QUESTO POST E' LA NATURALE CONTINUAZIONE DI ESSERE E TESSERE 1.
Era l’ultima lezione del secondo semestre del secondo anno di università a Padova, mi avvicino dopo i saluti e l’arrivederci all’esame al professor Alessandro Salvini, che in quell’epoca insegnava quella che allora veniva definita Psicologia della personalità e delle differenze individuali per chiedergli di consigliarmi qualche libro per l’estate.
“Hai letto Asylum, di Irving Goffman?”, “Si” gli rispondo. “E quello di Berger e Luckmann, La realtà come costruzione sociale?”, “Anche quello”. Erano entrambi libri presenti nella lista di quelli consigliati da leggere nel suo corso, non obbligatori per l’esame, ma potevi scegliere di portarli come libri di testo. Ed era vero che li avevo letti entrambi, anzi li avevo divorati in breve tempo e il secondo l’avevo letto più volte; non soltanto mi erano piaciuti, non soltanto mi avevano appassionato molto, sono stati libri che hanno cambiato radicalmente il mio modo di vedere la professione per cui mi stavo formando e anche il mio essere nel mondo, avrebbe detto Heidegger.
Mi guarda allora stupito forse per aver trovato un lettore compulsivo nel suo corso o uno studente appassionato e mi chiede: “Hai un vocabolario?”, e stavolta lo stupito sono io perché non capivo dove volesse andare a parare. Naturalmente gli dico: “Si” anche questa volta. E lui replica: “Bene. Durante le vacanze consultalo a caso, cerca le parole di cui non conosci il significato e memorizzale. Ogni parola nuova sarà per te una nuova finestra sul mondo. Più parole conosci più cose vedi e più cose sai. Più ricco sarà il tuo vocabolario interiore più articolata sarà la realtà che riuscirai a comprendere e il mondo sarà a colori invece di essere in bianco e nero. E se trovi parole di cui conosci già il significato, non passare oltre, scorri attentamente tutte le sfumature di significato che gli autori del vocabolario ti riportano, ti accorgerai come capita spesso che un termine assume significati a te sconosciuti, inaspettati, e acquisirai così sfumature di senso che ancora non conoscevi. E imparerai che una cosa che credi di conoscere, se la guardi da un’altra angolazione ti riflette immagini diverse che non sospettavi nemmeno. Che qualunque cosa osservi può essere diversa in base alla diversa angolazione da cui la guardi e al momento in cui la guardi”.
Non so dirvi se prevalse allora la delusione perché il vocabolario mi sembrava poco rispetto alla ricchezza di contenuti che avevo trovato nel suo corso, di cui non mi perdevo una lezione, o nei libri che aveva consigliato, uno più interessante dell’altro, oppure fu lo stupore a prevalere, perché il consiglio di consultare il vocabolario con le motivazioni con cui me lo aveva porto stimolavano molto di più la mia curiosità rispetto alla proposta di un nuovo libro.
Fatto è che seguii il suo consiglio, e lo seguo tuttora; scoprire un nuovo termine è una scoperta sconvolgente che arricchisce non soltanto la mia capacità dialogica, ma la visione stessa che ho del mondo e la possibilità di mettere in relazione fra di loro molte più cose che arricchiscono smisuratamente la mia capacità creativa, la mia immaginazione e la possibilità di agire con più efficacia per migliorare i miei rapporti con gli altri e con le cose di questo mondo.
Con questa capacità acquisita posso anche creare un mondo dentro il mondo, o oltre il mondo, mondi infiniti che si disancorano da qualsiasi retaggio reale e fluttuano esclusivamente in una dimensione eterea e speculare.
La parola, il linguaggio, la comunicazione umana rappresentano un campo sterminato di discussione e interessano molte discipline: la linguistica, la semiotica, la filosofia, l’antropologia, la psicologia, la fonetica, la neurologia, la letteratura, la cultura in generale, l’evoluzionismo, …; non è chiaro se l’uso comunicativo della parola sia la caratteristica fondamentale che distingue l’uomo dall’animale (come credeva Freud e come credono tuttora in tanti), non è chiaro se invece sia la capacità riflessiva e quanto la comunicazione e la riflessività siano intrecciate fra di loro, l’una origine dell’altra o entrambe originate da qualcosa che le precede e che le rende possibili.
