giovedì 14 settembre 2017

PESTO VI COLGA







Ogni mattina in Africa, quando sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, quando sorge il sole, un leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina a Firenze, quando sorge il sole, una studentessa americana si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella dei carabinieri o sarà stuprata. Ogni mattina, in Africa o a Firenze, non importa che tu sia gazzella, leone, studentessa o carabiniere, appena sorge il sole è bene che tu cominci a correre.
Un agente delle forze dell’ordine dovrebbe mettersi al servizio del cittadino, non “fargli il servizio”; se c’è stata violenza (la forma dubitativa è d’obbligo per chiunque non abbia assistito di persona), come sembra, questi carabinieri hanno tradito tutto ciò che c’era da tradire: lo Stato, l’Arma dei Carabinieri, lo spirito di servizio, i cittadini che si fidavano della divisa, le donne tutte, il consorzio del genere umano, la loro famiglia e se stessi.
Auguro a tutti i deficienti che hanno messo in dubbio le accuse delle ragazze americane prima ancora di capire se erano basate su prove solide e circostanziate, che accada loro esattamente ciò che è accaduto alle due ragazze a Firenze: se si trattava di un rapporto consenziente, allora trascorreranno una piacevole serata in compagnia di due baldi rappresentanti dell’arma; se si è trattato di violenza però la prenderanno in quel posto doppiamente, la prima in senso fisico e la seconda perché incontreranno legioni di imbecilli dopo che diranno che se la sono cercata o che si stanno inventando tutto.







Ogni tanto, nel vano tentativo di aumentare i visitatori di questo blog, i commenti, i like, i cuoricini, i sorrisini, i filippini … alterno immagini pornografiche a ricette di cucina; ma se sulla pornografia non ho alcuna possibilità di battere il blog di Beppe Grillo, Radio Maria o il quotidiano Libero, sulle ricette l’ultima parola deve essere ancora detta, l’ultimo brodo ancora fatto e l’ultimo dado tratto.
Non vi sarà sfuggito che a qualsiasi ora, in qualsiasi stagione, in uno qualunque dei canali televisivi siate collegati troverete sfigolar di padelle, rimestare di mestoli, tintinnio di forchette, clangore di paioli e calderoni, batterie di pentole schierate in rivista, presentatrici completamente inette all’arte culinaria che vi spiegano come fare il vitello alla Stroganoff o una Saint Honorè.
Non c’è trasmissione in cui manchi un cuoco, un sottocuoco, un apprendista, un lavapiatti, non c’è argomento in cui non venga consultato uno chef, dalla composizione del governo, alla questione degli immigrati, al terrorismo o per quanta pasta fillo serva per costruire il ponte sullo Stretto.
E allora … venghino siore e siori, che oggi voglio regalare la roba, oggi mi voglio rovinare, oggi so’ ascito pazzo e mi voglio cimentare in una ricetta semplice, molto famosa, ma proprio per questo difficile da proporre perché in tutte le cose semplici ed elementari, se ti vengono male è una disfatta, come non saper fare nemmeno due uova al tegamino, e se ti vengono bene o discretamente, comunque non hai scritto alcuna nuova pagina nel Reader’s digest dell’arte culinaria, l’unico risultato accettabile è che ti vengano benissimo.
Voglio insegnarvi come si fa il pesto alla genovese, si avete capito bel il pes-to al-la ge-no-ve-se; anche se sono siciliano e vivo in Veneto dove è molto raro che troviate un pesto al basilico ben fatto … però ho avuto una zia emigrata a Genova, che aveva un ristorante a Sampierdarena, e faceva un pesto eccellente oltre a un’ottima cucina siciliana (e questo conterà pure qualcosa) e a Genova ho incontrato anche il mio primo grande amore, che veniva dalla Svezia, che a 14 anni era alta già un metro e ottanta, che aveva occhi verdi come smeraldi, che si illuminavano ogni volta che mi vedevano e che ogni volta che rideva sbocciavano i fiori.
A Genova ho vissuto molto intensamente, vegliavo la notte e dormivo di giorno, mi piaceva moltissimo il suo caratteristico odore di salmastro e di muschio bianco che la caratterizza … perché ogni città ha un suo odore specifico, diverso da quello di chiunque altra … ad esempio a Venezia c’è il tipico odore malva e a Taranto c’è il tipico odore “ilva”; per me che venivo dalla sonnolenta Sicilia sud-orientale la città mi è sembrata molto frenetica e avventurosa, ci ho rischiato anche la vita in una di quelle sere.
Dorina era una bellissima e simpaticissima ragazza con un caschetto biondo in testa che col suo muoversi a scatti e con l’incapacità intrinseca che aveva di stare ferma, svolazzava deliziosamente sulla sua testa come fossero ali di pipistrello spiegate o vele capite; i suoi occhi sorridevano sempre, anche quando piangeva e il suo entusiasmo era in genere contagioso, incontenibile e travolgente.







