lunedì 2 febbraio 2015

THE SUN IS GOD – TURNER








Sono andato a vedere questo film nel primo spettacolo, quello delle ore 14.15, ora inconsueta per me, perché avevo altri impegni nel tardo pomeriggio e nella serata, non mi aspettavo la coda che mi sono trovato di fronte, non per quel film in ogni caso (avrei capito un film che so io, su Monet, su Picasso … non su un semi- sconosciuto paesaggista inglese vissuto fra la fine del XVIII° e l’inizio del XIX° secolo), non a quell’ora in cui molte persone non hanno ancora terminato il pranzo della domenica.
Fin dalla prima scena ti ritrovi immerso in immagini di celestiale bellezza, o meglio, in un alternarsi di bellezza (soprattutto naturale) e ripugnanza, disgusto e di grottesco (soprattutto umana); sembra che l’intero film non sia altro che un quadro di Turner in movimento.
Non so che vita abbia condotto il vero Turner, quello storico, nel film (interpretato da Timothy Spall, quello che in Harry Potter è Peter Minus il mangiamorte, meglio noto come “crosta” o “codaliscia”), lo dipingono come una specie di orso semicivilizzato, grossolanamente rozzo, che per comunicare usa più spesso il grugnito o una voce cavernosa e dei modi molto spicci, senza tutte le “cerimonie” o i rituali in auge nella sua epoca, che però è dotato di una strana luce negli occhi e di alcuni, rari, gesti di una sensibilità che non soltanto non ti aspetteresti in un simile individuo, ma che era inusuale anche nelle persone più raffinate della sua epoca.
Tutto il suo mondo affettivo sembra, all’inizio, essere suo padre e la sua pittura, per il resto non sembra provare alcun affetto né per Sarah Danby (una donna che gli aveva dato due figlie, una nel 1801 e l’altra nel 1811), né amore paterno per queste figlie (nel film queste tre donne vengono presentate come petulanti e richiedenti importunamente attenzione, rispetto e sostentamento, di cui però si lamentano continuamente per la qualità e la quantità di ciò che ricevono … forse non a torto).
Poi ci sono i colleghi, quelli della Royal Academy of Arts, di cui era membro dal 1790, a soli 15 anni di età, con i quali ha un rapporto che potremmo definire amichevole e di reciproco rispetto; tuttavia, godeva nello stuzzicarli, nel film fanno vedere come dopo aver osservato un collega che stava dando gli ultimi tocchi di rosso su una marina al tramonto appesa vicino ad un suo quadro, prende un pennello, lo intinge nel rosso e da una pennellata di quel colore sul suo quadro.
Il gesto viene considerato dal collega uno sfregio, un affronto personale, tanto è vero che lascia la sala indignato, e dagli altri colleghi un gesto inconsulto: come può un pittore sfigurare così una sua opera ritenuta da tutti perfetta … poi Turner ritorna sul suo quadro, sotto gli occhi di tutti, e con una pezzuola, un po’ di biacca, del solvente e dello sputo passa il suo dito sulla pennellata di rosso lasciata in precedenza, così da ridurla ad una mezzaluna emergente dalle onde del mare, tanto da far esclamare a tutti con sollievo: “Una boa!” e da mutare il precedente giudizio di aver sfigurato un’opera, nella sensazione di aver assistito ad un colpo di genio.
Turner aveva rapporti di amicizia con la piccola nobiltà terriera, molti dei quali acquistavano le sue opere e lo apprezzavano, talvolta era loro ospite quando voleva dipingere immerso nella natura, ma questo era tutto, non si può dire che oltre la stima e il rispetto, per quest’uomo, per la sua genialità e per la sua arte, corresse fra loro dell’affetto vero e dell’autentico calore umano.
I rapporti con l’altro sesso e le sue frequentazioni femminili erano estremamente limitati, se poteva suscitare emozioni e commozione in una donna, anche in una che non conosceva molto bene, semplicemente con un breve scambio verbale di grande intensità, cantando insieme (lui con voce sgraziata, poco intonato e che dimenticava le parole) una canzonetta che parlava di un amore perduto, tanto che alla fine entrambi hanno le lacrime agli occhi, normalmente i suoi approcci con le donne avevano un ché di animalesco.








