Auguste Raynaud, La nuit |
"Quelli che non
sentono questo Amore
trascinali come un
fiume,
quelli che non bevono
l’alba
come una tazza di
acqua sorgiva
o non fanno provvista
per il tramonto,
quelli che non
vogliono cambiare
… lasciateli dormire".
(Jalāl al-Dīn Rūmī,
1207 - 1273)
“Meglio vivere
distanti e distinti, che d’istanti e d’istinti”
(Garbo, Selected Poems, Penguin
Books, 2045).
“ Fosse o non fosse il
Sacchiteddu in persona, fosse il suo doppio, il suo sosia, il suo omonimo, la
sua ombra o il suo fantasma, ogni volta che si arrivava in un posto lui era
partito e se mai qualcuno riusciva ad avvicinarlo lui scappava veloce come una lepre.
Qualcuno, negli ambienti del positivismo professorale di Avola, sentendo il
racconto di questi eventi paranormali, impostò lo stesso sorriso scettico e
disincantato che aveva abbozzato quando si era diffusa la notizia della
Madonnina delle Lacrime a Siracusa, parlando di una forma di suggestione o
allucinazione collettiva o quasi.
Una sera Venerina Costa fece
sapere a Sebastiano che voleva incontrarlo. La mattina dopo si mise in ordine e
lo aspettò a casa ... Sebastiano arrivò in bicicletta molto presto, salutò la
Masudda, si guardarono, si tennero le mani: - Jano, c’è un appuntato di Testa
dell’Acqua che lavora alla caserma di Donnafugata e che può aiutarti. - E voi
come lo sapete? - Io ho le orecchie grandi, e chi lo vuole sapere lo sa …
Non c’era emozione nelle sue
parole ma un tono distante e quasi sfinito. Gli diede il nome gli disse di
andare a cercarlo, in quei giorni era in licenza e l’avrebbe trovato con
facilità. Ma che mi vuole dire? – Non mi fare domande, Jano e corri.
Sebastiano risalì al suo paese
mordendo i pedali meglio di Coppi sotto un sole rovente. Bussò e trovò
quell’uomo in casa con sua moglie e le due bambine che giocavano sul pavimento.
– Voi mi conoscete e avete qualcosa da dirmi. – Sebastiano Gallo, che ci fate
qua? – Che dovete dirmi? – Non posso parlare, - disse l’uomo con aria
imbarazzata. – Che dovete dirmi? - –Non posso dirvi niente. – Da qui non mi muovo finché non parlate, è
chiaro? – urlò Sebastiano fuori di sé.
Le bambine lasciarono i giochi e
si rifugiarono dietro le gambe della loro mamma. L’uomo non si scompose: - Io
sempre l’ho pensato che vostro padre non era un assassino. – Non fate tanti
giri. Che dovete dirmi? – Per ora è meglio … - Che dovete dirmi? Sebastiano
urlò più di prima. – Se giurate che non m’avete mai visto né sentito … - Non vi
conosco, ve lo giuro che non vi conosco. – Andate alla caserma di Santa Croce …
Chiedete di farvi vedere il verbale datato 23 luglio scorso … il verbale d’un
incidente tra un camion e una mula … - E dunque? – Ci troverete una sorpresa. –
Quale sorpresa? –Vedete … Io non v’ho detto niente, il mio nome cancellatevelo
dalla testa, m’arraccumannu.
Sebastiano Gallo chiamò al
telefono Asciolla, che lo raggiunse verso le due. Tagliarono per Rosolini,
Pozzallo, Donnalucata, Marina di Ragusa e dopo due ore di tornanti, salite, di
scese, curve e strettoie, entrarono a Santa Croce e si fermarono davanti alla
caserma, circondata da bei palazzetti decorati. Non impiegarono più di dieci
minuti a convincere il brigadiere di guardia, sollevando una nebulosa di
ragioni astratte, a mostrare quel documento e nel documento trovarono una
testimonianza richiesta dal carrettiere Giambattista Bellassai e firmata da
Paolo Gallo. Questo Gallo dichiarava che alle sei del mattino del 5 luglio,
camminando sulla provinciale che portava a Comiso, aveva casualmente assistito
a un incidente, accaduto a una cinquantina di metri di distanza: «Giunto nella
salita del ponte petraro, a circa un chilometro e mezzo dal paese, un autocarro
agricolo che procedeva in senso inverso urtava, non so per quale motivo, contro
un carro, tanto che il mulo veniva proiettato alcuni metri verso Santa Croce e
lo stesso carro girava su se stesso e le aste si trovarono rivolte pure verso
il paese …».