Genova

Genova



Purtroppo ebbi la sfortuna di esserle simpatico e si mise in testa di farmi visitare la città, i suoi luoghi caratteristici, di notte, a bordo della sua 126 o in sella al vespone che mi aveva pietosamente prestato mio cugino quando ha saputo che giravo con quella matta: diceva che ero troppo giovane per morire in un incidente stradale in una città sconosciuta… io guidavo e lei mi telecomandava da dietro (praticamente la sorte dell’uomo sposato e senza essere passato dal prete).
Una sera mi porta in un quartiere nuovo, Pegli … Voltri … Bolzaneto…non ricordo … ricordo però il nome del locale in cui entrammo Le mosche bianche; prima di fare il nostro ingresso mi si parò di fronte tutta trafelata e mi disse: “Fa finta di essere il mio uomo!”. “Come?” replicai; “Si, comportati come se stessimo insieme!”. “Ma che devo fare?”, “Tacchinami un po’ …”, “Cosa? U tacchinu jù??? E se poi alla fine qualche mafioso si domandasse: 'Scusate, si può sapere cu minchia era ca facieva u tacchinu?'”, “Oh, ma non vi insegnano niente a voi in terronia? Prendimi per mano, abbracciami, cingimi la vita, accarezzami i capelli, baciami…”, “Seh, baciammi, tanto tanto intensammente, con il cuore e con la mente, come se io fossi li … farò del mio meglio ma per….” e non finii la parola perché lei tagliò corto, abituata a comandare riteneva di aver perso già fin troppo tempo con inutili spiegazioni, era una tipa da “Fallo e basta!”.
Entrammo, e per i primi cinque minuti non mi sembrava molto pericoloso il gioco che stavamo facendo, anzi era decisamente piacevole, lei mi abbracciava, mi stringeva la mano con le sue dita intrecciate alle mie, appoggiava la sua guancia sulla mia rasata di fresco, e la sua testa sulla mia spalla lasciando che gliela accarezzassi, poi all’improvviso, come di scatto, mi si avventò contro e mi scoccò un bacio, ma di quelli veri e non per finta, sentivo tutto l’umore della sua saliva, quel sapore delizioso e indescrivibile che ha la bocca di una donna eccitata o innamorata e la sua lingua che roteava (si vede che si era identificata fin troppo col personaggio).
Quasi immediatamente compresi il motivo di quel bacio improvviso, da lontano… Caron dimonio con occhi di bragia…due occhi che sprigionavano fuoco e fiamme mi guardavano con malevole intenzioni, se avessero potuto fulminarmi io oggi sarei soltanto un mucchietto di cenere; agli occhi stava attaccato un ragazzone alto fra un metro e ottanta e uno e novanta (propendo più per la seconda ipotesi, a meno che il terrore che mi coglie alla vista del sangue, soprattutto quando è il mio, non mi abbiano fatto ingigantire le dimensioni), con una struttura ossea e muscolare particolarmente sviluppata che congiunta ad una lieve microcefalia lo rendevano particolarmente temibile … mi sentivo come Rocky Balboa quando Ivan Drago, il gigante russo con i capelli a spazzola gli disse: “Ti spiezzo in due!”.
Il ragazzone parlò concitatamente con un suo collega cameriere, evidentemente perché voleva venire di persona a servire il nostro tavolo, poi si avviò deciso verso di noi e io, pur essendo un pacifista convinto (sebbene quando vedo zanzare mi sale il sangue agli occhi e sono pronto a fare una strage più di un seguace dell’Isis),  pensai che mi sarei difeso con tutte le mie forze: in fondo ero cintura verde di karate, e che diamine … qualche mae-geri, o mawashi-geri sarei riuscito a piazzarglielo … e forse sarei sopravvissuto al primo round … in fondo ero troppo giovane per morire per un bacio con la lingua e una foto io e lei abbracciati stretti stretti alla macchinetta automatica della stazione Principe alle tre di notte.
Quando è giunto al tavolo mi guardava con rabbia e con disprezzo, mentre a lei faceva gli occhi dolci … e vai a capire la psiche umana, perché li l’unico che non c’entrava nulla e non aveva alcuna colpa ero io, eppure se avesse potuto disintegrarmi mi avrebbe disintegrato e oggi sarei un cassaintegrato (nel senso di disintegrato e inscatolato in una cassa di noce o di mogano); comunque, quando chiese cosa prendevamo tirai un sospiro di sollievo che le velature di tutte le barche del porto si gonfiarono e premettero sull’ancoraggio, come se volessero prendere il mare aperto … ma subito dopo avergli chiesto un caffè cominciai a temere l’avvelenamento.
Comunque Mario (non ricordo come si chiamasse, mi pare Mario, ma poteva benissimo essere Zâne o Serafìn) ci portò i caffè (mi ero detto che era meglio stare svegli e pronti per qualsiasi evenienza) e quel caffè era pure particolarmente buono; ci fu qualche altra carezza, ma sempre in campana, non si sa mai, passato l’obnubilamento mentale di vedere la tua ragazza che bacia un altro in un tavolo del locale in cui lavori, lo shock della provocazione, ora il delitto diventava intenzionale, doloso e le pene previste erano più severe.