Nel film assistiamo ad un amplesso fra lui e quella che chiama la “damigella”, la governante, la serva di casa, la donna tuttofare, che puliva, spazzava, cucinava, dava una mano nel suo atelier e cercava di ricevere gli ospiti (spesso acquirenti, perché le visite di cortesia che riceveva erano poche), una vecchia ciabatta, brutta, sgraziata,  sciatta, poco femminile, ancora meno attraente, col viso e con il corpo devastati da un eczema di incerta provenienza, ma che dava l’idea fosse dovuto ad una carente igiene personale.
Non esiste una benché minima attrazione personale o semplicemente fisica fra lui e la donna, il desiderio sembra essere nato in Turner solo nella sua mente, nel suo corpo, non a partire dalle “grazie” della donna, o di un qualche suo gesto volutamente o inavvertitamente provocante; sembra quasi che la donna rappresenti un semplice oggetto di sfogo, l’unico disponibile in quell’istante.
Non la spoglia nemmeno, non la guarda, la prende da dietro, more ferarum, come se non volesse nemmeno guardarla in viso, tirandole su la veste quanto basta per servirsi dell’unica sua parte del corpo che in quel momento gli interessa, nessun gesto di tenerezza da parte sua, né altri gesti che in genere accompagnano l’amplesso fra due persone (toccamenti, strofinamenti, baci …).
L’amplesso in sé dura pochi istanti, il minimo indispensabile mi è venuto da pensare, ed è accompagnato non da gemiti, mugolii, grida, o urla d’orgasmo, ma da grugniti belluini e da gesti meccanici; la cosa che colpisce è che mentre lui sembra non veda l’ora che finisca e subito dopo ridiventa il “signor” Turner, come se niente fosse successo, Hanna Danby (così si chiama la governante, interpretata magistralmente dall’attrice Dorothy Atkinson) mostra di gradire le attenzioni del suo padrone di casa.
Forse si tratta di gratitudine per quelle superficiali attenzioni, oppure è amore autentico, come pare arguire non soltanto dal fatto che è l’unica a godere dell’amplesso pienamente, che sembrerebbe cercare anche qualche gesto di affetto e di tenerezza che sa già che non ci sarà, e che è allarmata dal trovare nelle tasche della sua redingote un indirizzo, che poi scoprirà essere quello di una donna che lui frequenta, che va a trovare spesso tanto da poter dire che ci convive e che si mostrerà molto dispiaciuta quando le vicine la definiranno “sua moglie”.
Dicono anche che frequentasse i bordelli, le prostitute, certo l’amore mercenario di per sé non stimola l’espressione dei sentimenti, li meglio che altrove è in scena l’uso puro è semplice di un corpo e dei suoi orifizi, un uso che è legittimato dal pagamento di una somma e non serve altro compenso che quello pattuito o altre responsabilità presenti o future da parte dei contraenti, il rapporto inizia e finisce li.









Nella scena del bordello del film William non sceglie la sua ragazza, prende l’unica disponibile al momento, il suo interesse iniziale non è quello sessuale, ma la sua figura, che vorrebbe dipingere, mette la ragazza in posa sul letto, non pretende nemmeno che si spogli (le scene di nudo nel film sono pochissime e non insistite o compiaciute), le fa qualche domanda mentre ne tratteggia i lineamenti sul suo quaderno, poi, improvvisamente, scoppia in un pianto inverecondo, animalesco irrefrenabile … che a questo segua un amplesso è lasciato all’immaginazione dello spettatore, perché il regista ha ritenuto più importante trasmettere quella sequenza e non ciò che forse ne sarebbe seguito, ma a me pare improbabile che un uomo che piange in quel modo di fronte ad una donna possa poi ritrovare la virilità per possederla.
Certo, il desiderio di questi uomini vissuti circa due secoli fa doveva essere ben più robusto del nostro se poteva dirigersi verso donne così poco attraenti; talvolta non ci riflettiamo a sufficienza sul fatto che i canoni di bellezza sono molto mutati nel corso dei secoli, e le donne che erano considerate belle e appetibili un tempo oggi sarebbero considerate orrende o quasi, in sovrappeso, piccole di statura, e poco o niente dedite all’igiene personale … molti di noi non sopporterebbero gli odori emanati da molte donne del passato, anche dalle più raffinate, abituate ad una concezione dell’igiene personale molto differente e a delle comodità domestiche completamente diverse dalle nostre.
L’odore delle persone, delle città, ci avrebbe ammorbato, soprattutto gli odori di una metropoli come Londra o come Parigi, con una concentrazione spaventosa di abitanti e in cui molte attività che emanavano cattivi odori si svolgevano all’aperto e la convivenza con i topi, le cimici, le pulci, le zecche, gli scarafaggi, ed altri animali più o meno repellenti era normale, naturale, con questi animali ci si contendeva il cibo e lo spazio, e non esistevano possibilità igieniche e di conservazione dei cibi a cui siamo abituati oggi.
Riflettiamo anche poco su un’altra questione, e questa non è legata al trascorrere dei secoli, e cioè come fanno le donne ad innamorarsi di essere grossolani e così poco evoluti come noi uomini, cosa ci troveranno di così interessante in un uomo? L’uomo è l’essere meno progredito della catena evolutiva, è quello che conserva molto più della donna le sue caratteristiche animalesche.
Possiamo ridere e inorridire quanto vogliamo dei grugniti e dei modi da plantigrado di William Turner, dei suoi modi rudi con le donne e con tutti in generale, ma non possiamo non ammettere che noi maschi della specie umana siamo in genere molto più rudimentali e molto meno raffinati delle femmine della nostra specie, che in un certo senso rispetto a loro ci comportiamo come plantigradi.