Se si trattava proprio del
Sacchiteddu, le generalità erano leggermente falsate, perché quel testimone
diceva di essere nato a Modica e non a Palazzolo e di essere figlio del fu
Giovanni anziché del fu Sebastiano. Se era lui, evidentemente nessuno gli
chiese di mostrare la carta d’identità. Tra i documenti che da giorni Asciolla
portava sempre con sé chiusi in una cartella c’erano, oltre a un paio di
fotografie giovanili del Gallo, alle sentenze dei tre processi e ad alcuni
certificati anagrafici, anche due vecchi atti di locazione che recavano la sua
firma. Gli bastò fare un confronto con quella sottoscritta nella testimonianza
resa ai carabinieri. Erano identiche. Poteva essere la firma di un fantasma?”.
(Paolo Di Stefano, Giallo
d’Avola, Sellerio, Palermo, 2013, p. 267-270, € 14).
Contrada Cappellani, dove si svolsero i fatti, ora sede dell'agriturismo Avola Antica |
Contrada Cappellani, Avola Antica |
Contrada Cappellani, Avola Antica |
Un siciliano è intriso di una
strana commistione fra un intenso realismo, la ferocia stessa del rapporto che
ha l’uomo con la terra, con la sua stessa esistenza e il rapporto fra egli e
gli altri uomini, quell’alone di tragedia che lo segue come un’ombra, e il
senso intenso della paradossalità della vita.
Del primo aspetto trovate copiose
tracce in Giovanni Verga, in tutte le sue novelle, nei suoi romanzi, in ogni
sua opera, dove con scarne parole ci raffigura un personaggio, il suo ambiente,
il ferreo, deterministico e ineluttabile cingolo di rapporti che egli ha con
l’ambiente in cui vive, le essenziali leggi di natura a cui il tutto soggiace e
che trascineranno tutti i personaggi al loro tragico destino.
Abbiamo come l’impressione di
osservare le nervature di una foglia, i fili onirici che tessono un sogno, i
microscopici e impalpabili batuffoli di cotone della nebbia, le venature del vetro soffiato,
i reticoli del platino, i cristalli del ghiaccio, le leggi che regolano la
sospensione, l’aggregazione, la dispersione e la nebulizzazione dei liquidi e
dei gas.
È come trovarsi di fronte ad un
quadro di Van Gogh, che con la sua pennellata densa, morbida e plastica quasi
ti avvolge e ti inserisce nel mondo che vuole raccontarti e dove un albero è un
albero, le stelle sono stelle, il fiume è il fiume, il vento vento, l’acqua acqua, le nuvole, il grano, un letto
un paio di zoccoli, il ponte di Langlois, i girasoli, Vincent, …, sono
semplicemente nuvole, grano, letto, zoccoli, ponte di Langlois, girasoli,
Vincent … ma non ti accorgi che ci sei anche tu, che guardi il quadro con gli
stessi occhi incantati del suo autore quando guardava ciò che avrebbe ritratto,
e da questo nasce tutta la poesia della sua pittura e tutta la poesia delle
novelle di Verga.
È una poesia che nasce dalle cose
stesse, dai fatti, dagli accadimenti, che attraversa il cuore e la mente e si
fa parola, narrazione, racconto, senso del vivere personale e collettivo;
leggete il dialogo fra Alfio e Mena de I Malavoglia o le accorata parole che Bianca
Trao rivolge al baronello Rubiera, suo amante, nel Mastro don Gesualdo, o
l’intenso lampeggiare di gesti ferini e parole belluine de La lupa, che accende
il dramma di una madre innamorata dell’uomo della figlia, per capire come il
sentimento, la poesia e il dramma in Verga sorgano da pochissime, dense e
stringate cose che l’autore seleziona.
Il paradosso, invece, predomina
nelle opere di Pirandello dove ogni cosa, dagli oggetti concreti fino alle parole
grandi come verità, natura, soggetto, uomo, onestà, dignità, integrità, amore,
amicizia, fedeltà, …, si rarefanno fino a disperdersi, fino a perdere ogni
contorno, ogni potere di definizione e rimaniamo appesi all’inconsistenza di
ciò che volevamo rappresentare, di ciò che all’inizio ci sembrava solido,
adamantino, ma man mano che andiamo a toccare ognuna di queste cose ne
scopriamo prima uno spostamento che sembra durare in eterno, quasi che le cose
stesse che vogliamo indagare si spostino un po’ più in là ogni qualvolta noi
crediamo di avvicinarci a loro.
