giovedì 28 novembre 2013

SOGNO DI UN’OMBRA L’UOMO




«Esseri della durata d'un giorno. Che cosa siamo? Che cosa non siamo?
Sogno d' un'ombra l'uomo: ma quando un bagliore divino ci giunga
fulgido risplende sugli uomini il lume e dolce è la vita».
(Pindaro, Pitica VIII, vv. 95-97).



Epámeroi (esseri che durano un sol giorno) scrive Pindaro, questo siamo noi esseri umani, sottesi fra l’alba della nascita e il tramonto della morte, in un destino ineludibile e inesorabile; difficile dire cos’è l’uomo e cosa non è con la stessa sicurezza di Parmenide quando proclama che l’essere è e il non essere non è (28 B 6, 1-2) o di Protagora che vede l’uomo come misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono (80 B 1).
Effimeri, di breve durata, impalpabili, illusori, senza speranza, della stessa consistenza del sogno, del delirio o delle paraeidolie, come quegli insetti (gli efemeri) classificati da Aristotele nella sua Historia animalium che a suo parere vivevano un solo giorno.
Come si fa a dire cos’è e cosa non è l’uomo, cosa sono e cosa non sono le cose, se tutti quanti uomini e cose oggi sono ieri non erano ancora e domani non saranno altro che polvere? Sogno di un’ombra allora siamo, doppiamente inconsistenti, sia come sogno, sia come ombra, ma basta soltanto che il bagliore divino risplenda fulgido su di noi perché il nostro destino ci sia chiaro e dolce sia il nostro vivere.





Ma questo bagliore, divino o meno che lo si concepisca, è la consapevolezza stessa del nostro destino di nascita e di morte, del sorgere e tramontare, una consapevolezza che porta con sé l’angoscia esistenziale di Kierkegaard e di Heidegger e non certo la dolcezza del vivere; la vita ci si addolcisce non tanto per il sapere, ma per il saper fare o per il saper raccontare … questa è veramente la scintilla divina: il gesto dell’uomo e la sua poesia, in contrasto alla sua finitezza e alla caducità di tutte le cose.
Solo ciò che facciamo o la narrazione poetica di ciò che siamo e di ciò che proviamo può infrangere l’oblio del tempo e dispiegare la sua lunga ala sull’eternità; Pindaro, ad esempio, è giunto fino a noi e le sue parole ci parlano ancora, e ancora ci suscitano emozioni e fanno sorgere in noi numerosi interrogativi.
Non si può scappare dalla ruota eterna di un destino di morte individuale se non producendo cose degne di essere ricordate, meritevoli di menzione, che sopravvivano alle nostre spoglie mortali e che dialoghino incessantemente con chi verrà dopo di noi; non c’è altro senso alla vita se non quello di prendere consapevolezza di essere solo il sogno di un’ombra e inserirsi in un dialogo incessante con i nostri simili che è natura che si fa cultura.
Alfeo ci invita ad affrettarci, ad anticipare questo simposio, questo banchetto culturale, di non attendere le ombre della sera per libare e addolcire le nostre labbra col sacro nettare:

«Beviamo, perché aspettare le lucerne? Un dito è il giorno» (Fr. 346, v. 1).



Dáktylos (δάκτυλος) améra, un dito (dattilo) il giorno, circa 7-8 centimetri, ma il dáktylos è anche il piede della poesia greca e latina ed è nello stesso tempo forma poetica e ritmo (discendente, in questo caso, contrariamente all’anapesto che è invece ascendente) e indica una scansione temporale forse scandita dalle dita che battono la sillaba lunga e le due brevi che caratterizzano questo piede.
Quasi mezzo secolo dopo è Catullo a reiterare l’invito di Alfeo:

«Nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda».
(Liber V, vv. 5-6).



“Ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo”.
(Traduzione di Salvatore Quasimodo).



Quasimodo traduce da par suo, da poeta, sembra quasi di rievocare i suoi versi più famosi:

«Ognuno sta solo sul cuore della terra
Trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera».
(Acque e terre, 1930).



