7, A Torquato - La neve si
dilegua e tornano l'erba nei campi, sugli alberi le foglie; muta aspetto la
terra e i fiumi in stanca scorrono fra le rive; la Grazia allora gioca a
guidare ignuda la danza delle sorelle e delle ninfe. Non illuderti d'essere immortale,
t'ammoniscono gli anni e i giorni che passano in un attimo. Mitiga il vento il
gelo a primavera e questa la estingue l'estate che fugge, poi quando l'autunno
avrà dato i suoi frutti e le biade, torna l'inverno senza vita. Ma rapida la
luna ripara i danni del cielo: noi quando cadiamo nel buio, dove si trovano il
padre Enea, Anco e il ricco Tullo, non siamo che polvere e ombra. E non
sappiamo se gli dei del cielo aggiungeranno un domani ai giorni passati. Tutto
ciò che per tua gioia avrai concesso a te stesso sfugge all'avida mano
dell'erede. Al tuo tramonto, Torquato, pronuncerà Minosse su te chiara sentenza
e non ti riporteranno in vita la stirpe, la bella parola, la fede: mai dalle
tenebre infernali Diana libera il puro Ippolito, né Teseo può spezzare a
Pirítoo per quanto l'ami le catene del Lete.
(Quinto Orazio Flacco, Carmi,
Libro IV, 7).
Per qualche strano motivo, di cui
quando ne afferro un lembo mi sfugge tuttavia il senso recondito, e quando
credo di averne afferrato la ragione ultima, la vedo tuttavia scivolare in
mille rivoli, come chi voglia agguantare acqua o sabbia, mi trovo più a mio
agio con donne di una certa età, decisamente anziane, o con donne giovanissime,
praticamente bambine.
Con queste due categorie di donna
mi è più semplice amare ed essere amato, forse perché le prime hanno perso
quella vanità e quella civetteria di voler piacere a chiunque, anche a chi non
ti piace affatto, o quelle arti seduttive, quei vezzi, quei manierismi e quei
bizantinismi che costituiscono le armi di una donna quando vuole avvolgersi di
charme e sprigionare fascino, mentre le seconde non le hanno ancora acquisite
ed entrambe si presentano a te per ciò che sono, mostrando tutte se stesse e i
loro sentimenti autentici.
Per questo Anna Maria mi guarda
come se fossi il principe azzurro e i suoi occhi mi sorridono e mi festeggiano
ogni volta che mi vede, qualche anno fa la “salvai” da una inondazione
trasportandola con le mie possenti braccia (pesa davvero così poco) dal suo
letto fino al furgone predisposto per l’evacuazione di tutti gli ospiti della
casa di riposo, improvvisamente invasa dall’acqua del fiume che era esondato
nel corso della serata a causa di violente piogge.
Quando l’emergenza rientrò e
tutte loro ritornarono alla normalità, nelle loro camere rimesse in ordine,
tornai a trovare lei e le altre “ragazze”, che furono felicissime di rivedermi,
da allora siamo diventati buoni amici, non sono volute mancare in occasione di
una mia conferenza presso la sala auditorium della chiesa di Santa Caterina, e
io vado a trovarle ogni volta che posso con un mazzo di fiori, uno per ciascuna
di loro.
Anche le bambine, o i bambini in
generale, senza distinzione di sesso, provano spesso simpatia per me, forse
perché ho saputo conservare abbastanza bene il mio essere stato ed essere
ancora bambino, per cui si trovano a loro agio con me e io con loro.
Con le donne della mia età,
invece, o con le donne che in generale attraversano l’età di mezzo, fra le
verdi praterie di Gondor e i neri cancelli di Mordor, anche quelle che
inizialmente mi incuriosiscono, mi intrigano o mi avvincono, inizia sempre una
lotta continua, che Adriano Sofri può andare a nascondersi, oppure finiscono
per innervosirmi o per tediarmi a morte con i loro giochetti seduttivi e con i
loro interminabili tentennamenti, le loro tergiversazioni i loro traccheggi, il
loro nicchiare, il loro velarsi-disvelare-nascondere ciò che hanno appena
svelato e negarne l’evidenza.