Ma allora, perché ci amano? Forse riescono a scorgere, come le donne di Turner qualche bagliore di sensibilità in noi, qualche scintilla di tenerezza, forse sperano di cambiarci, come trasformare il marmo grezzo in una splendida statua, o le rude tela di juta in un bel quadro (per rimanere ancorati all’arte di Turner), forse apprezzano gli orsetti di pelouches o forse è solo la rassegnazione e la paura della solitudine a farle avvicinare a noi.
Ma questo non spiegherebbe la splendida umanità di Sophia Booth, la donna con la quale William Turner condivise gli ultimi anni dalla sua vita e che volle rimanergli accanto anche nella sua malattia, anche nel momento della sua morte, pur sapendo che sarebbe di nuovo rimasta da sola per la terza volta (era vedova già due volte quando Turner la conobbe) e forse definitivamente.
E non spiega nemmeno come alcune donne (non tutte, beninteso anzi, forse la donna moderna sta perdendo questo modo di amare senza averne trovato un altro in alternativa … sembrerebbe che la donna attuale, completamente disincantata da tutte le favole in cui avevano creduto le loro nonne, non sappiano più bene cosa vogliono o chi sono e vagano semplicemente a vista, senza fare un passo oltre la loro gamba e senza riuscire a guardare oltre il loro naso) rimangano con alcuni uomini ... nonostante tutto (dove per tutto ci sta anche l'umiliazione e la violenza)..
Dicono che Turner sia stato il “pittore della luce”, e certamente la luce è molto presente nei suoi dipinti, ma nello stesso modo potrebbe essere definito il “pittore del buio”, perché anche l’oscurità è molto presente nelle sue opere; inoltre, in molti potrebbero essere definiti, con lo stesso diritto, pittori della luce, prima e dopo di lui: Caravaggio, Monet, Van Gogh ….
Turner era un pittore paesaggista, gli piaceva dipingere panorami naturalistici, e fra questi molte “marine” … il mare era il suo elemento preferito, forse perché nel mare scorgeva quel gioco di luci ed ombre, di chiaroscuri che altri paesaggi avevano in misura minore.




William Turner, autoritratto, olio su tela, 1798, Tate Gallery, Londra

Aveva elevato la pittura paesaggistica allo stesso livello della pittura che raffigurava esseri umani e, in particolare, quella che era in auge nella sua epoca, la pittura storica; quando dipinge esseri umani, questi a malapena si distinguono dal paesaggio in cui sono inseriti, si fa fatica a scorgere dal paesaggio gli elementi umani, animali, vegetali e naturalistici, si fa fatica ad identificare qualcosa dall’identità ben definita, inserita nella tramatura di colori, di luce e di tenebre che sembra eliminare i contorni e minacciare l’identità e l’esistenza stessa delle cose, che si nebulizzano, si diffondono, si disperdono fra gli elementi in subbuglio che Turner dipinge con tonalità di luci e di colori.
Aria, acqua, terra e fuoco che si compenetrano l’un l’altro fino a non essere più identificabili se non per labili segni di chiari e di scuri, di tonalità di colori, di porosità della tela; Turner non dipinge paesaggi statici, dipinge il movimento, la mutevolezza degli eventi e l’instabilità degli elementi e delle esistenze delle singole cose e dei singoli individui, e niente poteva rendere il tumulto del mondo se non il rappresentare le catastrofi naturali e i fenomeni atmosferici come la luce del sole, le tempeste, la pioggia e la nebbia e tutto ciò che era in continuo mutamento.