Poi, se siamo fortunati, ne
avvertiamo il senso di inconsistenza, come se stessimo inseguendo fantasmi,
fantasmi noi stessi … da qui l’acuto senso del paradosso; cosa ci facciamo col
paradosso? Se siamo particolarmente dotati ci scriviamo pièce teatrali, come
fece Pirandello, oppure viriamo verso il cinismo, o ancora ci iscriviamo a
Dianetics, o frequentiamo i testimoni di Geova, o gli Avventisti del Settimo
giorno, o le nostre meccaniche cerebrali si inceppano nella follia, o scopriamo
il disincanto, o ci facciamo una grande, immensa risata … o cominciamo a
vivere davvero.
Sembrano due aspetti totalmente
opposti e contraddittori fra loro a prima vista questo estremo realismo fino
alla cruenza e la paradossalità della vita, eppure sono inscindibili, non può
esistere l’uno senza l’altro; prendete l’estremo naturalismo di Verga, la sua
presunta scientificità nella descrizione di fatti e persone, la sua presunta
neutralità che trova il corrispettivo nel procedimento scientifico positivista,
come potrebbe reggersi senza narrare accadimenti paradossali?
Come ve lo spiegate se non con un
paradosso il fatto che i Malavoglia, da sempre contadini e marinai, si
avventurano a far commercio di lupini via mare; che ne sapevano i Malavoglia di
commercio? E come ve lo spiegate che un mastro d’opera fina come Gesualdo Motta
si impelaghi nel matrimonio con donna Bianca Trao, una nobile il cui antico
casato discendeva nientemeno che dagli hidalgos spagnoli che occuparono l’isola
al seguito di Pietro d’Aragona, un uomo così accorto per ciò che riguarda il
fare e conservare la “roba”, che diventa così sprovveduto quando gli propongono
questo matrimonio?
Basterebbe anche la sola
descrizione fisica di Gesualdo e di Bianca, le prima parole che pronunciano nel
romanzo, la descrizione che Verga fa dei rispettivi ambienti, e le interazioni
che hanno loro due e i loro rispettivi mondi di appartenenza, improntati
all’indifferenza reciproca, all’imbarazzo di non avere un codice condiviso di
comportamento, di non sapere cosa l’altro pensa, come reagirebbe, come
comportarsi, e il limitarsi ad un triste scambio in cui lei sposa l’onorabilità
e il denaro, mentre lui sposa, o crede di sposare, la sua elevazione sociale e
il rispetto negli ambienti di elite, quelli che contano, quelli che comandano,
quelli che vengono riveriti.
E la famiglia Trao? Quale
paradosso vive in quella nobiltà vissuta senza averne i mezzi? Come si può
essere nobili senza lo sfarzo, l’eccesso, lo spreco, il futile e il superfluo? Come si può
vivere in una catapecchia, indossare vecchie palandrane lise ed unte, o un
abitino di lanetta e continuare a credere di appartenere alla schiera degli
eletti, dei chiamati e dei privilegiati? Sono nobili per nascita, per censo,
per alterigia, per prosopopea, perché hanno l’orgoglio della loro casta, ma
vivono sostanzialmente da pezzenti.
Non è certo da meno mastro don
Gesualdo, il cui paradosso è già nel doppio titolo che accompagna il suo nome:
il mastro è in genere un artigiano, nel suo caso un abile muratore, un
capomastro, mentre don indica una posizione preminente, altolocata, un
possidente, una persona colta, un nobile o una persona di qualche importanza
all’interno di una comunità, come un prete ad esempio.
E non è vero che Gesualdo vive il
paradosso esattamente contrario rispetto a Bianca, Diego e Ferdinando Trao? Non
è vero che anche lui, pur potendo, vive come un pezzente?
A ben guardare troviamo elementi
di realismo, di tutta la ferocia con cui la vita si accanisce sui personaggi
solcandoli di dolore e di angoscia, tutta la tragedia della vita, anche in
Pirandello, quando il paradosso che costruisce le sue architetture narrative
esplode e ciascuno rimane col suo stupore, col disincanto, passando rapidamente
dall’illusione alla disillusione, dal cielo alla polvere, dal tutto al niente.
La poesia in Pirandello è
intessuta, come i fili d’oro, le perle, le pietre preziose, che ornavano i
vestiti rinascimentali, tutta nel dipanarsi del paradosso, nel suo costruirsi
intorno ai personaggi, nel suo creare fatti, vicende e sentimenti: è una poesia
che nasce nella mente e si trascrive nel cuore e nel corpo.