Si paludano, si ammantano, si trasformano, ricorrono ad ogni trucco, ad ogni inganno, ad arti magiche, pur di piacerti, o pur di negare di essere attratte da te, o per celare di non conoscere davvero quali sono i loro veri sentimenti, mi danno un senso di intensa e nauseante inautenticità, sia quando è evidente che fingono sia, soprattutto, quando giurano di non usare tattiche o strategie di conquista: talvolta il conflitto è piacevole talaltra, quando la seduzione si avvita su se stessa e produce solo burro e panna montata, diventa stucchevole e snervante, tale da apparire falsa, insincera e artificiosa.
Capita a volte che in qualcuna io
ipotizzi o mi illuda che esista un’autenticità interiore che non vede l’ora di
poter condividere con qualcuno, con l’uomo giusto, con quello che saprà
apprezzarla o meritarla; capita a volte che io ipotizzi o mi illuda di poter
essere io quell’uomo e che mi armi di santa pazienza perché so bene quanto
mostrarsi per ciò che si è sia difficile e faticoso e come questo disvelamento
di sé non dipenda esclusivamente dal trovare una persona che sappia accoglierlo
ed amarlo, ma da paure interiori.
Da bambini facciamo molte cose
spontaneamente, senza pudore o vergogna o imbarazzo o senso di colpa, alcune di
queste cose incontrano il favore esterno delle persone care che ci circondano,
e vengono incoraggiate, facendoci sentire dei bravi e buoni bambini, amati e
approvati, e ciò ci da un senso di sicurezza, perché tendiamo ad estendere
queste cose anche ad ambienti estranei a quello familiare, spesso incontrando
uguale approvazione; mentre altre cose che facciamo vengono disapprovate,
vengono definite capricci o cose cattive, che non si fanno in nessun caso se
non vogliamo incorrere in qualche punizione.
Gradualmente accantoniamo tutto
ciò che viene disapprovato come se non ci appartenesse, accettiamo ed esibiamo
tutto ciò che viene approvato dall’ambiente che ci circonda come se noi fossimo
così, come se noi fossimo solo quello ed esploriamo con molto timore tutto ciò
che di noi è nuovo, mai emerso e di cui non sappiamo ancora se verrà accettato
dagli altri o se noi stessi siamo disposti ad accettarlo.
Stimolare qualcuno a mostrarsi
per ciò che è più che favorire un rapporto lo compromette, le donne sono
educate fin da bambine a piacere o a compiacere, se una donna non è bella,
cerca di essere simpatica, e se non è né bella né simpatica, cerca di essere
indispensabile, gli uomini sono educati a farsi valere, inseguono sempre tutto
ciò che può dimostrare agli altri quanto valgono, altrimenti si sentono dei
falliti.
Sia gli uomini che le donne in un
rapporto cercano soprattutto delle conferme a ciò che ritiene di essere, a
quella sorta di identità che usa per entrare in contatto col mondo,
difficilmente accetteranno di seguirvi in un territorio in cui vengono a
mancare i puntelli per mantenere la loro sicurezza e autostima, e solo quando sono
certi di essere apprezzati, riconosciuti, approvati, stimati e fors’anche amati,
quando si sentono a loro agio, possono rischiare di
mostrare di sé qualcosa di inedito agli altri e probabilmente anche a loro
stessi.
Per questo le donne che hanno più
successo con gli uomini sono quelle che li fanno sentire fantastici,
importanti, che ne apprezzano il valore (anche quando non c’è), che ti stirano
le camicie e che ti portano la birra sul divano senza averla chiesta mentre
guardi la partita; per questo gli uomini che hanno più successo con le donne
sono quelli che le assecondano, che non le contraddicono mai, che danno loro
sempre ragione, quelli che non le contrariano, che non le indispongono.
Persone così ti daranno tutte le
conferme che vuoi a ciò che credi di essere, ti daranno una certa serenità e
sicurezza, ma non ti daranno amore, perché non gli importa ciò che sei, gli va
bene ciò che mostri e ciò che appare; ti tolgono il passato, le tue radici e il
futuro, il tuo divenire, perché ogni novità sorga in te e ogni diversità sorta
in passato la guardano con sospetto e la trovano pericolosa, ti tolgono la tua
umanità, perché ti chiedono solo di essere lo strumento di conferma per la loro
identità.
Nel loro egoismo, che è anche il nostro,
il legame fra di voi è più importante di voi, e ciascuno di voi ha il suo
personale e profondo motivo per mantenere questo legame, che costa poco, che da
anche poco, ma quel poco forse è meglio di niente e certamente è meglio che
rischiare.