Ci fu una nuova scossa elettrica quando Dorina andò alla toilette, lui mi si avvicinò e mi disse: “Belìn, ma proprio qui dovevate venire?”, con quella cadenza tipica della parlata ligure, che ad un siciliano sarebbe parso un gelese quand’è ubriaco; stavo quasi per replicargli che io neanche lo conosco, né sapevo di trovarlo li, ma lui come già lei non aspettavano repliche né spiegazioni, così rinunciai.
In ogni caso non vidi l’ora di uscire da quel posto, mi guardai cautamente tutto intorno per evitare un agguato nei vicoli, magari armato di un coltello da cucina o di uno snocciolatore di olive, poi diedi una pedalata alla messa in moto, feci cenno alla mia donna di saltare in sella come se fossi Jack Nicholson in Easy Driver, Marlon Brando in Fronte del torto, ingranai la prima e per poco non feci impennare la bestia.
Ma prima di cimentarvi a fare un pesto, prima di svelarvi gli ingredienti segreti e i trucchi del mestiere, è imprescindibile che voi assaggiate un buon pesto genovese, il migliore o uno dei migliori: quindi mettete nella vostra agenda un week-end didattico esplorativo nella città della Lanterna, perché non potrete mai fare un buon pesto se non conoscete il sapore di quello buono di Genova.
Andate a colpo sicuro alla Trattoria da Maria in vico Testadoro, piccola salita alla base di via XXV Aprile, nel centro di Genova, la scià Maria è morta da qualche anno, ma ha lasciato la sua preziosa ricetta al figlio, alla nuora e alla nipote che porta il suo nome, ordinate le trenette o gli gnocchi al pesto, con patate a fagiolini bolliti che lo rendono un piatto unico e beveteci sopra un bel bicchiere di vermentino o di albarola.
In alternativa, vanno benissimo anche Il genovese, in via Galata, Raibetta in vico dei Caprettai, in cui lo potrete abbinare ai mandilli de saea, cioè delle lasagnette genovesi, rettangoli di pasta sottile conditi con questa preziosa crema verde, o se vi allontanate un po’ dal centro cittadino e vi spostate al passo del Turchino, tra Genova Voltri e Masone, troverete Baciccin du caru, che lo fa ancora col mortaio e ve lo propone con gli gnocchi di patate quarantine (una varietà ligure antica quasi scomparsa) o con fettuccine e maltagliati “avvantaggiati” fatti con farina di castagne.
Fatta questa necessaria esperienza è bene che cominciate a familiarizzare con la cultura e il modo di essere del genovese, perché per fare un buon pesto dovrete cercare di assomigliare quanto più possibile come carattere ad un genovese, la cui cifra caratteristica è una spiccata cautela e un’accentuata parsimonia.
No, non sto avallando la diceria che i genovesi sono tirchi, taccagni, spilorci, sparagnini, nooo, tutti quelli che ho incontrato io anzi erano particolarmente generosi, e raramente andando in giro da quelle parti mi hanno lasciato offrire anche solo un caffè; vi basta sapere che un’estate invitai a casa mia cinque amici conosciuti a Genova, genovesi DOC che, bando all’avarizia, portarono in dono un preziosissimo vasetto di pesto genovese di ben 120 gr., “È la volta buona che invito a pranzo tutto il quartiere - pensai -  così anche gli abitanti della bassa siracusana assaggeranno questa salsa nordica particolarmente raffinata”.