Questa alternanza è un retaggio
degli antichi greci, disarticolate l’Edipo re (ma anche una qualsiasi delle opere
tragiche) e troverete paradossi a non finire, a cominciare dal fatto che Edipo
per non uccidere colui che crede sue padre e per non essere costretto a
giacersi con colei che credeva sua madre, si incammina verso la città in cui
vivono e regnano i suoi veri genitori.
È paradossale che Edipo sia al
contempo marito e figlio di sua madre, che i suoi figli gli siano figli e
fratelli, che il cognato Creonte gli sia anche zio, ma l’aspetto più
paradossale di tutta la vicenda è che Edipo sia ritenuto il più sapiente degli
uomini perché ha risposto correttamente al quesito della sfinge, mentre è in
realtà l’uomo che più ignora tutto di sé stesso, ignora a quale assurdità l’ha
condotto il suo destino.
Solo con molta fatica Edipo
dipanerà l’intreccio di eventi che lo riguarda e scoprirà cosa ne è stato della
sua vita, che razza di uomo è diventato, scoprirà che egli che si credeva il
più fortunato, il più privilegiato, il prediletto dagli dei, il più sapiente, è
in realtà il più disgraziato; solo allora Edipo scoprirà cos’è un uomo,
scoprirà che questo è il destino dell’essere uomo, all’inizio stenti persino a
stare in piedi, quindi alzi la tua schiena, cammini dritto, guardi il cielo e
ti credi simile ad un dio, invincibile, immortale e col mondo fra le tue mani,
infine le vicende della vita, i dolori, l’età e la morte ti piegano come un giunco e necessiti di un
sostegno i legno per sostenerti, sia esso un bastone o la cassa che conterrà le
tue spoglie dopo il tuo trapasso e che ti restituisce un minimo di decoro quando
il tuo corpo non è più in vita.
L’aveva colto bene Friedrich
Nietzsche fin da subito, a soli ventotto anni scrive La nascita della tragedia
in cui sostiene che la forma di opera più sublime della cultura dell’occidente
sorge da due stati d’animo che si incontrano, da due diverse aspirazioni, da
due diversi modi di sentire, lo spirito apollineo e quello dionisiaco, dalla
limpidezza solare, abbagliante del responso dell’oracolo di Apollo, della Pizia
o della Sibilla o dall’ebbrezza ritmica del ditirambo in onore di Dioniso.
Solo in questa terra, la Sicilia,
permeata di cultura greca, che ha prodotto molta di questa cultura, che ne ha
ospitato spesso il mito, poteva nascere una vicenda come quella che racconta
Paolo Di Stefano, solo in questa terra potevano nascere uomini come Paolo,
Salvatore e Sebastiano Gallo, Cristina Giannone, Venerina Costa detta ‘a
Masudda e tutti coloro che per parentela, conoscenza, vicinanza, vicissitudini,
si trovarono ad avere un qualche ruolo.
Solo qui era naturale credere che
un fratello potesse uccidere il proprio fratello freddamente e barbaramente,
con premeditazione, colpendolo ripetutamente con un sasso alla testa, con
l’aiuto del proprio figlio maggiore e di ignoti complici che ne trafugano e
nascondono il cadavere, complici che sarebbero individuati nei futuri cognati
(conosciuti soltanto da poco).
Solo qui, in alternativa, si
poteva ritenere che un fratello morto fosse in realtà scomparso lasciando
pesanti indizi di accusa contro il proprio fratello che viene accusato di omicidio
proprio dalla cognata, agitando le minacce che questo fratello aveva
pronunciato e le liti continue che avvenivano, per vendicarsi del fratello
prepotente che perpetuava nei suoi confronti soprusi e angherie.