Fritz Perls, tedesco
naturalizzato negli USA a causa delle persecuzioni naziste contro gli ebrei,
padre della Teoria della Gestalt e psicoterapeuta, di pazienza ne aveva molta
più di me, così Gaines (in Psychology Today, 8, 127-140, The founder of Gestalt
therapy: A schetch of Fritz Perls, 1974) ci racconta un episodio illuminante
del suo modo di essere e di interagire col suo prossimo: “Quando Joe salì in
ascensore, si accorse a stento dell’ometto dalla barba grigia che stava in
piedi appoggiato alla parete. Poi, tutto ad un tratto lo riconobbe. ‘Oh, Dott.
Perls, sono … onorato di incontrarla. Ho letto il suo lavoro; ed è un tale … un
tale onore incontrarla, un tale onore essere al suo cospetto …’. il discorso
balbettante di Joe si trascinava a stento senza nessun effetto. Il vecchio non
si mosse. L’ascensore rallentò e Joe, realizzando che gli stava sfuggendo
l’occasione, udì se stesso dire, disperatamente, ‘sono veramente nervoso’.
Perls si voltò e gli sorrise. Quando le porte si aprirono, prese Joe
sottobraccio e disse, ‘E ora parliamo’ “.
È possibile che nemmeno ammettere
di essere nervoso fosse per Joe qualcosa di veramente autentico, era nervoso
infatti perché gli stava sfuggendo l’occasione di conoscere una vera celebrità,
come solo gli americani sanno rendere qualcuno nell’ambito della disciplina di
cui si occupa, creando icone e superstar, e non perché poteva entrare in
contatto con un altro essere umano, ma prendere coscienza delle proprie
emozioni è già qualcosa di più autentico che balbettare elogi davanti ad una persona
famosa.
Perls nel breve spazio di quel fugace incontro più di
quello non poteva fare, per quanto gli ascensori americani ci impieghino più
tempo per raggiungere le loro mete perché i loro edifici sono molto più alti
dei nostri; egli però ha già fatto qualcosa di straordinario, sintonizzandosi
ed entrando in contatto con Joe a partire da un’ emozione di questi e non in
base all’interesse che suscitava il suo essere famoso nel ragazzo.
I ritmi del cuore sono sempre
imperscrutabili, la testa ti indirizza verso questa o quell’altra direzione in
base a calcoli razionali, altri organi sembrano scegliere autonomamente in base
a criteri di cui è meglio non approfondire troppo in un contesto sociale
civile, ma il cuore ha le sue vie, i suoi battiti, i suoi palpiti, e quando
decide di andare in extrasistoli tu non puoi farci niente: è l’amore, bellezza!
Il cuore non si ferma di fronte a
niente, non guarda colore della pelle, sesso, bellezza, censo, livello di
istruzione, e nemmeno l’età; a costo di indignarvi, vi dirò che nemmeno l’età è
un problema in questo caso, perché la donnina che amo di più al mondo, quella
che amo di più in assoluto, è davvero molto giovane, e quando l’ho conosciuta
era davvero molto piccola, un batuffolino sorridente.
Le foto che vedete sono datate,
sapete bisogna rispettare la sua privacy ora che è signorina, quindi ho scelto
foto volutamente sfuocate e volutamente lontane nel tempo, lei avrà avuto tre o
quattro anni, e quell’essere abominevole, quell’energumeno che le tira i
capelli e le fa i dispetti sono io.
Ora è una signorina di dodici
anni, bellissima, biondissima, con occhi azzurrissimi, che va bene a scuola, sa
nuotare, sa giocare a basket, a tennis, sa cavalcare, sa ballare, sa andare a
piedi o in mountain bike per sentieri di montagna, sa sciare e andare sullo
snowboard, conosce l’italiano corrente, il veneto, l’inglese, lo swahili,
quattro dialetti berberi della zona dell’Atlante, il siciliano antico e sa fare
tante altre cosette.
Ieri sera siamo andati a cena
fuori, soli io e lei, ma non proprio a cena, a mangiare una pizza, ad entrambi
piace infatti più la pizza che una cena e ad entrambi piace tutto ciò che è
rosso: pomodoro, ciliegie, fragole, radicchio, more, lamponi, arance,
melograno, ribes … per noi una pizza bianca non è una pizza e la pizza ai
quattr …blurrp …la pizza ai quattro for…blurrp …scusate, non riesco neanche a
pronunciarla, che mi viene da vomitare, proprio non esiste.
