replicò che avrebbe voluto iniziare con me la terapia, ma esistevano due motivi
validi perché era auspicabile che lei si rivolgesse altrove: il primo, che io
ero al completo, tutte le ore che avevo deciso di dedicare al lavoro erano
piene.
Il secondo, che c’era una distanza non indifferente fra la
mia città e quella dove abitava lei, anche se adesso per lei non sembrava
essere un problema, col tempo e con la regolarità delle sedute tutto ciò le
sarebbe pesato e, probabilmente, avrebbe interrotto una terapia solo ai primi
segnali di miglioramento, senza portarla a conclusione e senza approfondire
adeguatamente ciò che di lei, del suo modo di essere e di funzionare, stava
emergendo.
Esistono dei benefici conseguiti in un tempo relativamente
breve, dovuti proprio al fatto di essere in terapia; in genere constato che
tutti i sintomi più acuti e più drammatici (come ad esempio gli attacchi di
panico o certe pericolose idee suicidarie), spariscono lasciando spazio ad
un’ansia o a una tristezza diffuse, o si attenuano parecchio: un sintomo non è
la malattia, ma ciò che ti avvisa che c’è una “malattia”, che c’è qualcosa che
non va, è un campanello di allarme che se viene ascoltato, cessa di esistere
ma, finché il problema non è risolto adeguatamente, è li in stand-by, pronto a riemergere o a
trasformarsi in qualcosa di più drammatico.
Può succedere che qualche paziente voglia interrompere la
terapia quando il sintomo che mi porta diventa più sopportabile per lui,
normalmente a quel punto sono riuscito a svegliare sufficientemente la sua
curiosità su di sé e il dubbio che il suo problema non sia risolto del tutto,
che molti continuano la terapia, ma c’è anche chi si ferma li e non lo rivedi
più, oppure che magari ritorna dopo tempo, quello che gli occorre per capire
che aveva appena sfiorato il suo disagio, o, ancora, si rivolge altrove: ad un
altro professionista o a qualsiasi assurdità si presenti come allettante sul
“marcato” del proprio benessere.
Visto che il percorso è lungo e a tratti anche doloroso,
visto che è anche costoso ed è a carico del paziente, sarebbe opportuno non
partire con degli handicap iniziali che potrebbero renderlo più arduo, come
una distanza eccessiva o un costo insostenibile per quella persona; un mio
collega lacaniano non si è mai espresso, che io sappia, sulla distanza giusta,
ma sul costo della terapia è solito ripetere che un paziente debba pagare più
di quanto possa permettersi, e meno di quanto possa guadagnare.
Il primo punto “più di quanto possa permettersi”, vale a dire
che il costo debba incidere abbastanza sull’economia di un individuo, non debba
cioè essere del tutto indolore, perché tendiamo a non dare valore alle cose che
non hanno un costo tangibile, pensate a Lapo Elkann che continua a collezionare
multe per sosta vietata col suo Suv mimetico Ferrari (una volta l’ha lasciato
pure sopra i binari del tram paralizzando Milano), cosa volete che gliene
freghi ad uno come Lapo dell’esborso di qualche centinaio di euro per pagare la
multa o il costo del ritiro della sua macchina rimossa dal carro attrezzi? A
ciascuno bisognerebbe infliggere una multa adeguata, vicina al “più di quanto
possa permettersi” del mio collega lacaniano.
Il secondo punto è più intuitivo, ma non tutti ci arrivano
subito, talvolta perché siamo molto più impegnati a sopravvalutarci, per
valutare appropriatamente le condizioni altrui; così succede che qualche mio
collega possa chiedere 100 euro a seduta, con cadenza bisettimanale, ad
un’insegnante: cosa rimane in tasca a questa tua paziente del suo stipendio
quando ti lasciato circa 800 euro al mese?
Ho notato che in genere chi commette questi “errori” di
valutazione sono i giovani professionisti che o tendono a fare prezzi bassi
perché non si sentono sicuri, o tendono ad esagerare perché non si sentono
sicuri ma non vogliono darlo a vedere, oppure si tratta di colleghi con
tendenze narcisistiche mai elaborate e la cui auto-valutazione professionale
non sempre corrisponde al vero.