Ci si interroga sull’origine e sui motivi del sorgere della comunicazione umana, sulla corrispondenza fra le cose reali e le parole che usiamo per designarle (era questa la materia del contendere nella famosa disputa medioevale sugli universali che vedeva accapigliarsi fra loro, asserragliati su posizioni diverse, Roscellino, Guglielmo di Champeaux, Abelardo, Anselmo d’Aosta, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, come traspare dai manuali di storia della filosofia, e non il discettare sterile sul sesso degli angeli oppure sul fatto che Cristo fosse “homoousios” (della stessa sostanza del padre) o “homoiusios” (di sostanza simile ma non identica)).
Charles Darwin scrive nel suo libro The Descend of Man che il linguaggio umano discenderebbe dal canto degli uccelli; secondo Noam Chomsky, invece, è il risultato di una mutazione genetica risalente ad ottantamila anni fa, un evento accidentale, radicale, definitivo, in un solo individuo che poi l’avrebbe trasmessa ai suoi discendenti (salto quantico dell’umanità). Questa mutazione genetica sarebbe il software linguistico di base inalterato, lo zoccolo duro genetico del linguaggio, mentre a mutare nelle varie culture e civiltà sono i segni e i simboli.
Il bisonte graffito nella Grotta di Lescaux e altre immagini rupestri rinvenute altrove, che precedono il linguaggio scritto e probabilmente anche quello parlato, sarebbero proto-concetti, cioè immagini tratte dal passato dell’individuo o capaci di rappresentare qualcosa che accadrà in un futuro prossimo, che non hanno alcun riferimento alla realtà immediata dell’individuo, sono cioè ritratti senza modelli.
Freud pensava che la differenza fra gli umani e gli animali consistesse nel fatto che i primi riescono a comunicare simbolicamente fra di loro attraverso le parole e tramite il linguaggio abbiamo costruito la cultura, le osservazioni su molti animali lo smentiscono, i primati, i cetacei e persino i maiali riescono a comunicare simboli fra di loro, non soltanto cose concrete.
Non si può non comunicare, questo è il primo principio della comunicazione umana della Scuola di Palo Alto rappresentata da Paul Watzlawick, Gregory Bateson, Donald de Avila Jackson, Jay Haley, John Weakland e Richard Fish, anche il silenzio è comunicazione.
Non si può comunicare sembra invece suggerirci Luigi Pirandello, forse ispiratosi al suo antico conterraneo Gorgia da Lentini, il quale soleva dire: “Nulla è; se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; e se qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri”.
Questo senso di incomunicabilità pirandelliana lo troverete sparso qui e la in tutta la sua opera, unito al senso ancora più disperante che non si può comunicare nemmeno questa incomunicabilità, con le sue parole: “Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.” (Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila).
L’incomunicabilità strutturale è funestamente seguita dalla certezza di poter capire e di poter essere capiti, ma ciò avviene soltanto ad un livello superficiale, quello delle parole, il discorso essendo un linguaggio convenzionale, ci da l’illusione di capirci a vicenda, ma ci capiamo solo perché stabiliamo di capirci, stabiliamo cioè che stiamo dicendo la stessa cosa.
Ma non è così, se parliamo d’amore tutti quanti crediamo di sapere di cosa stiamo parlando, anche un neonato sperimenta l’amore della madre, però poi ciascuno nel suo profondo intende per amore solo ciò che egli stesso ha vissuto, che non è identico né simile al vissuto di chiunque altro, cioè ciascuno di noi intende l’amore a modo suo, che non è comunicabile a nessun altro, perché l’unico modo per farlo sarebbe quello di fargli vivere tutto ciò che noi abbiamo vissuto, esattamente come l’abbiamo vissuto … ma anche così non proveremmo la stessa identica cosa, perché ciascuno di noi ha un vissuto precedente che influisce su come vivremo l’esperienza presente e quella futura.