La pizza è pizza se ha la pasta,
il pomodoro e l’origano (o il basilico, se siete napoletani) … se manca
qualcuna di questi ingredienti non è pizza, è un’altra cosa …chiamatela
“pippetto”, chiamatela ”romoletto”, chiamatela “ciruzzo”, chiamatela cracco …
ma nun è pizza, è n’ata cosa! Ma non divaghiamo, perché alla gente non gliene
frega niente della mia pizza preferita, o delle mie considerazioni sulla pizza.
Dicevo, eravamo in pizzeria da
Ciccillo 'o Sciacquettiere, che fa l’impasto
lievitato a regola d’arte, usa pomodoro san marzano cucinato a lungo a fuoco
lento e passato col setaccio, come si usava una volta, e la mozzarella di
Agerola, che è un’autentica delizia, erano giunte al nostro tavolo due
buonissime pizze fumanti e succulente quando squilla un cellulare … è il mio o
il tuo o il mio o il tuo … il tuo, mìzzica che camurrìa, propria ora???
Mi guarda imbarazzata, ha letto
il nome vorrebbe rispondere, ma ci sono io, e sa che io dico sempre ai miei
amici di spegnere i cellulari a casa mia, o quando sono in mia compagnia, solo
situazioni d’emergenza o risoluzioni di catastrofi attese possono farmi
derogare da questo divieto e impedirmi di gettare il cellulare del malcapitato
in fondo al fiume.
Mi guarda con quegli occhietti
supplici, che volete, io in fondo ho il cuore tenero come un cornetto algida,
che ci volete fare, mi sciolgo come un ghiacciaio in primavera e il mio cuore
naviga alla deriva come un iceberg alla ricerca del suo Titanic, pronto come un
giaguaro a sferrare il mio assalto all’amore di Jack e Rose, facendolo
sprofondare in fondo all’oceano…le permetto di rispondere, purché gli dica,
chiunque sia, di richiamare, nessun innamorato vale una pizza, è bene che la
piccola impari subito l’abc dell’affettività.
La storia del telefono merita una
divagazione, ce l’ha solo da poco e ce l’ha per merito (o per torto) mio, tutti
i suoi compagni di classe ce l’hanno, era rimasta l’unica a non averlo, ma non
ha protestato più di tanto, certo è che lo desiderava, ogni volta che veniva a
casa mia negli ultimi tempi la prima cosa che faceva era di rintracciare il mio
cellulare e iniziare a smanettare, è lei che mi ha insegnato cose e funzioni
che io manco sospettavo che avesse, adesso lo guardo, il cellulare, e gli dico:
“Dimmi che sai fare anche il caffè!”.
Voleva istallarmi whatsapp, l’ho
diffidata, le ho intimato: “Non ti azzardare, se vuoi ancora rimettere il tuo
piede in questa casa!”…già sono alquanto ridicolo senza, ci manca solo whatsapp,
che poi mi arrivano tutte le canzoncine cretine, i messaggini di buon
compleanno o di buon giorno, o buona notte più stupidi del mondo, le catene di
sant’Antonio, le gif che ripetono all’infinito la stessa cosa e chissà quale
altra diavoleria potrebbero ancora inventarsi pur di solleticare l’eterno e
inalterabile dondolio della nostra stupidità.
“Non hai whatsapp???”, mi
chiedono tutti più sbalorditi che meravigliati, e mi guardano come se fossi un
lemure, l’ultimo esemplare vivente di una razza in via d’estinzione, e non
sanno se compiangermi o compatirmi … oppure invidiami per questo mio elegante
volteggiare (come Shen Fu, l’autore dei Sei racconti della vita fluttuante) nel
mondo senza farmi avvincere e conquistare delle peggiori invenzioni del secolo,
che ti promettono di renderti più agevoli i rapporti con gli altri esseri
umani, mentre in realtà te li complicano, ti promettono più libertà e gli
strumenti per liberarti si tramutano presto in nuove catene.
Shen Fu è un letterato senza successo
nella Cina del XVIII° secolo, quella che precede il contatto con
l’occidentalizzazione, si accontenta di lavoretti per sopravvivere ed ha
iniziato a scrivere i suoi Sei racconti, che altro non sono che una serie di
annotazioni della vita quotidiana, delle piccole cose che gli accadono, che
sono poi quelle che ritiene più autentiche e significative, come ad esempio il
rapporto intimo ed erotico con la propria moglie.