Non è detto che le persone che tu invii a qualche collega
seguano il tuo suggerimento, a volte vanno altrove secondo ulteriori
informazioni prese indipendentemente, oppure non si rivolgono a nessuno; ma se
dovesse succedere, se qualcuno riceve una persona che tu gli hai inviato, è
buona norma fra colleghi telefonare per ringraziare l’inviante … nessuno dei
colleghi a cui avevo inviato Ermengarda mi ha mai chiamato per quel motivo, per
cui ne arguisco che lei non abbia seguito il mio consiglio, e questo un po’ lo
sospettavo quando invece di “prenderla in carico”, come si dice in gergo, l’ho
inviata altrove.
Il mio compito di terapeuta, di professionista consultato, ad
ogni modo si concludeva li, così, e non ne avrei più saputo nulla della sorte
di Ermengarda se non fosse perché era amica di un mio amico, ricordate il
Liutprando dell’inizio di questa storia?
Egli è un uomo sensibile, disponibile, curioso, uno che mostra
un vero interesse per le persone, e molti amici (donne in particolar modo) si
confidano con lui; ora, lui seguiva la storia fin dall’inizio, e certamente era
a conoscenza di molte più cose di me (non ne abbiamo mai parlato insieme,
perché io osservo il segreto professionale più rigoroso sui miei pazienti, per
cui preferisco non affrontare per niente argomenti che li riguardino con
persone che li conoscono), e altrettanto certamente seguiva anche ciò che è
accaduto dopo gli incontri con me.
Ora, pare che Liutprando avesse cominciato ad insospettirsi
riguardo a tutta la storia con Adelchi, ebbene, di quest’uomo gli venivano
raccontate cose mirabolanti, fiabesche, portentose, ma nessuno l’aveva mai
visto, incontrato o conosciuto, nessuno nel giro dei colleghi e degli affari ne
aveva mai anche solo sentito parlare (eppure un grande imprenditore di quella
levatura, che fa grossi lavori nella tua regione, in un ambito di lavoro che è
anche il tuo, difficilmente sarebbe passato inosservato).
E la riservatezza che Ermengarda era costretta a tenere date
le circostanze e i sotterfugi a cui era costretta a ricorrere, non
giustificavano il fatto che Adelchi di fatto fosse un fantasma, un ectoplasma,
e nient’altro, poi, per quanto il discorso di lei fosse alquanto logico e
lineare, esistevano delle fratture, delle contraddizioni, dei fatti
difficilmente credibili, che ingeneravano dapprima ulteriori curiosità e poi
dubbi e sospetti a non finire.
Come se non bastasse, queste curiosità indebite, questi dubbi
espressi da Liutprando con molta semplicità, avevano portato Ermengarda non
tanto ad una cautela maggiore, ma ad alzare il tiro e a raccontare fatti che
sembravano ancora più incredibili e a fare alcuni errori di una certa gravità.
Il primo fu quello di fornire informazioni più dettagliate
circa i suoi incontri con Adelchi, alcuni inverificabili, altri (per sua
sfortuna) verificabili e verificati anche se poteva sembrare impossibile farlo;
ad esempio riguardo ad una cena di lei con Adelchi nel locale più prestigioso
di una nota città italiana, uno di quei posti che è diventato un mito della
ristorazione italiana, un fiore all’occhiello … Ermengarda non poteva sapere
che Liutprando conoscesse uno degli attuali proprietari, che gli ha messo a
disposizione i camerieri presenti in sala quel giorno, i quali hanno negato che
la donna della foto che mostrava loro (che a causa della sua notevole bellezza
difficilmente poteva passare inosservata) fosse presente quel giorno nel locale
o che l’avessero mai vista, né quel giorno era mai entrato un uomo che poteva
corrispondere alla descrizione di Adelchi (anch’egli un tipo che quando si
muoveva, a dire di Ermengarda, era difficile non notarlo).
