El tiempo es la
sustancia de que estoy hecho
el tiempo es un rio
que me arrebata, però yo soy el rio;
es un tigre que me
destroza, pero yo soy el tigre;
es un fuego que me
consume, pero yo soy el fuego.
El mundo,
desgraciadamente, es real;
yo, desgraciadamente,
soy Borges.
Il tempo è la
sostanza di cui sono fatto
il tempo è un fiume
che mi trascina, ma io sono il fiume;
è una tigre che mi
divora, ma io sono la tigre;
è un fuoco che mi
consuma, ma io sono il fuoco.
Il mondo,
disgraziatamente, è reale;
io, disgraziatamente,
sono Borges.
(Jorge Luis Borges, Otras inquisiciones,
Nueva refutación del tiempo, 1952).
Io sono il fiume del tempo, io sono la tigre, io sono il
fuoco, io sono Io ... disgraziatamente dice Borges ... fortunatamente o fortunosamente,
dico io ( e forse disgrazia e fortuna sono la stessa cosa ... l’una il rovescio
dell’altra ... ma della fortuna parlerò un’altra volta); tutto ciò che mi
agita, mi percuote, mi scuote, mi attraversa ... sono Io, Io solo l’Altro fatto
Mio ... perché niente potrebbe sfiorarmi se io non gli dessi un senso per me,
se non trovassi spazio per albergarlo, se non facessi mio ciò che mi è esterno.
E’ necessario che io trovi spazio
dentro di me esattamente per quella cosa li, altrimenti non la incontrerò mai,
altrimenti essa non farà mai parte della mia vita, mi scivolerà a fianco senza
che io nemmeno mi accorga che esiste; quante cose semplicemente esistono ma non
sono nulla per me, quante cose mi sfiorano senza mai fermarsi, senza riposare
in me.
Quante persone incrocio
quotidianamente senza che mai queste rappresentino nulla per me o poco più, e
quante persone che sono nulla al momento attuale possono diventare molto ...
moltissimo ... per me in base alla semplice esperienza di farle mie, di annetterle
nella mia intimità, di trascriverle nella mia interiorità, di farle sedimentare
in me, di attuare la “permanenza” (la trascrizione dell’altro al proprio
interno: la sua presenza, i suoi gesti, le sue azioni, i suoi pensieri, i suoi
sentimenti vanno ad alimentare la nostra presenza, i nostri gesti, le nostre
azioni, i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Sembra automatico e scontato
che avvenga questo discorso, in realtà ci sono molte persone totalmente
incapaci di permanenza, come se mancasse loro la penna per scrivere o la carta
su cui scrivere). E la “permeanza” (il lasciarsi attraversare piacevolmente da
questo sentimento, godendolo, e l’abbandonarsi a donare il proprio sentimento
corrispettivo, godendo anche di questo, della “potenza” dell’offrire amore).
Quando amiamo una persona
emergono due indici caratteristici di questo amore, il primo è senza dubbio la
curiosità, tutto di questa persona ciò che fa, ciò che pensa, ciò che dice,
persino i sospiri più reconditi, ci attraggono, sono per noi molto importanti.
Il secondo indice è la trascrizione che facciamo dentro di noi degli elementi
significativi di questa persona, la “permanenza” in noi della sua essenza per
poterne godere anche quando non c’è. Ne trascriviamo i gesti, ne trascriviamo la voce, i pensieri, tutto
ciò che ci colpisce ma soprattutto trascriviamo una storia congiunta di senso,
la nostra storia insieme, stabiliamo un linguaggio comune, solo nostro, e diamo
un senso a ciascuno di noi e a noi due insieme.
E’ un processo continuo, instancabile,
un dialogo incessante che si perpetua anche nei nostri sogni, altrove l’ho chiamato guardare il mondo e se stesso con gli occhi
dell’altro, essere presente a se stesso nella relazione, esserci con l’altro.