William Turner - A Disaster at Sea (la zattera della Medusa)

William Turner - Snow Storm - Steam-Boat off a Harbour's Mouth

William Turner -  Bufera nella neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi

William Turner - Rain Steam and Speed the Great Western Railway


Non era semplicemente un pittore di sciagure o di fenomeni tremendi e avvincenti, egli rappresentava la catastrofe come una mano ignota (divina o infernale) che interveniva incontrastata e improvvisa a cambiare uno stato di quiete, a mettere a rischio l’esistenza stessa di cose e persone, che in quel turbamento potevano perire ( come i marinai di una nave in tempesta o come l’esercito di Annibale che attraversa le Alpi (Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi, 1812) e si trova ad affrontare le intemperie … persino degli esseri enormi e terribili come gli elefanti sono a rischio, ne morirono quasi la metà, persino loro sono piccoli e insignificanti esseri in balia della catastrofe, nel suo dipinto se ne scorge appena soltanto uno di elefante).
Questa del catastrofismo, o del cogliere l’attimo (alba, tramonto …) in cui i contorni delle cose sono incerti, sembra essere un’ossessione per Turner, una ricerca spasmodica, ma non ricerca la catastrofe in sé, l’attimo di tragedia, bensì quel lampo di luce che si può scorgere, più o meno forte, anche solo in un fioco barlume, in ogni tragedia, in ogni catastrofe e se ci fate caso, in ogni suo quadro è possibile individuare quella luce, senza la quale la catastrofe stessa non avrebbe senso.
Quella luce è la mano stessa di Dio (il sole è Dio, esclama poco prima di morire … e sembrerebbe questa la sua ultima frase terrena), che imprevedibilmente e inspiegabilmente turba la quiete della natura non per ferocia, bensì perché questa è la sua natura, questo l’ordine stesso delle cose, l’alternanza fra quiete e tempesta, fra luce e buio, fra vita e morte, pone la sua mano sulle cose, sugli uomini, sulla natura, e li getta temporaneamente nel caos, da cui molte cose periranno e altre continueranno la loro esistenza, lievemente modificate.
Questo è il senso di ogni tempesta, questa stessa mano divina che nel 1786 turba la sua casa portandosi via sua sorella minore Helen, la stessa che turba subito dopo la mente di sua madre inabissandola nella follia, la stessa che fa si che lui venga mandato a studiare a Margate, sulla costa nord-orientale del Kent, in un’esperienza umana e didattica che farà di lui un grande pittore, la stessa costa che gli suggerirà molti dei suoi migliori dipinti e gli permetterà di conoscere la signora Sophia Caroline Booth Cheyne Walk, che aveva una modesta pensione da quelle parti e che sarà l’ultima donna della sua vita.

William Turner - Alba

William Turner – Paesaggio con fiume e montagne in lontananza, 1850-1850

William Turner – L'eruzione delle Souffrier Mountains nell'isola di San Vincenzo a mezzanotte, 1815.


La stessa mano che lo priva, forse il suo dolore più grande, che lo piombò in uno stato di profonda depressione da cui uscì solo con la punta del suo pennello e con i suoi meravigliosi colori, del padre a cui era molto affezionato.
Quando la mano di Dio, con la sua luce, interviene a sparigliare le sorti di cose e persone, alcune secondo disegni imprevedibili, periscono, altre ne saranno cambiate e sopravviveranno, come in una antica ordalia, in cui il giovane aspirante guerriero rischiava la sua vita e se sopravviveva si considerava rinato nuovamente, cambiato, modificato, adulto, toccato dalla grazia divina e dunque destinato a qualcosa di grande.

Voleva capire, voleva vedere Turner, dentro la tempesta, nel cuore del ciclone, la luce di Dio, ed è per questo, forse, se è vero ciò che raccontano i suoi biografi, che si fece legare al pennone dell’albero maestro di una nave durante la tempesta, voleva vedere Dio faccia a faccia, mentre operava e voleva ancora una volta sopravvivere per rinnovare quel senso di unicità e di straordinarietà che si sentiva cucito addosso, la missione che pensava di avere nella pittura, tanto da lasciare la sua collezione di dipinti allo stato inglese e una rilevante fortuna alla Royal Academy of Arts perché fossero aiutati e sostenuti i giovani artisti in difficoltà economiche.