Shen Fu disdegna i grandi eventi
dell’impero Manciù, rinnega il principio su cui si basa la società e la cultura
cinese del suo tempo della grande armonia, data da una rigorosissima
gerarchizzazione e dove gli opposti (come il maschile e il femminile) non
avrebbero mai dovuto incontrarsi in una intimità, ma ciascuno occupare il
proprio posto e svolgere il proprio ruolo, egli rinnega altresì la perpetua e
stupida ricapitolazione degli eventi, così come sono sempre stati e così come
saranno, fluttua letteralmente nell’individuale dei piccoli accadimenti della
vita e lo fa procedendo mano nella mano con la sua sposa, che sembra
comprendere e ricambiare i suoi sentimenti.
Ogni volta che penso a whatsapp
mi viene in mente ‘a za Rosa ‘a Venta: me la ricordo sempre vestita di nero, in
lutto da almeno tre decenni, dacché le era morto l’amato marito, lo
stimatissimo e rispettabilissimo don Ciccio Spada, l’inseparabile sciallina
anch’essa nera contro le correnti del golfo, e col fazzoletto nero in testa
che sembrava ‘a figghia ra Scunzulata.
Le sue figlie femmine la lavavano
e la allicchittiavano tutta bella pulita, la vestivano, le pettinavano i
capelli e glieli raccoglievano in un superbo tuppu (chignon) dietro la testa,
la ornavano di orecchini, braccialetto e collana d’oro col crocifisso perché tutti
sapessero che la famiglia era benestante e alla zia Rosa non faceva mancare
niente.
Poi la assettavano sulla sua
sedia di legno col fondo impagliato e con le gambe segate perché potesse
poggiare i piedi per terra (… e adesso siediti, su quella seggiola …), in tal
modo faceva parte del quartiere allo stesso titolo decorativo dell’ancora del
monumento ai caduti in mare che campeggiava sulla piazza, come la fontanella in
ferro battuto, come i platani, le magnolie e i ficus benjamin che circondavano
le piazze e i viali e come le siepi di oleandro e le macchie di bouganville che
ornavano le aiole.
La zia Rosa era nella pace degli
angeli, era infatti sorda come una campana e nemmeno noi bambini, diavoli
scatenati, potevamo turbare la sua angelica serenità, manco se avessero
bombardato il Paese come fecero gli americani nell’estate del ’43 si sarebbe
scomposta, però i suoi figli e i suoi nipoti quando volevano comunicare con lei
dovevano gridare, col risultato che i fatti loro li sapeva tutto il quartiere e
anche qualche famiglia dei quartieri limitrofi.
Erano gli anni 70, Neil Armstrong
aveva posato il suo piede sulla luna, esisteva da tempo la radio a transistor,
il giradischi, la lavatrice, il coltello elettrico per tagliare il pane, il fon
a casco, nelle case era arrivato il televisore e anche la lavatrice, l’uomo
aveva sviluppato tecnologie straordinarie, e la zia Rosa era ancora sorda, era
una situazione intollerabile, che potevano dire i vicini che già “mangiavano la
faccia” a tutta la famiglia (che era un modo elegante per dire che li
criticavano aspramente per lo stato di abbandono in cui tenevano la loro
madre).
A chi è indolente e pigro dalle
mie parti si ribatte: “Minchia, pin nun diri San Giuvanni Battista
t’allampassitu!”, olendo significare che è talmente apatico, inerte ed
infingardo che preferirebbe bruciare pur di esclamare “San Giovanni Battista”,
cioè il sortilegio, la parola magica che avrebbe spento il fuoco e allontanato
il pericolo secondo le credenze antiche.
Fu così che le figlie della za
Rosa la Venta (questo, naturalmente, non era il suo cognome, bensì il suo
soprannome, ma non saprei dirvi perché la chiamavano così né cosa significasse
veramente) andarono ad informarsi presso
un rivenditore di apparecchi acustici, portarono la madre a fare un esame
audiometrico e un check-up gratuito e misero a punto un apparecchio adatto per
le necessità della signora.