Sorge anche l’ipotesi di una
complicità fra il presunto omicida e la cognata, perché? Perché i due avrebbero
una tresca che durava da anni alle spalle della vittima, fino al punto che
quest’ultimo era per loro diventato ormai un intralcio. Come può sorgere una
simile ipotesi, come può essere sostenuta, come può apparire plausibile? È
facile in una terra in cui non si fanno le rivoluzioni per fame (di cibo o di
libertà), ma per l’onore di una donna (vedi i Vespri Siciliani), in cui ci si è
nutriti per secoli con le vicende narrate dai cantastorie e dai pupari delle
Chansons de geste, con i romanzi cortesi tradotti per il volgo, dove
combattevano Orlando e Rinaldo, per l’amore di Angelica, dove sorge la
cavalleria rusticana e ogni compare Alfio necessita di un compare Turiddu (oggi, purtroppo, Orlando, Rinaldo, Alfio e Turiddu si sono degradati in Ridge e Thorne di Beautiful o in son so più chi diavolo sia in voga adesso), ogni
Santuzza di una Lola, ciascuno di un rivale su cui prevalere e questo prevalere
vale più della conquista e il partner non è l’essere amato ma la posta in palio
e ogni corteggiamento diventa un’opera dei pupi e talvolta finisce in tragedia
perché il sangue è altamente infiammabile, ma la vera tragedia è quando sfocia
in “lieto fine”.
Solo in questi posti un morto
ammazzato poteva vivere, lavorare, essere visto, salutato come se la cosa fosse
del tutto naturale, creando di fatto gli scenari di realtà possibile in cui
esiste la verità giudiziaria insieme a tutte le possibili macchinazioni di cui
era capace l’immaginario collettivo.
Volano le ipotesi più fantasiose,
il morto non è morto, viene visto molte volte in molti posti, c’è chi pensa che
sia fuggito all’estero, forse ospite da qualcuno dei suoi due fratelli emigrati
anni prima, chi ci vede soltanto una fuga dal fratello prepotente e dalla
moglie tirannica e dominatrice, chi una uscita dai problemi e dalle
responsabilità.
Chi pensava semplicemente a uno
stato di coscienza crepuscolare, insito nel carattere della vittima o in
seguito ad un trauma psichico come l’aggressione del proprio fratello, che gli
aveva fatto perdere del tutto o in parte la memoria e che faceva si che il
pover’uomo vagasse per il mondo conducendo un’altra vita, senza ricordarsi
della casa, degli affetti, del fatto che suo fratello stava scontando
l’ergastolo per il suo omicidio … non si era già in passato allontanato da casa
per giorni, senza motivo, incurante che fossero tutti preoccupati per lui e non
è questa quasi la trama del fu Mattia Pascal?
E come fu possibile che numerosi
cittadini di Avola, di Palazzolo, di Testa dell’Acqua e di vari altri paesi nel territorio fra
Siracusa e Ragusa avvistassero, salutassero, si intrattenessero col morto, gli
affittassero abitazioni, gli dessero lavoro ... ad un morto, ad un fantasma, ad uno che non avrebbe dovuto esistere ... con
assoluta naturalezza, senza avvisare l’autorità giudiziaria, o i parenti … più
che di un Verga, di un Pirandello, di un Sofocle, ci vorrebbe un Andrea
Camilleri per raccontarlo, in un dialogo come questo:
“«Ah
dottori dottori!» si lamentiò Catarella appena Montalbano trasì in
commissariato. «Che fu?». «Tutto l’archivio mi passai, dottori. La vista mi
persi, l’occhi mi fanno pupi pupi. Non c’è altrui che è assimigliante di
simiglianza al morto natante. L’unico fu Errera. Dottori, non è possibile la
possibilità che è propriamenti Errera?». «Catarè, ma se da Cosenza ci hanno
detto che Errera è morto e sepolto!». «Va beni, dottori, ma non è possibili che
il morto addivintò vivendi e appresso morse nuovamenti addivintando natante?»”.
(Andrea Camilleri, Il giro di boa, Sellerio, Palermo, 2003, p. 133, € 10).
Ci ha provato a raccontarlo Paolo
Di Stefano e ci è riuscito, a mio parere, molto bene. E così chiudo questo
lungo post perché anche a me l’occhi mi
fanno pupi pupi.
Bene,sono contenta che tu sia di nuovo fra noi... sto centellinando il tuo postone piano piano arriverò alla fine con il solito piacere.