10 commenti:

  1. Raramente leggo le recensioni dei film che desidero vedere, con te dovevo fare una delle mie eccezioni, altre volte l'ho fatto senza pentimento. Quando vidi i dipinti di Turner alla National Gallery ricordo che fui preso da un senso di vertigine che è quello in cui ti trascina l'occhio che sa esserci qualcosa oltre l'immagine e cerca di scavare nella nebbia per scorgerla quella cosa eppure la fatica lo strema. Sono contento sia stato dedicato un film a questo Odisseo che si fa legare sul pennone per vedere la tempesta per ascoltare le sirene della luce, penso che ci sia ancora molto da dire su questo pittore che anticipa gli impressionisti...ancora una volta, come dici nel precedente post, gli inglesi hanno posto le basi delle rivoluzioni che hanno avuto compimento in Francia. Andrò presto a vedere questo film. Ciao.

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  2. Adoro i film biografici e in particolare quelli sugli artisti. Il più recente "Georgia O'Keeffe" e questo non potevo proprio perderlo.
    Un ritratto più che un biopic come si evince dal titolo originale "Mr Turner" (terribile la mania tutta italiana di cambiare i titoli dei film) cioè il Signor Turner visto più come uomo, poco rappresentato nella vita pubblica ma molto di più nella quotidianità spesso imbarazzante di quella privata. Un film molto fisico, materico ma anche poetico.
    Ciao
    Julia

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  3. @ Antonio,
    io non ho avuto la fortuna di vedere i suoi quadri da vicino, ma una piacevole impressione l’ho provata anche con le immagini che sono riuscito a rintracciare in rete. Di fronte a queste riproduzioni non mi sono chiesto soltanto cosa stesse cercando Turner in quei bagliori di luce che emergono dal caos o dall’indistinto, ma anche cosa stavo cercando io in Turner. In fondo esistono molte cose che non ci dicono niente, che non notiamo affatto e che altri possono essere belle e significative; credo che per poter apprezzare qualcosa dobbiamo noi gettare su di essa il nostro lampo di luce personale che ce la rendono speciale ed accessibile e dobbiamo cercare di cogliere quel lampo di luce che ha voluto donarle l’artista.
    Solo così posso, ad esempio, apprezzare la soavità di una madeleine o lo scintillio di luce sui campanili di Martinville che Marcel Proust ha voluto trasmetterci.
    Ciao e buona visione.

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  4. @ Julia,
    ho colto, e apprezzato, come il film abbia voluto essere un ritratto (in movimento) di Turner e della sua opera; la versione italiana di questo film ha conservato il titolo originale “Mr. Turner”, sono stato io a spogliarlo del titolo di “signore” nel tentativo di cogliere Turner l’uomo e non il suo posto nella società del suo tempo.
    Ho trovato molto affascinante quest’orso socialmente e affettivamente quasi insensibile, dotato però di una umanità e di una finezza di spirito non comuni, che riversava quasi esclusivamente sulle sue tele; mi sono chiesto se sarebbe potuto esistere il pittore senza l’orso e viceversa, così come in altri casi mi sono domandato se Artemisia Gentileschi avrebbe potuto trasmettere tanto realismo e tanta passione alle sue Giuditte, alla sua Danae, alla Maddalena, alle sue sante, senza lo stupro subito, senza l’esito di quel processo intentato al suo stupratore, senza quel matrimonio riparatore senza amore con Pierantonio Stiattesi, da cui nacque una figlia in cui non si identificava affatto.
    E senza la vita violenta e disordinata, senza il suo narcisismo e la voglia di rivalsa sociale, senza gli omicidi che insanguinarono la sua esistenza, avrebbe visto mai la luce lo stile unico e inconfondibile di Michelangelo Merisi da Caravaggio?
    Questo, naturalmente, non è un invito ad interpretare tutta l’opera di un arista sulla base di un evento (per quanto importante o traumatico possa essere), né (come indulgono alcuni) andare alla ricerca di come questo evento sia stato elaborato artisticamente, né immaginare che un singolo tratto di carattere possa essere determinante per la produzione artistica di qualcuno.
    Non si può prescindere dai fatti salienti di una biografia, ma nessun individuo sviluppa tutta la sua vita e la sua arte intorno ad un unico elemento, così sono state scritte parecchie biografie e patografie di artisti, anche da alcuni miei colleghi, anche da Freud che volle renderci la pittura di Leonardo e la sua sensibilità artistica a partire dalla sua presunta omosessualità e scrisse del Mosé di Michelangelo come una lotta titanica dello scultore contro il suo furore e la sua irascibilità per innalzarsi “al di sopra della sua stessa natura” e realizzare così la sua ambiziosa opera artistica, anche a costo di falsare e snaturare la vicenda sacra dello stesso Mosè, così come ci viene narrata dalla Bibbia (dove invece Mosè si lascia andare nell’ira e infrange le tavole della Legge).