L’altro errore è stato
quello di far testimoniare la sua più cara amica riguardo ad un invito in cui
Adelchi stesso le sarebbe stato presentato per la prima volta e che ne parlava
in maniera molto dettagliata; dopo la smentita dell’episodio del locale, incalzata
da Liutprando, l’amica confessa di non aver mai visto quell’uomo, ne ha solo
sentito parlare, e che Ermengarda stessa l’aveva supplicata di confermare il
suo racconto, ma le avrebbe detto che si trattava di uno scherzo.
Ermengarda, nonostante tutto, non ammetterà mai che Adelchi e
tutto ciò che lo riguarda sia una sua invenzione, di fronte a questo
atteggiamento inesplicabile della donna Liutprando decide di raccontare ogni
cosa per filo e per segno a Desiderio invitandolo a cena, e lo fa con la
proprietà di linguaggio, la conseguenzialità logica che solo lui riesce ad
avere.
Desiderio ascolta in silenzio attentamente senza
interromperlo, quando gli è chiaro che Liutprando ha terminato il suo discorso,
gli dice con estrema calma che lo aveva valutato un uomo migliore, e che lo
considerava un amico più che un semplice collaboratore, che non riesce a capire
dove volesse arrivare con quel discorso strampalato.
Un discorso che, se aveva compreso bene, poteva sintetizzarsi
in questo modo: Ermengarda gli avrebbe confidato di avere un amante, ma questo
amante in realtà non esisteva se non nella mente di lei … semplicemente
assurdo, come poteva anche solo ritenere che lui potesse credergli? Cosa voleva
fare, accusarla di tradirlo? Screditarla? Voleva che lui la ritenesse pazza? A
questo punto Desiderio si autorizzava a pensare qualsiasi cosa di Liutprando,
anche che gli piacesse Ermengarda e che non aveva accettato che lei invece gli
avesse preferito lo stesso Desiderio, per cui questo exploit non sarebbe altro
che un modo per vendicarsi, per fargliela pagare.
A quel punto a Liutprando non rimaneva che alzarsi, salutare,
pagare il conto ed uscire; naturalmente, la loro amicizia si raffreddò molto, i
loro incontri cessarono, e le comunicazioni di servizio fra di loro avvenivano
attraverso lettere o terze persone … non affrontarono in alcun modo più quel
discorso per molto tempo.
Da questo momento in poi siamo in balia delle congetture più
pure e di qualche fatto eclatante accaduto, per cui molte cose sono frutto di possibilità
e di ricostruzioni più o meno arbitrarie; la serata fra Desiderio e Liutprando
non cadde completamente nel vuoto, il germe del dubbio si insinuò, ma doveva
avere già di per sé dei solidi appigli, delle incongruenze, delle cose
inspiegabili, dei sospetti, delle sensazioni poco piacevoli che in qualche modo
balzarono in primo piano e sensibilizzarono il fino ad allora ingenuo Desiderio
a catturare altri comportamenti strani di Ermengarda.
Dovette farne una certa collezione e di un certo peso se decise
di volerci vedere più chiaro; confidò i suoi dubbi al suo braccio destro, israeliano
anch’egli, che conosceva fin da quando erano entrambi giovani, uomo molto abile
e scaltro, e studiarono insieme un modo per venire a capo di tutti quei
sospetti.
Chissà perché non focalizzarono la loro attenzione nella
ricerca di ipotetici amanti, ma sulla casa di lei, custodita gelosamente per
tutto questo tempo, tanto che nessuno poteva vantarsi di averla mai vista
dall’interno, era alquanto strano che il fidanzato ufficiale non fosse mai
stato invitato in casa, che si fossero sempre incontrati altrove.
Così, il collaboratore una mattina le si presentò dietro la
porta di casa, con una scusa che doveva stare in piedi tutta e giustificare
ampiamente la circostanza e l’emergenza, forse serviva un suo parere urgente su
qualcosa di cui lei si era occupata, forse serviva con altrettanta urgenza
qualche sua firma, magari lei avrà fatto qualche iniziale resistenza ad invitarlo ad entrare in casa sua, ma capiva che ciò era semplicemente assurdo.