Ma quando la zia Rosa inforcò il
suo apparecchio a cavallo delle cartilagini dei padiglioni auricolari, quando i
primi suoni metallici, gracchianti, striduli, acuti iniziarono a percorrere nuovamente
i suoi canali uditivi, a battere sulle membrane timpaniche, a diffondersi
diffusamente sulle trombe di Eustachio, a percuotere il martello, l’incudine e
la staffa, a vorticare per le coclee e gli apparati vestibolari, a trasformarsi
in neurotrasmettitori e in scintille elettriche che in cervello avrebbe
ricevuto come informazioni acustiche sull’ambiente, la zia Rosa avvertì solo
fastidio, era invasa di rumore assordante che non comprendeva, si sentì presa
dai turchi … così si strappò quei marchingegni infernali e li scaraventò per
terra frantumandoli in mille pezzi.
Altro che frigorifero,
aspirapolvere, i nipoti con la Vespa o col Garelli, il mangianastri, lo stereo
in macchina, i pantaloni a zampa d’elefante, l’acqua corrente calda e fredda in
casa, …, altro che uomo sulla Luna, la zia Rosa avrebbe preferito mille volte
andare lei sulla Luna al posto di Armstrong (Rosy in the sky with diamonds)
invece di rimettere quell’infernale aggeggio nelle orecchie … e anch’io
preferisco mille volte la pace degli angeli, la beatitudine e l’isolamento a
tutti quei messaggini carini che ti giungono via wathsapp, che nel giro di
pochi giorni prosciugano ogni residuo di intelligenza nel genere umano.
L’uomo non sta amplificando le
sue facoltà e le sue possibilità attraverso gli strumenti tecnologici che si
costruisce, come normalmente crediamo, ma si sta uniformando a funzionare in
maniera sempre più simile al funzionamento dei suoi dispositivi, tanto da
assomigliare sempre di più ad un elettrodomestico; pensate, abbiamo più neuroni
che stelle in cielo e tutto questo complesso apparato dalle potenzialità
infinite lo facciamo funzionare comunicando con le emoticon o con il codice
binario BASIC o con gli algoritmi dei moderni pc e telefoni cellulari, che
trasformano la ricchezza dell’animo umano in BIT.
La nipotina indagava per calandre
e calandrine, tutte le funzioni, le rubriche, i contenuti del mio telefono,
“Zio, zio, chi è questa bella signora bionda?”, “Ma non stai facendo
catechismo, non t’hanno insegnato l’undicesimo comandamento?”, “I comandamenti
sono solo dieci”, “No sono undici e l’ultimo è il più importante di tutti, per
questo lo riservano per la fine: fatti sempre i ca … voletti tuoi se vuoi
campare a lungo! Ricorda sempre che lo zio proviene da una terra in cui negli
orti invece di zucchine e di melanzane spuntano le canne doppie della lupara!”.
Così ho contrattato con i suoi
genitori, che erano contrari, e li ho convinti che alla piccola gli ci voleva
un telefono portatile, anzi ho preso il ricettario e gliel’ho proprio
prescritto come terapia e, visto che ne sono stato il principale promotore, mi
sono fatto obbligo di regalarglielo, e non è la prima volta che questa bambina
ottiene qualcosa per merito mio o fa esperienze per la prima volta con me o
grazie a qualche mio suggerimento.
Non è colpa di nessuno, oggi per
forza di cose i bimbi conoscono una sorta di genitorialità diffusa, perché
nascono in famiglie in cui sia il padre che la madre lavorano, e quando nascono
i figli in genere sono al massimo della loro carriera e della loro produttività,
e i bambini vengono affidati a nonni, zii e tate, oppure spediti a fare
qualsiasi attività come se fossero pacchi postali.
Tutte queste figure parentali a
cui i bambini vengono affidati è come se fossero genitori aggiuntivi: altro che
padre 1 e padre 2 e padre pio, i comitati LGBT non hanno inventato niente, c’è
confusione …sarà perché ti amo; e mi viene da ridere nel pensare che uno come
Mario Adinolfi sia contro l’adozione di un figlio da parte delle coppie gay (la
stepchild adoption), perché secondo lui avere due padri o due madri creerebbe
confusione nel bambino, e intanto lui è stato sposato due volte e ha avuto una
figlia da ciascuna delle mogli, ora, a meno che non vivano tutti insieme e lui
non faccia lo sceicco col suo gineceo, immagino vivranno in case separate.