    L’arte è il prodotto di un individuo che interpreta il suo dramma esistenziale e il suo tempo, trovo assurdo e parziale cercare di eliminare l’artista e focalizzarsi soltanto sull’opera e su ciò che essa suscita in noi.
    Ciao

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  5. Sono un modesto, "ignorante", amante dei quadri; la pittura, la scultura, mi affascinano.
    Non conoscevo questo pittore; mi piace la sua pennellata che talvolta può sembrare disordinata.

    Ciao da luigi

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  6. @ Luigi,
    è possibile che il mondo non sia poi così ordinato come abbiamo sempre voluto credere, allora la "pennellata disordinata" lascia più spazio all'ordine/disordine sia dell'autore sia del fruitore.
    Ciao

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  7. Mi era piaciuta la domanda che ti ponevi: perché le donne amano gli uomini... Mi ero promessa di tornarci su perché non ricordavo qualcosa che avevo letto in proposito. Ecco una possibile risposta che è riaffiorata dalla memoria:
    Le donne amano gli uomini perché sono imperfetti.
    Ti lascio in balia di questa frase.. :-)
    Ciao
    Julia

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  8. Cara Julia,
    non ti aspetterai che io possa accettare come conclusiva e definitiva la tua frase lapidaria: “Le donne amano gli uomini perché sono imperfetti”. Questa frase potrebbe essere un buon compromesso, certo, ma è appunto un compromesso per non indagare oltre, il porre delle colonne d’Ercole dicendo che oltre questo ci sono i mostri, i leoni o non vi è nulla di interessante. Invece io credo che quando costruiamo paletti e staccionate, lo facciamo per evitare di gettare sguardi oltre, dove forse nascondiamo le cose più interessanti, ciò che non vogliamo dire o non vogliamo dirci. Infatti, mi viene subito da approfondire il motivo per cui le donne dovrebbero amare l’uomo proprio perché imperfetto.
    Ti rimando, dunque, la frase che con tanto garbo avevi lasciato in mia balia, perché tu la approfondisca, la levighi come un ciottolo di mare, cerchi di capire cosa possa spingere una donna a sentirsi attratta dall’imperfezione di un uomo, e cosa spinga l’uomo a mostrarsi imperfetto quanto basta per poter attrarre una donna.
    Potrebbe anche essere che la donna cerchi di tenere a bada la propria imperfezione controllandola dall’esterno, sul suo partner, non appropriandosene, ma nello stesso tempo non volendovi rinunciare perché in fondo tutto ciò che è imperfetto è molto più seducente ed eccitante di tutto ciò che è perfetto, come il non finito ci attrae molto di più del finito e il tormentato è molto più interessante del sereno (prova a pensare a qualsiasi libro romantico, ad una fiaba qualunque, dall’inizio alla fine sono angosce e tormenti, quando si giunge al lieto fine, se vi si giunge, concludono tutti con la celebre frase: ”E vissero felici e contenti”, perché la contentezza e la felicità non interessano a nessuno, sono noiose).
    Un gioco delle parti, insomma, in cui ciascun partner si polarizza nell’interpretazione di un ruolo ben definito, complementare e funzionale l’uno agli interessi dell’altro; in un certo senso il grande gioco dialettico del “servo e del padrone” hegeliano, la cui finalità è il superamento della problematica posta in essere (accettare cioè di essere imperfetti, con tutto ciò che questo può significare), ma che potrebbe essere un gioco che si protrae per tutta l’esistenza senza trovare alcuna soluzione o, molto più spesso, un gioco che si spezza e che rompe la coppia perché fa sentire ciascun partner prigioniero impotente di qualcosa di cui non si riesce a venire a capo.
    Ti avverto però che ti stai avventurando su un terreno molto pericoloso, quello dell’imperfezione maschile (e la conseguente perfezione femminile), perché noi maschietti oltre ad essere imperfetti siamo pure molto sensibili (anche se non sembra) e permalosi. un conto è che un maschio dica di essere imperfetto, un conto è che una donna glielo confermi dandogli così ragione e dando segno di non cogliere il motivo recondito per cui il maschio si è dichiarato imperfetto, quello cioè di ottenere una smentita, che gli si dica che non è poi così male!
    Inoltre, ti avviso, che io oltre che maschio (ipersensibile e permaloso) sono anche siciliano; noi siciliani abbiamo un unico grande difetto, ci riteniamo perfetti così come siamo, ecco che quando qualcuno parla delle nostre imperfezioni lo accusiamo di non comprenderci, ecco perché noi le rivoluzioni le facciamo per ripristinare alcune tradizioni e alcuni valori (vedi i Vespri Siciliani) e non per modificarle, ecco perché siamo gattopardescamente disposti a cambiare tutto pur di non cambiare nulla. :-) :-) :-)
    Ciao