Lux e nox sono in netta contrapposizione, in antitesi, così come sono in antitesi la brevità del giorno e l’infinità della notte, ciò che Quasimodo traduce poeticamente con un futuro (dormiremo) è in realtà un gerundivo (dormienda) che implica l’inesorabilità di una costrizione, di un sonno obbligato “da la quale nullu homo vivente po’ skappare”, avrebbe aggiunto Francesco d’Assisi.
Giacomo Leopardi cita questi versi di Pindaro nello Zibaldone, accomunato da un simile profondo sentire all’antico poeta lirico greco; ma, se Pindaro attendeva dagli dei quel bagliore che illumini la vita degli uomini e renda dolce la vita, Leopardi crede di averlo trovato proprio in Pindaro, nella poesia "tutta vestita a festa" e in tutto il pensiero antico, in cui gli uomini erano tanto vicini agli dei da partecipare anche loro della divinità, in cui le parole poetiche erano testimonianza della verità e il vero e il falso erano la stessa cosa e si diceva il vero attraverso cose false e incredibili (il mito).
Ed è addirittura prodigioso il dialogo fra il pastore errante e la luna, un dialogo in cui il silenzio della luna, il sospetto della sua indifferenza, tutta assorta nella sua immortalità e nella sua ciclica rivoluzione, ripropongono con dilagante angoscia, il carico delle domande esistenziali che il pastore le pone e si pone e il senso infinito di solitudine che prova:

«Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura, perché da noi si dura? / Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu mortal non sei, / e forse del mio dir poco ti cale. / Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia; / che sia questo morir, questo supremo / scolorar del sembiante, / e perire della terra, e venir meno / ad ogni usata, amante compagnia. / E tu certo comprendi / il perché delle cose, e vedi il frutto / del mattin, della sera, / del tacito, infinito andar del tempo. / Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore / rida la primavera, / a chi giovi l’ardore, e che procacci / il verno co’ suoi ghiacci. / Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore. / Spesso quand’io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel confina; / ovver con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e quando miro in ciel arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io che sono?».
(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 52 ss.).



Il pastore errante chiede alla luna, ad essa solleva con angoscia le mani, ad essa pone le sue domande, come Amleto pone il suo dubbio assoluto e radicale al teschio di Yorick dissepolto dalla fossa comune, a chi non potrà rispondere, a chi la morte o la distanza siderale fanno si che non possa esserci replica, come gli antichi chiedevano alle stelle di far luce sul proprio destino, a chi non può far altro che rimandarti amplificata l’eco della tua angoscia.
Del resto, come era ben chiaro fin dagli albori della nostra civiltà:

«… molte sono le cose inquietanti [deinà], ma nessuna è più inquietante [deinóteros] dell'uomo …». (Sofocle, Antigone, vv. 332-333).




Nessun fenomeno naturale, per quanto prodigioso, può scatenare l’inquietudine, l’angoscia, quel senso fra il portentoso e il terribile, come esercito schierato in battaglia, che dilagano solo quando l’uomo con le sue technaí (la navigazione, l'agricoltura, l'allevamento degli animali domestici e il dominio su quelli selvatici, il linguaggio, le conquiste civili, la medicina e le leggi) dimentica i suoi limiti e il suo destino e travalica l’ordine immutabile della natura garantito dalla necessità.
Questa grande inquietudine sale dal coro dell’Antigone di Sofocle e ammonisce l’uomo di tenere entro i limiti la sua hýbris, la sua tracotanza, il suo voler essere simile agli dei immortali, quando basta un soffio appena perché di tutta la sua superbia, del suo orgoglio e della sua arroganza non rimanga altro che polvere.
Traduco il termine δέιυα [deinà] con “inquietante” invece che con "prodigioso" o con “meraviglioso”, “portentoso”, “stupendo”, “mirabile”, o “misterioso”, …, come leggo in molte traduzioni correnti; del resto questo aggettivo viene utilizzato quasi esclusivamente per esprimere qualcosa di tremendo, di terribile e che nello stesso tempo incute rispetto e timore, come ad esempio un esercito schierato in battaglia o un guerriero invincibile nella sua scintillante armatura e quasi mai per esprimere lo stupore, la meraviglia, come di fronte ad un qualche evento naturale o alla bellezza artistica prodotta dall’uomo.