Cosa vide quell’uomo in quella casa, cosa riportò al suo
amico tanto che questi in base a questo racconto convocò urgentemente
Ermengarda, ebbero una discussione molto animata, alla fine della quale
troncarono il loro fidanzamento e immediatamente dopo anche il loro rapporto di
lavoro e non si rividero più?
La casa, è lo stesso Desiderio a parlarne a Liutprando in un
incontro da lui voluto in cui gli porge anche le sue scuse, era letteralmente
tappezzata in tutti gli angoli che lui poté vedere (corridoio, studio, uno
sguardo in cucina), di gigantografie che raffiguravano Ermengarda, si trattava
di sue foto formato poster, di sicuro era un servizio fotografico
eseguito da un professionista, non erano certo immagini artigianali o
autoscatti, e di qualche quadro dipinto da “una buona mano”, che la fissavano
in alcune pose molto spigliate, naturali e compiaciute … quasi da vamp.
Qualcuno potrebbe evocare ipotesi psicopatologiche come la
mitomania, la megalomania, il narcisismo, …, io credo che Adelchi sia stato
“creato” perché era la parte mancante del suo desiderio, quando lei incontra
Desiderio e se ne innamora, si innamora cioè per la prima volta di un uomo (la
seconda se consideriamo suo padre), lo vede carente, dimezzato, mancante di
tutte quelle qualità con cui riempirà Adelchi. Se non si fosse mai innamorata,
non avrebbe mai inventato Adelchi, non avrebbe mai corso il rischio, e sarebbe
stata innamorata solo di se stessa, della sua immagine, o meglio degli unici occhi
che la potevano ammirare (suo padre).
Nel momento in cui si innamora viene però delusa dalla
carenza dell’amato, che rappresenta soltanto una polarità dialettica di ciò che
intende lei per amore, quella puramente affettiva e passionale, mentre quella
protettiva fino al controllo, al dominio e all’autoritarismo deve crearsela e
si inventa un uomo fittizio dotato di tutte queste caratteristiche ma che, non
essendo reale, secondo lei non intralciava la sua storia reale.
Sono tutte ipotesi, direzioni su cui è possibile indirizzare
la ricerca senza escludere le altre, ma quell’uomo che entrò in casa sua e vide
(l’unico a farlo) tutte quelle gigantografie fu talmente stupito, talmente
impressionato, che riuscì a trovare soltanto una parola per esprimere ciò che pensava
di questa donna nella sua lingua e nella sua cultura: è graffiata in testa!
GRAFFIO שריטה
GRAFFIATO עשוי כלאחר יד
UN GRAFFIO IN TESTA שריטה בראש
Accidenti ... era solo e semplicemente... pazza, si, insomma, le rotelle non erano proprio tutte al loro posto.
RispondiEliminaL'unica cosa positiva di questa storia e che, quel deficiente esisteva solo nei suoi sogni.
Ma, si sarà fatta curare poi, eh!
Accidenti ... era solo e semplicemente... pazza, si, insomma, le rotelle non erano proprio tutte al loro posto.
RispondiEliminaL'unica cosa positiva di questa storia e che, quel deficiente esisteva solo nei suoi sogni.
Ma, si sarà fatta curare poi, eh!
Era pazza? Certo, come tutti noi, credo che qualsiasi donna (sincera con se stessa) possa identificarsi fortemente in Ermengarda in molti degli aspetti che ho raccontato, e prima di questo finale emergeva una donna che si complicava la vita e non una folle.
RispondiEliminaPreferisco pensare che sia una donna che ha provato ad amare, che è uscita dal suo guscio fatto di piccole storie di nessun conto, con uomini di nessun conto, senza futuro ma anche senza presente, e ha provato ad amare a modo suo, per quanto era matura, per quanto ne fosse capace, per sentirsi come le altre donne, per vincere la solitudine, per sentirsi viva.
Se vuoi, se proprio vogliamo usare il termine “pazza” non quando inizia la sua storia con Desiderio, ma prima, quando si dava al primo venuto, selezionato con criteri rigorosi che escludevano a prescindere che potesse innamorarsi di lui o lui di lei.