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  9. :-)

    ... "L'imperfezione sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione"
    Cito dall' "Elogio dell'imperfezione" perchè sono distante dal considerare quell'"imperfetto" con accezzione negativa e anche perchè trovo che la perfezione sia in molti casi noiosa e stucchevole. Non amo nemmeno fare alcun tipo di paragone uomo donna perchè sono, siamo, due mondi veramente diversi.
    Gli uomini danno molta importanza al potere, alla competenza, all’efficienza e ai risultati. Essi si mettono continuamente alla prova tentando di sviluppare le loro abilità ed inoltre definiscono il proprio senso del sé in base alla propria capacità di raggiungere dei risultati. Gli uomini si realizzano soprattutto attraverso il successo, non amano la psicologia, le lettere e le conversazioni. Essi sono più interessati agli oggetti che alle persone ed ai sentimenti; per sentirsi bene con sé stessi, devono riuscire a conseguire autonomamente gli obiettivi che si sono prefissati. Nessuno può farlo al posto loro.
    Per le donne generalmente è importante l’amore, la comunicazione, la bellezza ed i rapporti interpersonali. Esse definiscono il senso del proprio sé attraverso i sentimenti e la qualità dei rapporti interpersonali; si realizzano attraverso la partecipazione e la relazione, la comunicazione è di importanza primaria; privilegiano le relazioni agli obiettivi, amano la psicologia e sono ottime ascoltatrici; si interessano alla crescita personale e alla spiritualità. Per le donne è segno di grande amore offrire aiuto ed assistenza non richiesta ed averne bisogno non è sinonimo di debolezza.
    A guardar bene possono queste due parti formare il frutto completo, perfetto, citato nel Simposio? E' forse questa compenetrazione che cerchiamo... Probabilmente sì..

    Ciao
    Julia

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  10. "Credo che non ti amerei tanto se in te non ci fosse nulla da lamentare, nulla da rimpiangere. Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita."
    (Boris Pasternak, Il Dottor Živago). Ho dovuto cercarlo perché non ricordavo esattamente a quale punto del libro fosse :-)
    Non sono dell'idea che due "imperfezioni" possano fare una perfezione, che in una coppia l'uno debba essere complementare o funzionale all'altro, questo nella mia pratica clinica è il "dinamico", può servire ad attrarre due persone, ma a lungo andare diventa un limite e, se non superato, il punto di rottura della coppia. E’ vero però che un legame d’amore facilita la crescita e la maturazione del singolo, che puoi raggiungere vette e traguardi esistenziali molto più velocemente che se ciascuno fosse da solo nella sua ricerca, è anche vero che certe vette puoi raggiungerle solo grazie all’amore di un altro che ti sostiene e ti da coraggio e l’amore che provi per lui che ti fa muovere da dove sei e che scuote il tuo castello emotivo. L'altro non è una mia estensione, non è tutto ciò che io vorrei essere, non è chi può dare senso alla mia vita ... l'altro è "altro", appunto, e devo imparare ad amare la sua alterità.
    Ciao

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