In questo contesto l’equivoco di traduzione può far slittare l’intera opera di Sofocle dal senso maestoso di tragedia che volle imprimergli l’antico autore ad una soap opera moderna; provate a recitarla così e più che la tragedia immensa di una giovane donna che ha appena perso tutto, famiglia, affetti, e non vuole perdere anche la sua umanità anche a costo di perdere l’amore e la sua vita stessa, vi sembrerà Tempesta d'amore:

“Molte sono le cose meravigliose
ma nulla e più meraviglioso dell’uomo,
quando varca il mare bianco di schiuma
e penetra fra i gorghi ribollenti
sotto la sferza del vento del sud;
e anno dopo anno rivolge
con l’aratro trainato dai cavalli
la più eccelsa fra gli dei,
la terra immortale e infaticabile.
[…]”.
(Sofocle, Antigone, 332-340).



Inquietante, dunque, è l’uomo e il suo destino, che deve sempre misurarsi con la grande promessa che la vita dischiude a ciascuno di noi e le infinite lacerazioni che il tempo ci infligge togliendoci una dopo l’altra le infinite illusioni che ci creiamo: la felicità, la gioia, la serenità, la salute e la vita stessa.




Persino il senso ci è negato e spesso dobbiamo affrontare eventi che non ne hanno alcuno, che senso ha ad esempio per Ettore essere chiamato a rendere conto di un uomo ucciso in un duello ne corso di una guerra, che senso ha battersi con un eroe immortale, che senso ha sapere di stare andando incontro alla propria morte senza scampo alcuno, che senso ha non potersi sottrarre al proprio destino che l’ha fatto essere Ettore, l’eroe dei troiani, che senso ha non potersi sottrarre a questa sfida contro Achille che lo trafiggerà con la sua lancia?




Che senso ha sapere già in partenza che egli non avrà pietà per i tuoi resti mortali, che saranno trascinati nella polvere con la biga intorno alle mura e poi offerte in pasto ai cani nel campo acheo, che senso ha sapere in partenza che il tuo gesto di estremo coraggio non salverà i tuoi cari, non salverà la tua città, che cadrà fra le fiamme per non rinascere, che non salverà la tua donna, violentata sulle mura stesse e portata via come schiava e concubina e non salverà tuo figlio, che verrà scaraventato giù dalle mura a fracassarsi al suolo per mano di Neottolemo, il figlio del tuo assassino?




Cosa verrà tributato ad Ettore se non quell’ “onore di pianti” che invoca per lui il poeta?

“E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane”.
(Ugo Foscolo, I Sepolcri, 292-295).



Ma la saggezza di Ettore, degli eroi, dei filosofi, dei poeti antichi e moderni e dei grandi uomini di ogni epoca è quella di non disgiungere la vita dalla morte, di essere certi in ogni momento che il fine stesso di ogni vita sia la morte e che non si può essere felici in vita se non attraversando e accettando l’idea della nostra morte, come scrive Mozart a suo padre ammalato:

“ … spero come in una cosa certa [si riferisce alla guarigione che augura al padre, che gli aveva scritto di essere ammalato, e che poco tempo dopo morirà], benché ormai sia abituato a temere sempre il peggio, in ogni circostanza. Poiché la morte (a ben guardare) è l’ultimo vero fine della nostra vita, da qualche anno sono entrato in tanta familiarità con quest’amica sincera e carissima dell’uomo, che la sua immagine non solo non ha per me più nulla di terrificante, ma mi appare addirittura molto tranquillizzante e consolante. E ringrazio il mio Dio di avermi concesso la fortuna di avere l’opportunità (Lei mi capisce) di riconoscere in essa la chiave della nostra vera felicità” (Wolfgang Amadeus Mozart, 04 aprile 1787 http://www.rodoni.ch/proscenio/cartellone/cosifantutte/letteraalpadre.html ).