Potrei iniziare a dirvi di procurarvi uno … anzi due mazzetti di basilico di Pra, meglio abbondare, il basilico è l’unico ingrediente su cui il genovese abbonda, visto il costo contenuto, perché è a km zero e a prezzo zero visto che può coltivarselo da solo, coglietelo foglia per foglia, eliminando il peduncolo, lasciando solo le parti tenere, evitate i tronchi insomma, perché i tronchi sono robe industriali e voi siete un laboratorio artigianale, una fucina del gusto.
Lavate le foglie e controllatele una ad una immergendole in acqua fredda molto rapidamente, non lasciandole in ammollo insomma, fate almeno tre o quattro acque (dipende da quanto sono sporche di terra e da quanto deposito lasciano sul fondo, in ogni caso l’ultima acqua deve essere limpida), passatele con un asciuga insalata e stendetele ad asciugare ulteriormente su un asciugapiatti; tutto questo (la raccolta, il lavaggio e l’asciugatura devono avvenire molto delicatamente, perché le foglie stropicciate e maltrattate renderebbero amarognolo il vostro pesto).
Se non avete il basilico di Pra, come possiamo presumere, e non lo coltivate in casa come faccio io a partire dai semi di basilico genovese, procuratevi comunque un buon basilico, che sia molto profumato, con le foglie di un verde chiaro e piccole, quello a foglie enormi e scure, molto profumato anch’esso, tipico del meridione, non è adatto perché ha un sapore molto intenso, e il pesto deve essere delicato.
Comunque sia, se non avete di meglio, fatelo con quello che avete, tanto male che vada anche se usate foglie di cicoria non può venirvi peggio del pesto Barilla.
La questione del basilico BIO è una cavolata, ma che vuol dire BIO? Un basilico DEVE essere BIO per forza anzi, tutto ciò che mangiamo dovrebbe essere BIO; gli antiparassitari, gli anticrittogamici e i concimi chimici dovrebbero essere proibiti nella produzione di alimenti, perché ci sono fascicoli e faldoni di evidenze scientifiche che dicono che questi prodotti nuocciono alla salute e possono causare la morte, quindi il BIO insapore che costa di più da parte di aziende che producono anche il NON-BIO è una presa per il culo ed io mi rifiuto categoricamente di acquistare da queste aziende sia il BIO sia il NON-BIO.
Mi viene da ridere, poi, quando leggo alcune ricette che prescrivono l’uso di basilico DOP, tutto il basilico prodotto nei dintorni di Genova non basterebbe a garantire la produzione di pesto industriale di una sola delle aziende che si fregiano di usare il basilico DOP, per soddisfare tutte queste aziende i genovesi dovrebbero coltivare basilico pure in vasca da bagno o staccare le mattonelle del salotto e piantarvi un orto.
E poi, volete forse suggerirmi che io ogni volta che faccio il pesto dovrei venire a comprare il basilico a Genova? Sarebbe il pesto più costoso di tutti i tempi, anche perché non vedo sul mercato piantine di basilico DOP genovese, il basilico è una piantina fragile che ha di solito breve durata, sarebbe impossibile trasferirla dai vivai liguri in vasi di plastica ed esportarla in tutta la penisola, isole comprese … quindi tralasciamo il DOP per i non liguri.