Finché mi chiedo cosa starà
facendo, cosa starà pensando, chissà dove sarà, c’è amore, quando l’amore
finisce, cessa gradatamente ogni curiosità e ogni trascrizione dell’altro, il
cesello che la scolpiva in me smette di incidere sulle mie carni, non c’è più
curiosità e se prima c’erano sempre tante cose da dirsi, adesso non ci sono più
parole.
Può accadere ancora qualche lieve curiosità, come un fuoco
d’artificio che esplode in ritardo rispetto agli altri perché ha la polvere un
po’ più umida o perché aveva la miccia più lunga, ma è come la scia luminosa di
una stella che osserviamo sulla volta del cielo quando ormai la stella non
esiste più da migliaia di anni, l’altro ritorna fondamentalmente nell’irrilevanza
in cui era prima che io lo conoscessi e prima che me ne innamorassi,
traiettoria ormai differente che non mi riguarda più.
Ma l'accendersi e lo spegnersi di un innamoramento sono fenomeni molto complessi ma che, tutto sommato, ricadono (o possono ricadere) all'interno di azioni consapevoli e volontarie tranne forse per ciò che riguarda il nucleo del sentimento stesso che sorge spontaneamente; trascrivere o non trascrivere più una storia e un senso comune seguono la stessa sorte dell'innamoramento.
Come la Eva gnostica, anche noi
possiamo dire a buon diritto che:
« Io sono tu e tu sei io, e
dove tu sei io sono, e in tutte le cose sono dispersa. E dovunque tu vuoi, tu
mi raccogli; ma raccogliendomi, tu raccogli te stesso” (Frammento gnostico dal Vangelo
di Eva, in Epifanio di Salamina, Panarion Haeresion, 26 –3).
Parole straordinarie, saggezza
antica e dimenticata che racchiude il segreto bocciolo di un incessante
processo di essere e divenire, di assimilazione e accomodamento, di sistole e
diastole, di espansione diadica della coscienza (Ed Tronick, Regolazione
emotiva. Nello sviluppo e nel processo terapeutico, Raffaello Cortina,
Milano, 2008) dove il tu e l’io si fondono nel noi ed io posso capire te, posso
capire me e posso capire ciò che ci lega.
Oggi questa saggezza si sostanzia
in certi tipi di psicoterapia, la dove i confini dell’Io e del Tu sono molto
labili, la dove il terapeuta entra nel nucleo del delirio, attraversandolo,
comincia a tessere il delirio insieme al suo paziente, perché questo non
rimanga sterile e rigido involucro di cemento armato che ghiaccia l’individuo
in un mondo solitario e sublunare, ma crea un germe di mondo condiviso, un
mondo più confortevolmente abitabile per l’essere umano, un mondo che non sia
più immensa e sterile solitudine da cui scaturiscono terrori senza fine.
Un delirio non è un discorso
senza senso, un discorso strampalato, se così fosse nessuno di noi ne sarebbe
esente, quanti discorsi strampalati e senza senso facciamo e ci facciamo ogni
giorno; un delirio è un discorso talmente rigido e inscalfibile che puoi
abitarlo soltanto in solitudine, non c’è spazio per l’altro, ma non c’è spazio
nemmeno per te, perché annullando l’altro annulli pure te stesso (e infatti il
terrore epidermico dello schizofrenico è quello della frammentazione
dell’identità, quello di disperdersi; ma non è solo lo schizofrenico che teme
la dissoluzione, le problematiche fobiche, in particolar modo quelle claustro e
agora – fobiche, si dibattono fra la dissoluzione identitaria e la trappola
senza alcuna via d’uscita ... incapaci di entrare e di uscire in un e da un
luogo, incapaci di entrare e di uscire in una e da una relazione).
Non si tratta soltanto di porre
l’altro in senso metafisico, di porre un altro totalmente e completamente
creato da me, come fecero filosofi idealisti all’inizio del XIX° secolo, il cui
pensiero dell’altro può essere espresso con le parole di uno di loro:
"L'io
crea il non-io, nell'io, per essere io" (Johann G.
Fichte).