Per cui la figlia 1 della moglie
1 ogni tanto andrà a trovare il padre 1, mentre solitamente vive col padre 2,
non biologico, quando è a casa del padre 1 incontrerà la madre 2, non
biologica, e nuova moglie del padre 1, e incontrerà la sorella due da parte di
padre 1 ma avuta con la madre 2 … pensa tu che semplificazione che c’è in casa
Adinolfi … e con Matteo Salvini è ancora peggio, perché ha avuto un figlio
dalla ex-moglie, una figlia da una donna con cui ha convissuto fino al 2012 e
adesso frequenta assiduamente una terza donna in età fertile, se volessero
incontrarsi tutti insieme, fra madre 1, 2 e 3, fra compagne, conviventi,
amanti, facchini, uscieri, donne di servizio, flirt e ripensamenti, dovrebbero
affittare il Palatrussardi o lo stadio di San Siro.
In realtà un bambino capisce
tutto se glielo spieghi e non è vero che certe cose non gliele possiamo dire
perché non le comprende e certe altre creano in lui confusione, quando il
bambino non comprende è perché non sappiamo parlare il suo linguaggio e quando
temiamo di fargli confusione, o di creare in lui scandalo, o di attraversare i
suoi limiti è perché in realtà siamo noi ad avere confusione, a provare
scandalo o ad avere questi limiti.
Un bambino piccolo non si
scandalizza per niente, ma coglie subito i tuoi pregiudizi e li fa suoi, se si
scandalizza per qualcosa è perché ha intuito che per il suo papà e per la sua
mamma quella cosa è scandalosa, non capisce ancora bene come e perché, ma è
così, e deve far finta di non sapere: un bambino che non fa domande non è un
bambino ignaro, è un bambino che su quella cosa si è già dato una risposta, ma
tu non sai che risposta sia, inoltre se non lo ha chiesto a te, cosa in sé né
giusta né sbagliata, vuol dire che deve aver colto che per te è un problema
affrontare quella cosa con lui.
La bambina ha trascorso in casa o
con me in generale buona parte del suo tempo, perché di questi tempi nonni e
zii siamo tutto ciò che rimane del welfare promesso dai giuslavoristi dopo che
hanno smantellato tutte le tutele dei lavoratori che la sinistra aveva
conquistato con dure battaglie.
Ad esempio, è con me che è stata
al cinema per la prima volta, e poiché sono digiuno di allevamento a terra di
bambini, ho sbagliato film, cinema e momento per andarci; il film era Il gatto
con gli stivali, era dalle scuole elementari che non toccavo più quel libro, e
mi è sembrato un tantino diverso da come me lo ricordavo, tutto scene d’azione,
rutilante e rocambolesco, con improvvise comparse di situazioni che creavano
tensione, forse non era proprio adatto a lei, forse era per bambini un po’ più
grandi di 4 anni, ma a parte qualche calcetto sul ginocchio quando era più
tesa, il film tutto sommato le è piaciuto.
Ho sbagliato momento perché era
una domenica pomeriggio e sia la sala d’ingresso, sia la sala interna erano
piene di gente, la confusione già da fastidio a me, ma lei così piccolina che
vedeva tutta quella gente assiepata intorno a lei per la prima volta e tutti a
lei estranei, che si accalcava verso la cassa, ne è stata intimorita e si è
aggrappata ai miei pantaloni.
Abbiamo sbagliato cinema, perché
a me non piacciono i multisala e ho preferito un cinema del centro, le poltrone
erano alte per lei e non era attrezzato di cuscini elevatori per permettere ai
bambini di superare agevolmente la barriera visiva della poltrona davanti, così
ho sacrificato il mio soprabito; quando ha visto la poltrona mi ha guardato, ma
non mi ha chiesto aiuto per salirvi, e io non gliel’ho offerto, so che è
orgogliosa e le piace sbrigarsela da sola, soltanto quando valuta di non
farcela ti chiede soccorso…così si è arrampicata, si è girata dalla parte dello
schermo, si è piazzata sulla poltrona come una principessa, col mio soprabito
sotto ed era pronta per darmi qualche calcetto sulla gamba, i piedini stavano
praticamente dritti davanti a lei, durante le scene con più suspense.