Sia la ricerca della passione e della tenerezza, sia quella del dominio e del soggiogamento, sia una certa dose di celebrazione della propria figura, bellezza, individualità, sono moneta corrente soprattutto nelle donne e non sono disdegnate nemmeno dagli uomini.
Se vuoi, è l’intensità (forse) con cui le ha messe in gioco ad essere stata eccessiva, oppure il modo assurdo con cui se l’è giocate che ha fatto crollare il castello emotivo che stava cercando di costruire faticosamente … proprio ciò che lei considerava essere il suo “cemento armato” ha appesantito la struttura e fatto crollare tutto … perché nell’amore non si costruiscono gabbie ma pareti d’aria.
O, ancora, il chiedere all’altro, all’amore, di farmi esistere, di farmi sentire unica e importante, di dare un senso alla mia vita … tutte cose che solo noi personalmente possiamo fare, anche attraverso l’amore, che facilita queste operazioni, ma non può sostituirsi a te, altrimenti sarebbe una mistificazione, un’identità che si regge su qualcosa di esterno e che non sta in piedi da sola.
L’invenzione di Adelchi era il contenitore emotivo in cui mettere tutto ciò che le mancava e che non accettava che le mancasse, lo viveva come una costrizione, una follia, per questo Adelchi era un personaggio immaginario, perché lei lo potesse gestire meglio, ma in quanto immaginario non dava le soddisfazioni del reale, ci voleva allora un essere reale che riconoscesse e desse credito all’immaginario … Liutprando prima e io stesso nella sua mente, anche se a me chiedeva inconsapevolmente anche l’aiuto a farlo “rientrare”, a non scindere più il suo desiderio in due persone una reale e l’altra immaginaria, ma a riversare (senza rompere il suo legame) tutto in un unico uomo reale.
Si è fatta curare? So che, in seconda battuta, Desiderio l’aveva sollecitata a farlo assumendosi tutti gli oneri economici della cura, ma non credo che abbia seguito questo consiglio; per lei l’amore per Desiderio era già una forma di cura e solo quando tutto le stava sfuggendo di mano si è rivolta prima a Liutprando e subito dopo a me.
Sarà rientrata nel suo guscio, nella sua casa museo, avrà ripreso le sue storie di nessun conto con uomini di nessun conto, magari con qualche immagine in più o con qualche tacca in più nel suo carnet dei trofei maschili … solo l’amore può muovere le montagne, e non sempre ci riesce.
Ciao
Era pazza? Certo, come tutti noi, credo che qualsiasi donna (sincera con se stessa) possa identificarsi fortemente in Ermengarda in molti degli aspetti che ho raccontato, e prima di questo finale emergeva una donna che si complicava la vita e non una folle.
RispondiEliminaPreferisco pensare che sia una donna che ha provato ad amare, che è uscita dal suo guscio fatto di piccole storie di nessun conto, con uomini di nessun conto, senza futuro ma anche senza presente, e ha provato ad amare a modo suo, per quanto era matura, per quanto ne fosse capace, per sentirsi come le altre donne, per vincere la solitudine, per sentirsi viva.
Se vuoi, se proprio vogliamo usare il termine “pazza” non quando inizia la sua storia con Desiderio, ma prima, quando si dava al primo venuto, selezionato con criteri rigorosi che escludevano a prescindere che potesse innamorarsi di lui o lui di lei.
Sia la ricerca della passione e della tenerezza, sia quella del dominio e del soggiogamento, sia una certa dose di celebrazione della propria figura, bellezza, individualità, sono moneta corrente soprattutto nelle donne e non sono disdegnate nemmeno dagli uomini.
Se vuoi, è l’intensità (forse) con cui le ha messe in gioco ad essere stata eccessiva, oppure il modo assurdo con cui se l’è giocate che ha fatto crollare il castello emotivo che stava cercando di costruire faticosamente … proprio ciò che lei considerava essere il suo “cemento armato” ha appesantito la struttura e fatto crollare tutto … perché nell’amore non si costruiscono gabbie ma pareti d’aria.