Il non-io,
l’altro, è una mia creazione; attraverso questa creazione io sono io;
l’argomentazione di questo discorso che ne fa Fichte credo sia nota a tutti e
in ogni caso la si può trovare in un buon manuale di storia della filosofia.
Resta il fatto che l’altro è ciò che io creo per esistere.
Questa posizione
tronca di netto ogni insormontabile problema insito ad ogni discorso realistico
ingenuo, quel discorso che pone un isomorfismo puntuale fra la nostra
percezione e la realtà e che è convinto che noi possiamo conoscere direttamente,
senza intermediario alcuno, i mattoni stessi che costituiscono il reale.
Sono troppi e troppo ben
argomentati i discorsi che mettono in dubbio questo isomorfismo, non è
ulteriormente sostenibile una conoscenza del non-io, dell’altro e della realtà
in quanto tale; ma eliminando una conoscenza del reale elimino anche (discorso
poco praticato questo) anche la conoscenza di me, che posso cogliermi non
direttamente, ma solo attraverso l’altro, così come il mio occhio non può
vedermi direttamente ma soltanto attraverso uno specchio.
E’, dunque, intuitivo: se elimino
ogni possibile conoscenza dell’altro, di fatto elimino ogni possibile
conoscenza di me; come uscirne? Io comunque qualcosa conosco, conosco qualcosa
di me, conosco qualcosa dell’altro, e su questa conoscenza baso il mio agire;
dove colgo questa conoscenza?
Conoscere è solo e sempre avere
consapevolezza del rapporto fra me e l’altro, non conoscerò lui direttamente,
non conoscerò me direttamente, ma posso riflettere su ciò che ci lega, è
conoscenza del legame che ci unisce.
Per molto tempo si è pensato che
il mondo potesse essere conosciuto così com’è, e se talora c’erano delle
imperfezioni, queste erano dovute ad errori che venivano commessi
nell’osservazione; generazioni di scienziati sono stati addestrati ad osservare
asetticamente la natura, a pulire accuratamente le “lenti” attraverso cui la
osservavano, ad eliminare ogni fonte di errore, scienziati come Freud
quando studiava l’anatomia microscopica nel laboratorio di Brücke a
Vienna erano soliti pulire accuratamente le lenti dei loro microscopi, di
trattenere il fiato e rallentare al massimo le loro pulsazioni cardiache perché
il loro vivere non interferisse con la loro osservazione.
Oggi siamo convinti che
l’osservatore non solo è parte integrante con ciò che osserva, ma nel suo
osservare modifica ciò che sta osservando; questo significa che dal fisico al
cultore delle neuroscienze, dal chimico allo psicoanalista, dall’astronomo allo
psicologo sociale, diamo tutti quanti conto non di come sono le cose che
osserviamo, ma sostanzialmente del rapporto che c’è fra noi e le cose che
osserviamo.
Questo rapporto è co-creazione di
due o più individui, in gran parte il mondo in cui viviamo è una costruzione
sociale (non mi stancherei mai di suggerire come lettura e di rileggere uno dei
migliori libri che abbia mai avuto fra le mani: P. L. Berger T. Luckmann,
La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1987),
costruiamo mondi, dimensioni, realtà che poi abitiamo e che possono essere più
o meno confortevoli al nostro abitarli. Questi edifici sono in gran parte costituiti da legami, da ciò
che faccio io per te e tu per me, da ciò che faccio io con te, io con voi; la
democrazia, la libertà, la giustizia sono idee di mondi abitabili, se non
costruissimo tribunali, carceri, università dove si insegna il diritto,
parlamenti, se non istituissimo libere elezioni, se non facessimo infiniti
dibattiti politici, se non garantissimo i diritti di un cittadino anche con le
forze dell’ordine, se non facessimo delle cose insieme, tutti questi sarebbero
soltanto discorsi vuoti.
“La psicoanalisi stessa è
soltanto una striscia sul manto della tigre. Alla fine può darsi che incontri
la Tigre – La Cosa Stessa – O” (Wilfred R. Bion, Memoria del futuro.
Il sogno, Raffaello Cortina, 1993).
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