Olio Bono ... naturalmente






Genova



L’olio invece deve essere necessariamente ligure, o comunque un olio extra vergine a bassa o bassissima acidità perché ogni singolo ingrediente del pesto ne venga esaltato e non alterato: provate vari tipi di olio finché non troverete quello che vi sembra più indicato.
Sul pesto, poi, ci vanno i pinoli e non si discute, mandorle, noci, nocciole e quant’altro non solo sono controindicati, ma a volte sono pure un accostamento innaturale, come nel caso sempre più frequente di uso degli anacardi per sostituire i pinoli, che troverete in moltissimi vasetti di pesto industriale: gli anacardi costano molto meno, e danno un sapore più aspro, quasi immangiabile al prodotto.
Gli anacardi, ma vi rendete conto? Roba che viene dal Sud America! Beh, anche i pomodori vengono dal Sud America! Ma che c’entra, i pomodori sono arrivati prima, siamo già all’ennesima generazione coltivata in vitro di questi oriundi sudamericani nati in Italia che usufruiscono dello ius soli mio sta ‘nfronte a tte, gli anacardi arrivano ancora clandestini con i gommoni e preparano attentati terroristici al senso del gusto.
E poi, tutto quello che è ana, cioè tutto quello che sta sopra, intanto non è l’originale e poi mi sta sulle scatole per questo atteggiamento di superiorità … sopra la panca la capra canta …: per ciò a me piace Capri e non Anacapri, piace Nas e non Ananas, piace Lisi e non Analisi, piace Mnesis e non Anamnesis e vogliamo metterci sopra anche il carico da undici di quella tizia che esclamò: “Buone queste caramelle al gusto di seueue”, “De che? Posso vedere?”, giri la caramella e leggi ananas (sɐuɐuɐ).
Vi chiederete come mai i sobri genovesi utilizzino un prodotto particolarmente costoso sul mercato nella loro salsa più famosa, visto che per una bustina da 20 gr. di pinoli dovrete vendere un rene al mercato nero degli organi, il motivo è semplice, un tempo in Liguria c’erano più pini che persone, bastava tirare un colpo per far cadere giù qualche pigna, estrarre i pinoli dagli strobili, ed avevi un quantitativo di frutta secca per tutta la stagione.
Delicatissima è invece la faccenda dei formaggi che vanno ad arricchire questa salsa e a renderla cremosa, il quesito è quale o quali usare e perché, intanto vi dico che c’è una vera e propria faida fra i sostenitori del parmigiano e quelli del grana padano, io da sempre mi sono schierato dalla parte dei parmigiani, perché questo formaggio mi piace più del grana e perché da qualche anno tutto ciò che è padano mi fa girare le palle.
La parte avversa sostiene che è più plausibile che la ricetta antica dei vecchi genovesi prescrivesse l’uso del grana, perché la zona di produzione è più estesa ed era più facile entrare in contatto con ruote di grana che con ruote di parmigiano; io non condivido questa idea, perché comunque il grana non si produce in Liguria e perché Parma, Modena e Reggio non sono più distanti da Genova di Alessandria, Lodi e Asti.









Al gusto rotondo e un po’ terroso del parmigiano dovrete però abbinare il gusto più intenso e pastoso di un buon pecorino romano, uno di buona qualità, non alcuni seppure marchiati con la DOP che sanno solo di sale e rovinano il gusto delicato e intenso di un buon pesto: provate ogni formaggio prima di usarlo, assaggiate sia il parmigiano sia il pecorino e ogni scaglia che mettete in bocca dev’essere una pepita di gusto, un’esplosione dei sensi, nel dubbio scartate, lasciate solo ciò che vi convince.
Infine l’aglio, si l’aglio, se anche solo vi fate la domanda: ci va o non ci va? è meglio lasciar perdere, chiudiamola qui, non siete tipi da pesto, andatevi a farvi due spaghetti al pomodoro e buonanotte…non è pensabile un pesto senz’aglio, solo Barilla poteva realizzarlo…fate un piccolo test, quando andate in un supermercato, nel reparto sughi e vasetti afferrate uno ad uno i pesti genovesi e leggete gli ingredienti, tenendo presente che i primi sono quelli contenuti in proporzione maggiore, guardate che olio usano, quali formaggi, quale basilico, quale frutta secca e fatevi due risate su tutto il resto: io ho letto anche “può contenere tracce di pesce o di molluschi … il pesto genovese? E come ci sono arrivati, il basilico gran tombeur de femme ha invitato a casa sua vongole e sardine, o si è aperta la scatola di sardine o il vasetto delle vongole e hanno organizzato insieme un toga party? E poi, tracce … o traccie come dice il Ministero dell’Istruzione, che vuol dire? Pare di avere a che fare con le scie chimiche.
I pesti in vasetto fateli mangiare al signor Barilla, al signor Giovanni Rana (il cui pesto contiene traccie di Giovanni Rana, che essendo un anfibio nuota benissimo nell’olio di palma d’estate e nell’olio di fegato di merluzzo d’inverno), al signor Tigullio, al signor Biffi, al signor Buitoni, al signor Saclà, al signor Knorr … e parlo solo delle marche che mi vengono in mente, le più note e del pesto tradizionale, e taccio per decenza sul pesto di tofu, di seitan o di canapa.
Usate un aglio dal gusto delicato, i genovesi vi suggerirebbero quello di Vessalico, meno forte e più digeribile, una buona alternativa è l’aglio rosso di Nubia, di Trapani o di Paceco, oppure alcuni agli francesi, provate e troverete quello giusto, in ogni caso mettetene meno ed eliminate il nerbo centrale dello spicchio, usando solo la capsula esterna. Qui in Veneto trovo solo un aglio particolarmente forte, sembra quasi che si attendano di essere invasi da un’ondata di rom della Transilvania.
Il sale va quello marino, of course.
Se non siete particolarmente tradizionalisti, se non avete una mezza giornata buona da perdere ma, soprattutto, se non avete un mortaio, usate pure un frullatore elettrico, usando però l’accortezza di mettere per una buona mezzora abbondante in freezer il contenitore del frullatore, il suo coperchio e le lame e pur anche i pinoli, in questo modo eviterete di surriscaldare il basilico che diventerebbe scuro ed amaro.