O, ancora, il chiedere all’altro, all’amore, di farmi esistere, di farmi sentire unica e importante, di dare un senso alla mia vita … tutte cose che solo noi personalmente possiamo fare, anche attraverso l’amore, che facilita queste operazioni, ma non può sostituirsi a te, altrimenti sarebbe una mistificazione, un’identità che si regge su qualcosa di esterno e che non sta in piedi da sola.
L’invenzione di Adelchi era il contenitore emotivo in cui mettere tutto ciò che le mancava e che non accettava che le mancasse, lo viveva come una costrizione, una follia, per questo Adelchi era un personaggio immaginario, perché lei lo potesse gestire meglio, ma in quanto immaginario non dava le soddisfazioni del reale, ci voleva allora un essere reale che riconoscesse e desse credito all’immaginario … Liutprando prima e io stesso nella sua mente, anche se a me chiedeva inconsapevolmente anche l’aiuto a farlo “rientrare”, a non scindere più il suo desiderio in due persone una reale e l’altra immaginaria, ma a riversare (senza rompere il suo legame) tutto in un unico uomo reale.
Si è fatta curare? So che, in seconda battuta, Desiderio l’aveva sollecitata a farlo assumendosi tutti gli oneri economici della cura, ma non credo che abbia seguito questo consiglio; per lei l’amore per Desiderio era già una forma di cura e solo quando tutto le stava sfuggendo di mano si è rivolta prima a Liutprando e subito dopo a me.
Sarà rientrata nel suo guscio, nella sua casa museo, avrà ripreso le sue storie di nessun conto con uomini di nessun conto, magari con qualche immagine in più o con qualche tacca in più nel suo carnet dei trofei maschili … solo l’amore può muovere le montagne, e non sempre ci riesce.
Ciao
A due commenti uguali, due repliche uguali :-)
A
Sarà che nel tempo ho assimilato un concetto sempre più elastico di follia e di normalità, sarà che quello che chiamiamo vita interiore non è affatto secondario alla vita considerata esteriore, oppure sarà perché ogni volta che mi sforzo di risalire la catena delle "scelte" mi perdo in un cespuglio di cui riesco sempre più difficilmente a individuare gli snodi, le radici... insomma come un affaccio sull'orizzonte degli eventi oltre il quale non vedo nulla...sì, insomma tutta questo tesoro di incertezza per dire che i personaggi di una storia, vera o immaginata è irrilevante, si desiderano a vicenda, si disegnano l'un l'altro e alla fine chi è il protagonista se non il lettore?
RispondiEliminaQuasi mi vergogno a lasciare solo un commento ;-)
un saluto
Il mondo delle sole chimere mi è buio come il sonno senza sogni…
RispondiEliminaPotrei mai sognare senza afferrare una realtà da trasfigurare, da migliorare, da colorare, da musicare ? potrei mai guardare in alto senza una realtà che - come terra – sorregga, accarezzi, insudici i miei piedi ? Siamo così umani, radicati, terreni, eppure sempre sospinti dall’afflato di spiccare il volo… “fatti della stessa sostanza dei sogni”, perché di sangue pulsiamo, sangue nella carne, nel cuore, e di quel sangue pulsano i pensieri, di quel sangue si accendono le emozioni e i sogni. E sogno quando mi trovo nel silenzio di un mare, di montagna, di una persona, e all’improvviso le mie cuffie cadono, si frantumano gli occhiali, e inopinatamente sento…come Fred Ballinger nella sua orchestra di campanacci. E’ il piede sul reale, meraviglioso o doloroso che sia, che forse ci permette di spiccare il volo…
O almeno questo vale per me....Flâneuse
Follia e normalità sono, a volte, i nomi che diamo rispettivamente a ciò che non comprendiamo e a ciò che crediamo di aver capito o a ciò che pensiamo debba essere. Non so se ci sono riuscito, ma volevo dar conto della complessità di ciò he chiamiamo amore; spesso ciò che avvertiamo in superficie non è tutto il nostro desiderio, ma soltanto ciò che del nostro desiderio vogliamo conoscere. Non che non sia importante, ma non dobbiamo trascurare il fatto che ciò che sappiamo non è tutto; il nucleo magmatico e incandescente del desiderio riposa sotto le fiamme visibili, è la brace che alimenta il fuoco. Può capitare che si manifesti con gesti o comportamenti di cui non cogliamo la portata o il riferimento a noi, spesso viene proiettato all’esterno, in un’altra persona, che viene amata od odiata in base all’attrazione o alla repulsione che ci suscita la parte sconosciuta del nostro desiderio. Forse la cosa più difficile del mondo è comprendere che si può amare e odiare all’unisono la stessa persona nello stesso istante, e che desideriamo la libertà e la schiavitù con lo stesso anelito, col medesimo respiro e con la stessa intensità. Che se emerge qualcosa di noi , questa non è altro che una delle polarità del tutto e che l’opposto (o meglio, la molteplicità) sta in agguato. Ho smesso anch’io da tempo di chiedermi cos’è vero e cos’è reale e considero reale di volta in volta ciò che stabilisco essere reale o ciò che posso condividere come una realtà o verità confortevole per entrambi con un’altra persona.