È straordinario come eventi molto dolorosi siano capaci di illuminarci all’istante, dandoci bagliori improvvisi, per cui tutto ciò che prima era al centro della nostra vita passa in periferia, fino all’irrilevanza e tutto ciò che era periferico balza al centro, ciò che prima era indispensabile diventa dispensabilissimo, ciò che era dominante diventa recessivo, ciò che era preminente diventa insignificante e ininfluente.





“Quem di diligunt, adulescens moritur”, Chi è caro agli dèi, muore giovane. (Plauto, Bacchides, Le Bacchidi).




Non ho la lucidità né l’umore adatto per star dietro a questo blog, mi prendo una pausa.


13 commenti:

  1. Quasi mi imbarazza rispondere a questo commiato, per non macchiare con banali parole un cristallo di rocca. Un saluto caro Garbo, prenditi la pausa che ti serve ma lascia che ti ringrazi per questa pagina e per tutti i nostri scambi che mi hanno stimolato e arricchito e da soli valgono la pena di avere o di continuare ad avere un blog. Un abbraccio.

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  2. Garbo carissimo, spero che la tua pausa non sia troppo lunga... non privarci della ricchezza dei tuoi post.
    Auguri che il 2014 ti ridia l'energia e la voglia di continuare. :-)
    http://specchio.ilcannocchiale.it

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  3. Ero passata anche se quasi fuori tempo massimo per augurarti buon tutto e giorni sereni...
    Ultimamente ho latitato il blog e avevo preso in considerazione l'idea di terminare l'avventura perché mi mancavano le idee, gli spunti...
    Sono andata ad una conferenza di filosofia tenuta da un cattedratico su Nietzsche. Ad un certo punto ho intuito che avrebbe citato Lou von Salomé e così è stato.. Ho pensato a te e al lungo post che avevi scritto su di lei ringraziandoti perché sapevo già molto ..
    Prima di leggere il tuo post non l'avevo mai sentita nominare ma è stata una bella sensazione sapere di sapere..
    Penso che manterrò in vita il blog e continuerò a frequentare siti come il tuo perché per chi è alla ricerca della bellezza della conoscenza troverà sempre quello che cerca...
    Grazie
    Julia

    Mi associo alle splendide parole di Antonio

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  4. Dimenticavo... ho messo finalmente dicembre...
    Ciao
    Julia

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  5. Io arrivo a feste finite, tu eri in tempissimo per augurarmi buon anno e oggi scopro con dispiacere che hai preso una pausa.
    Ti comprendo e ti dico che ti aspetto. Spero tornerai. Non so quanto ci vorrà, ma confido in un tuo ritorno e in tuo contatto, questo mi da speranza. :)
    Intanto un buon inizio 2014, qualsiasi cosa tu faccia, che tu sia sereno.
    Un abbraccio grande, Paola

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  7. Dimenticavo... ho messo finalmente dicembre...
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  8. Gent. Garbo...
    non ridurrei tutta la 'saggezza del vivere' a Kierkegaard e Heidegger...che, per quanto oggi tanto amati, non possono nemmeno avvicinarsi a un Lao-tze o a un Buddha... e - in tempi moderni - a un Nisargadatta Maharaj...( cito': Ma questo bagliore, divino o meno che lo si concepisca, è la consapevolezza stessa del nostro destino di nascita e di morte, del sorgere e tramontare, una consapevolezza che porta con sé l’angoscia esistenziale di Kierkegaard e di Heidegger)...
    Forza e coraggio... dietro il sogno e dietro l'ombra - di cui siamo certamente intessuti - v'é ben altro: il Logos di Eraclito...
    Grazie per il blog!

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  9. Mi perdoni, questo post l'ho scritto in un momento di grave lutto nella mia vita, e non voglio ritornarci per avventurarmi in sterili dispute teoriche in terreni che conosco poco o che non conosco affatto. Il blog, come può constatare, ha ripreso la sua attività e se si sentisse attratto o volesse intervenire sui miei post più recenti, sarebbe il benvenuto.
    Un saluto

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    1. Comprendo e mi scuso.
      Le auguro felice ripresa.
      Cordiali saluti,
      Carlo R.

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  12. Da quasi vent'anni sono approdato sull'immenso e inquietante continente LEOPARDIANO ! Qui trovo tutto, cioè il NULLA !

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