RispondiEliminaCiao
http://specchio,ilcannocchiale.it
E' tra le note di questa splendida serenata che ti scrivo caro Garbo, contento di questo tuo omaggio alla sicilianità e all'anima profonda di un sud dove la tragedia è scritta in un sole feroce che spacca le strade e accartoccia in fretta le foglie che hanno avuto l'ardire di cadere. E' questo il tratto che accomuna il sud, che non è solo espressione geografica, è debito mai pagato alla paradossalità della vita, al fatalismo tragico. Dalla Grecia è sorta la tragedia e l'epica ma solo la prima caratterizza veramente la cultura del sud, l'epica è attecchita nei paesi nordici, lì la tragedia è arrivata molto tardi, quando ormai era solo dramma. Dove il sole picchia duro anche la cavalleria incontra la tragedia e nasce Don Chisciotte, tragedia sotto mentite spoglie, o cavalleria sotto mentite spoglie. Le spoglie sono quelle della follia, lucido filtro della realtà fatta di pianure spietate, "dove a volte si resta in ascolto aspettandosi di udire gli spari di antiche colubrine, per un attacco di pirati saraceni o di briganti", come dice il mio amato Vittorio Bodini, poeta e traduttore del Don Chisciotte non per caso. Poeta leccese Bodini che vive in maniera lacerata il legame con il Salento, perché, permettimi caro Garbo di accomunare il mio Salento alla tua Sicilia, abbiamo tante cose in comune, un barocco che è più sfida a Dio che apoteosi di devozione, un innato fatalismo ma soprattutto punti di contatto in quell'immenso monumento popolare che è un dialetto senza futuro e senza condizioni, dove farò diventa aggiu fare, che tradurresti devo fare e il condizionale è un imperfetto storto dallo sforzo di sopportare l'assenza di condizioni, da me non esiste il farei, diventa era fare. Ne accennai in questo post tempo pensato come una sorta di guida per un paio di mie amiche che avrebbero passato le loro vacanze dalle mie parti. E' questa la tragedia del sud, nei due aspetti magistralmente messi in luce da Verga e Pirandello ma che quotidianamente entra in scena ogni volta che ritorniamo alla nostra lingua perché ogni volta torniamo per la prima volta, e come diceva Eliot, “Non smetteremo di esplorare/ e alla fine di tutto il nostro esplorare / arriveremo al punto di partenza/ e lo conosceremo per la prima volta.”
RispondiEliminaUn saluto
Antonio
@ Specchio,
RispondiEliminaben ritrovata, spero che abbia gradito anche il resto della tua lettura.
Ciao
@ Antonio,
RispondiEliminail tuo commento mi piace molto, lo trovo molto intenso e appropriato, evidentemente sei riuscito a calarti nel clima che ho respirato io scrivendolo. Condivido le parole che scrivi, la Sicilia di cui parlo è Sud, perché esistono forti affinità fra tutte le regioni del meridione della Penisola, somiglianze e identità storiche, culturali, linguistiche, paesaggistiche, un intreccio continuo che dura da millenni di rapporti, scambi, liti, alleanze.
Esistono pure delle differenze, da quelle che marcano la propria individualità e appartenenza rispetto soprattutto al vicino, differenze che servono anche come marchio indelebile che dicono immediatamente chi sei e da dove vieni, senza sacrificare la comprensione di ciò che dici, la possibilità di farti intendere, differenze che sottolineano la differenza pur all’interno di un nucleo linguistico, etico, valoriale, economico, condiviso.
Poi ci sono le differenze dettate da eventi storici e sociali di rilievo ma circoscritti ad un territorio (che la corte borbonica risiedesse a Napoli e non altrove marca una differenza netta fra i napoletani e tutti gli altri abitanti del sud, anche se tutti quanti erano sotto il dominio borbonico, alla fine solo i napoletani difesero davvero come poterono Franceschiello a Teano), o le differenze morfologiche (abitare alle pendici di un vulcano attivo forgia un carattere differente rispetto a chi abita in Aspromonte o a chi vive nel tavoliere delle Puglie).
E gli stessi elementi che si fusero nella tragedia greca, come scrivi tu, trovarono modalità sempre differenti di radicarsi in ciascun territorio su cui la colonizzazioni ellenica approdò, e subirono modifiche in base alla sensibilità della gente del luogo e degli eventi che essi vissero; credo che la tragedia stessa sia morta sostanzialmente nel suo spirito fondamentale, in gran parte stemperandosi nel dramma, ma non è raro trovarne traccia nelle opere di grandi scrittori come Verga e Pirandello, o nelle vicende delle persone semplici come la famiglia Gallo e tutti coloro che furono co-protagonisti di quel giallo che Paolo Di Stefano racconta.
Ciao
P.S. Ho apprezzato molto anche il post che mi segnali sul Salento, a Lecce sono stato per tre mesi, in circostanze che mi impedivano di visitarla come avrei voluto e di apprezzarla come meritava … sono rimasto semplicemente senza fiato nel vedere Otranto di sera in febbraio …. per il resto conosco poco tutte le altre bellezze che descrivi più con i colori del sentimento che con quelli della guida turistica.