RispondiEliminaCiao
Il sogno non è la trasfigurazione bensì la creazione di qualcosa, poi per mille motivi ci spaventa quest’atto creativo e lo facciamo passare per mimesi del vero e del reale … credo che questo avvenga in parte perché il linguaggio che ci serve per comunicare le nostre esperienze reifica e rende universale ciò che è nato soltanto dalla nostra interiorità. Il reale, ammesso che esista, che la vita tutta come dice Calderon de la Barca non sia soltanto “sueño”, non è conoscibile così com’è, e se non possiamo conoscere l’originale, non possiamo nemmeno farne una trasfigurazione, una mappa, una raffigurazione, un’eristica. per illuderci di conoscere le cose come sono confidiamo nel linguaggio che generalizza e standardizza e nella possibilità di condivisione e di riconoscimento, conferma, condivisione della nostra esperienza. In altre parole ti sto dicendo che i criteri di veridicità e di realtà dell’esperienze non stanno nelle cose che crediamo di conoscere o nei nostri strumenti di conoscenza, essi sono come i centri di massa, completamente invisibili ai sensi, che non appartengono né al pianeta A o alla stella B, ma sono utili per spiegare l’attrazione o la repulsione fra i corpi astrali, il punto intorno a cui si distribuiscono le masse e le energie.
RispondiEliminaLa carne che brama, il sangue che pulsa e che turbina nelle arterie, la terra che mi insudicia e mi sostiene, l’acqua che mi compone, l’aria che mi accarezza e il fuoco che mi infiamma non hanno alcun senso se io non gliene do qualcuno .. nemmeno le persone che mi stanno di fronte hanno senso se non sono io a dargliene uno: l’impiegato della posta a cui mi rivolgo per inviare una raccomandata rimane pressoché un funzionario se per qualche motivo io non lo rendo umano, quasi non esiste se io non lo faccio esistere, praticamente due secondi dopo non ricordo più com’era vestito o che faccia avesse, se io non lo faccio esistere come persona. E farlo esistere non vuol dire guardarlo meglio e coglierlo così com’è, ma soltanto crearlo in un modo piuttosto che in un altro, perché anche il “funzionario” è una mia creazione.
Cuffie che cadono, occhiali che si frantumano, vesti che ci scivolano addosso succedono di continuo, tutte le volte che vogliamo avvicinarci a qualcuno o qualcosa, ma ciò non avviene per avere cuffie più sensibili, occhiali più potenti o vesti più trasparenti, ma per creare cuffie, occhiali e vesti che possiamo condividere insieme.
È un film capare di creare emozioni e di far riflettere, a partire da un punto di vista privilegiato, quello di chi cerca di trarre un bilancio della sua vita, di stringere qualcosa in mano di sé, quando si accorge che fra non molto dovrà fare i conti con la morte.
Ciao
Ho letto da poco Flaubert e il commento di Antonio me lo ha ricordato
RispondiElimina"Un pazzo! è qualcosa che fa orrore, E tu cosa sei, tu, lettore? In quale categoria ti schieri? in quelle degli sciocchi o in quella dei pazzi? Se ti dessero la possibilità di scegliere, la tua vanità preferirebbe certo l'ultima condizione".