Per un uomo amare potrebbe voler dire far l’amore con una donna, possederla, per una donna invece amare è scambiare coccole e tenerezze col proprio partner, sentirsi sicura: di sé, di lui, di loro due insieme, per un neonato l’amore è il seno caldo e soffice della madre e la dolcezza e il tepore del suo latte, per un animale sociale potrebbe essere la protezione, la territorialità, lo scambio di cibo e l’accoppiamento tout court.
Quando una donna dice di amarmi, io non sento il suo amore, sento piuttosto nelle sue parole un progetto e una promessa, sentirò il suo amore solo quando lei ed io faremo l’amore; le parole d’amore non saziano, non appagano, non soddisfano, ma accendono ancor di più il desiderio, che divampa anch’esso ancor di più perché è esso stesso un progetto ed una promessa.
Le infinite discussioni, i dibattiti in cui si parla d’amore e di amicizia finiscono per sfinire gli interlocutori, perché hanno sempre l’impressione di essere sul punto di cogliere il profondo significato di questi due temi universali, di venirne a capo da un istante all’altro, di stare per scoprire il caput Nili, l’elisir di lunga vita, la pietra filosofale e, quando stai per afferrarne il segreto, questo ti scivola fra le mani e svanisce.
Più che appagante e soddisfacente un simile dibattito diventa frustrante, snervante, insoddisfacente, poi, come sorto dal nulla, un gesto o un bacio ti fanno capire la semplice differenza fra la parola e la cosa, fra il pensare, il parlare e il fare e l’agire; quando il tuo bambino piccolo si sbuccia un ginocchio giocando e sente il dolore, serve a poco rassicurarlo dicendogli che non è niente, le mamme (o i papà) premurosi si avvicinano, gli guardano la ferita, gliela puliscono e disinfettano, gli stampano sopra un bacio e il bambino starà meglio di prima e tornerà a giocare con più grinta.
A un amico che ha avuto un lutto recente non servono tanto le parole più accurate e calorose, scelte appositamente o attinte dalla consuetudine, serve di più la tua presenza, il tuo abbraccio, il fargli sentire che condividi il suo dolore, di questo si ricorderà, non delle parole che gli hai detto in quell’occasione.
Noi oscilliamo continuamente fra l’euforica sensazione di aver raggiunto la profondità dell’altro e lo sconforto della distanza che ci separa, che l’altro è per noi un nemico proprio perché altro, perché non lo raggiungeremo mai, non lo capiremo mai, ci sfuggirà sempre e vanificherà tutti i nostri sforzi, forse per questo Jean-Paul Sartre (A porte chiuse) diceva che: “L’enfer, c’est les autres” (L’inferno sono gli altri). L’altro è per me e sarà sempre un enigma senza soluzione, un mistero la cui profondità di esplorazione mi rimanda indietro che la strada da percorrere è sempre maggiore di quella già percorsa, e che in fondo al percorso ci potrebbe essere soltanto ciò che già so, cioè la mia immagine, oppure il nulla, di nuovo la mia immagine.
Ed è per questo, per questa incomunicabilità assoluta che funesta il genere umano, che io solleverò nuvole di parole mie ed altrui, altrui fatte mie, senza nesso logico fra una citazione e l’altra, fra un discorso e l’altro, se non quello che voi vorrete dargli, e farle ricadere su di voi come fossero coriandoli.
Le parole sono importanti, anzi importantissime, ma i momenti più belli sono contrassegnati dal silenzio; il silenzio non avrebbe alcun significato se prima non ci fossero state le parole, e le parole sarebbero vuote se non fossero seguite dal silenzio.
La parola ci rende simili a tutti gli altri, ci uniforma agli altri, ciascuno di noi prova dei sentimenti specifici, particolari, unici, esperienze che non sono paragonabili né riducibili a quelle di qualsiasi altra persona, ognuno di noi vive in maniera propria le esperienze che ci capitano, eppure quando le raccontiamo, a noi stessi o ad altri, queste esperienze non solo diventano condivisibili, ma si uniformano a quelle degli altri, si unificano, si assomigliano: ciascuno di noi ha il proprio modo d’amare, ma la parola amore ci fa assomigliare al sentimento di chiunque altro, ci fa credere che proviamo la stessa cosa.