Mi sono ricordato di quando
qualche mese prima eravamo stati in montagna, i suoi genitori sciano, tutti gli
amici della compagnia sciano, l’unico che non scia sono io e, naturalmente, lei
perché era ancora troppo piccola; in baita c’erano i giochi all’aperto per
bambini e lei era attrezzata di tuta termica e di scarpe da neve, così ha iniziato
ad usare le giostrine, il cavallino a molla e a lanciarsi dallo scivolo
piccolo, poi ha visto quello grande, mi ha guardato con aria interrogativa, io
l’ho guardata con aria assertiva, ed ha iniziato a salire la scala che la
portava su, poi si è lanciata fiduciosa nelle sue capacità e nella mia presenza
se per caso fosse caduta, e quando è giunta al suolo sana e salva ha fatto un
sorriso che però non era di divertimento, ma di soddisfazione.
Più di qualche volta avevo notato
che lei prendeva le cose, anche i giochi, come delle sfide, e se riusciva era
fiera di se stessa e soddisfatta, ma non la vedevo mai ridere per divertirsi;
allora ho provveduto, ci siamo trasferiti più in la che c’era una piccola pista
innevata con una leggera discesa dove potevi lanciarti su dei cuscini di
gommapiuma rivestita di plastica che scivolavano a meraviglia su quella neve e
che avevano una robusta corda per essere trainati a mano ovunque.
In quell’occasione, lo ammetto,
ho fatto il pagliaccio, la trainavo facendola slittare e facendole venire i
brividi, quasi fosse sopra un cavallo selvaggio, cadevo e scivolavo a terra
rovinosamente, ho fatto cadere e rotolare anche lei sulla neve, abbiamo riso
dei nostri passi falsi, dei nostri errori, delle nostre cadute, ma riso veramente
di cuore, col petto che sussultava, con la pancia che tremava, con la gola che
gorgogliava, con gli occhi felici.
Ora era li con quel telefono in
mano, appena ha risposto: “Pronto!” sono trasalito, l’ho guardata, la voce non
era più la solita, con me parla ancora con una voce da bambina e mi guarda come
una bambina, come una bambina guarda un adulto che stima e a cui è affezionata,
la voce che aveva col morosetto che la chiamava dall’altro lato del satellite,
magari a soli qualche centinaio di metri da li dove eravamo noi, era invece completamente
cambiata, più calda, più adulta, più da coetanei che condividono un mondo
insieme e dei codici comuni di accesso, senza quella forma di rispetto che i
bambini che non hanno subito traumi e separazioni conservano per gli adulti fin
nell’adolescenza … se chiudevo gli occhi mi sarebbe sembrata una ragazza
ventenne.
Di colpo ho sentito un forte
stridore, un rumore di ingranaggi meccanici che si stavano bloccando, le orbite
ellittiche dei pianeti completamente ferme, di colpo i capelli mi sono
diventati completamente grigi, il cuore mi si è fermato e il sangue si è
gelato; non era soltanto la meraviglia di constatare com’era passato in fretta
il tempo, né lo stupore di avere di fronte qualcuno che si mostra a noi per la
prima volta in maniera inconsueta, spaesante non perché non avrei immaginato
che crescesse e che si interessasse ai
ragazzi della sua età, ma semplicemente perché tutto questo mi coglieva
all’improvviso.
Chissà quante volte accade che i
genitori o un adulto qualsiasi vedono all’improvviso un bambino crescere, dalla
tranquillità dei giochi domestici e dalla tutela parziale, come se fosse un
oggetto fragile, di colpo lo vediamo proiettarsi nella vita, già perfettamente
dotato di tutte le competenze e i talenti che occorrono per affrontarla, di
colpo sentiamo vibrare in noi la stessa smania di crescere e lo stesso timore o
terrore di avventurarci nell’ignoto che avevamo noi allora, la sacra
beatitudine e la folle incoscienza con cui ci siamo lanciati nelle prime
esperienze e nel contatto vero con un altro che non sia familiare.
In tredici anni di blog non trovo
le parole per chiudere degnamente questo post, oppure no:
"Já sei namorar
já sei beijar de
língua
agora só me resta
sonhar
já sei onde ir
já sei onde ficar
agora só me falta
sair.
...
Tô te querendo
como ninguém
tô te querendo
como Deus quiser
tô te querendo
como eu te quero
tô te querendo
como se quer".
(Arnaldo Antunes,
Carlinhos Brown, Marisa Monte
Album: Tribalistas 2002)