Mi chiedo se questa persona era già un soggetto problematico o è stato il difficile rapporto con l'amore a farla cambiare ma soprattutto che lavoro delicato e arduo sia tradurre la follia in malattia se è poi vero che tutti ne portiamo un barlume...
La follia, mio signore, come il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non c'è luogo dove non risplenda.
Shakespeare
Ho visto che anche nella serie di foto di questo post c'è una versione di Flaming June , ho apprezzato il commento, as usual...
Ciao
Julia
Si, mi è capitata questa immagine mentre sceglievo quelle da selezionare per questo post, mi aveva colpito da te, e quando ho visto questa che se ne stava rannicchiata in un angolo di un soffitto decorato, ho pensato che fosse perfetta … a volte leggendo i tuoi blogghers preferiti ti porti dietro non soltanto idee, ma sensazioni sotto forma di immagini o anche di musiche.
RispondiEliminaLa tua citazione da Flaubert mi ha fatto pensare ad un episodio abbastanza comico che lo contraddice, spesso nemmeno la vanità è sufficiente per scegliere la pazzia, diventi pazzo quando credi, a torto o a ragione, di non avere più alternative, possibilità, speranze.
Anni fa, quando lavoravo nell’ambito delle dipendenze, decidemmo di aprire un centro che si occupasse di organizzare il tempo libero di persone malate mentali che durante i giorni della settimana venivano seguiti in Day Hospital, e la sera e durante i fine settimana ritornavano a casa presso le loro famiglie.
In genere queste persone venivano abbandonate a se stesse in questi periodi, trascorrendo il loro tempo libero da soli per le strade cittadine o, ancora più tristemente, in qualche centro commerciale, alla ricerca di contatti umani impossibili in quella marea di gente che girava fra negozi, guardava vetrine o prendeva il caffè al bar.
Il risultato era che spesso il lavoro dell’intera settimana veniva vanificato dalla solitudine e da quel senso di impossibilità e di estraneità che ti lasciavano queste esperienze.
Il nostro compito era quello di organizzare insieme a loro come trascorrere questi periodi, partecipando a qualche evento (culturale, sportivo, ecc.) in cui non si sentissero alienati dagli altri, o qualche gita.
A questo scopo acquistammo un pulmino nuovo di zecca. Al momento di apporre sulle fiancate del pulmino la scritta del centro con il logo che ci caratterizzava mi stupii che si opposero tutti all’unanimità; quando chiesi loro perché non volevano la sigla del nostro centro sul pulmino, mi dissero che non ci tenevano a far sapere a tutti che erano matti, meglio piuttosto il logo originario che citava le dipendenze, meglio tossici che matti insomma.
Mentre condivido in pieno le parole de La dodicesima notte di Shakespeare, la follia non solo passeggia e risplende ovunque nel mondo, anche e soprattutto in chi si crede immune, ma va fatta risplendere e passeggiare, va fatta brillare, va portata a spasso (che si espresse un mio collega sudamericano in un congresso rispondendomi con una battuta).
Per quanto riguarda la sua sostanza, credo che sia un modo impossibile per stare in piedi e per stare al mondo, quando hai esaurito quelli possibili; l’amore infrange tutte le strutture fragili di personalità, perché l’amore richiede molta maturità e la disponibilità a crescere. L’amore oscilla sempre fra il desiderare di essere amati per ciò che si è, e il superare se stessi per diventare ciò che potremmo essere in prospettiva; non è possibile scindere queste due posizioni: solo se mi sento amato per come sono posso cambiare, e il mio cambiamento era già insito nella mia posizione iniziale.
La fatica che comporta il cambiamento, la difficoltà più o meno elevata a muoversi verso un altrove, la resistenza verso il cambiamento, sono quel barlume di follia che è in ciascuno di noi, perché ciascuno di noi prova sofferenza durante il cambiamento.
Ciao Julia, apprezzo molto anch’io i tuoi commenti e la tua presenza.