La parola fa si che alcuni nostri pensieri e sentimenti prendano forma, che si strutturino, che diventino percepibili a noi stessi e comunicabili agli altri; a me è successo molte volte di sentire “mio” un brano musicale, un romanzo, una poesia.
Quando ho ascoltato per la prima volta l’album La voce del padrone di Franco Battiato ho avuto la forte sensazione che tutto ciò che stavo provando e che non riuscivo a catturare diventasse musica e parola, la stessa cosa mi accadeva ascoltando The dark side of the moon dei Pink Floyd o Kind of Blue di Miles Davis, i tre dischi che più di ogni altro hanno formato la mia sensibilità musicale, ma mi è successo anche leggendo Il nome della rosa di Umberto Eco, un libro che sentivo come mio, come se l’avessi scritto io, anche se non avevo, né ho tuttora, il talento per scrivere qualcosa di così straordinario.
Brani musicali, libri di narrativa, poesie che improvvisamente, chissà per quale strano dispositivo mentale, non solo senti, ma vivi, tutti i pensieri e i sentimenti che ti agitano trovano una strada, vengono strutturati in un modo preciso, prendono le ali (un tappeto volante per viaggiare sopra i tetti dei sontuosi e fiabeschi palazzi di Baghdad) che non possedevano per volare molto in alto, per trovare qualcun altro che possa riconoscervisi e viverli insieme a te.
Nella musica e nelle parole c’è la sensibilità di un artista, un talentuoso, un genio, c’é lo spirito del tempo, li puoi far tuoi perché li riconosci, ti ci trovi, li puoi abitare facilmente perché ti sono familiari e perdureranno finché quelle strutture che li costituiscono e che ne hanno decretato la facile fruibilità e il successo perdurano nel senso comune, finché resiste la loro fiamma, finché catturano le menti e i cuori.
Le parole sono fili (corde) di seta, che servono per legare la tua anima alla mia. Bisogna saper entrare dentro le parole, possederle, dominarle e imparare ad uscirne … chi non lo fa ne diviene prigioniero. L’uso della parola ci rende uomini, perché recide il nostro contatto diretto con la terra e lo rende da allora in poi artificiale (da bambini guardiamo, tocchiamo e portiamo ogni oggetto in bocca per conoscerlo, da adulti conosciamo solo attraverso le parole scritte o dette), ma l’uso della parola ci consente di essere presenti a noi stessi, la parola è lo specchio attraverso cui ci possiamo guardare (Lacan).
Il contrario del verbo, della parola, è l’azione, e l’azione senza la parola, senza concetto, è il fascismo, che è propriamente agire senza pensare (Mussolini ha ripetuto molte volte che ogni qualvolta ha meditato una decisione, ha sbagliato, mentre sono state giuste tutte le scelte fatte d’istinto; Mussolini: “Noi prima di essere verbo siamo azione”, avremmo dovuto chiedergli se la firma sulle leggi razziali o sulla dichiarazione di guerra fu una scelta d’istinto o meditata). L’azione senza la parola in campo artistico è il Futurismo.
Possiamo comprendere solo ciò che il nostro linguaggio ci permette di comprendere, la struttura del linguaggio articolerà la nostra comprensione, sarà la struttura della nostra comprensione. (Ogni idioma permette una più o meno approfondita conoscenza del reale, l’italiano, il francese, il tedesco, il greco e lo spagnolo permettono di articolare una filosofia idealistica, una metafisica, una letteratura intimistica, psicologica, atta a scandagliare profondità, una poetica lirica, melodica, sublime, l’inglese invece è un linguaggio pragmatico, più utile in ambito commerciale, economico, turistico, e in tutti quei frangenti in cui devi esprimere una relazione superficiale, in letteratura e in musica è adatto ad esprimere ritmo e azione).
La parola rappresenta l’architettura di senso entro cui noi viviamo le nostre esperienze, la struttura lessicale, sintattica e semantica del nostro idioma determina altresì il nostro equilibrio psichico, e non solo perché ci trasmette cosa è normale e cosa non lo è, o ciò che è giusto e cosa sbagliato, ma letteralmente perché il nostro equilibrio mentale riposa sul filo del discorso; questa stessa struttura influisce molto anche sulle possibilità di disequilibrio, su quali patologie possiamo andare incontro.