Genova - Cattedrale di San Lorenzo


Essere tradizionalisti significherebbe, invece, pestare tutti gli ingredienti col pestello su un mortaio di marmo, a partire dal sale e dai pinoli, fino a farne una farina e subito dopo aggiungerete il basilico, i formaggi, l’aglio e l’olio; in questo modo otterrete un pesto più denso e cremoso, molto più omogeneo e con un sapore decisamente migliore.
Ma ricordatevi di ripetere a voi stessi, meglio se a voce alta e per tutta la durata del procedimento: “Sono genovese, sono genovese, sono genovese!”, e questo perché questo mantra per entrare nella parte è meglio del metodo Stanislavskij e vi eviterà di sbagliare.
Per prima cosa mettete quasi tutto il basilico dentro, tranne un ciuffetto per ulteriori aggiustamenti finali (che se vi avanza ci guarnirete gli spaghetti al pomodoro di cui sopra), mettete un po’ d’olio a filo, quanto basta per non fare girare i rotori a secco e a non fare ossidare rapidamente il basilico una volta tritato in contatto con l’aria; poi mettete i pinoli e continuate a tritare col pulse, quello che potete regolare voi con le dita, quindi aggiungete il formaggio tagliato in tocchetti piccoli o grattugiato, in proporzioni più o meno uguali (io faccio predominare un po’, ma solo un po’, il pecorino, che da un gusto più deciso).
Aggiungete piano piano i vari ingredienti all’occorrenza, se è liquido pinoli o formaggio, se è troppo denso l’olio, se è troppo chiaro il basilico (il colore finale dev’essere verde intenso, non verde pastello e il sapore del basilico deve predominare su tutto), i formaggi danno sapore, intensità e cremosità, ma non esagerate perché se no fate la quattro formaggi con un po’ di basilico, l’aglio deve sentirsi ma non esageratamente ed è l’ingrediente più difficile da gestire, perché se non lo mettete affatto o ne mettete troppo poco vi siete giocati l’anima del pesto, se ne mettete troppo saprà solo da aglio, in pratica più uno tzatziki greco o un gazpacho andaluso o un’aiolì nostrana che un pesto genovese.
Tenete però presente che il gusto anche intenso dell’aglio mentre assaggiate, tende col tempo, già il giorno dopo ad attenuarsi e ad addolcirsi parecchio, per cui appena tritato l’aglio deve beccare un po’, ma non troppo, infine regolate di sale e anche il sale tende a sentirsi troppo ma si attenua nelle ore successive, quindi anche al gusto il pesto dovrebbe essere leggermente troppo salato, senza essere acqua di mare.
È una salsa che va fatta a piccole aggiunte, come se faceste economia di ingredienti, come se pensaste che sarebbe meglio che la roba rimanesse e non venisse usata tutta, ma che è un peccato non farlo bene, ecco il genovese che è in voi e che può servire meglio di qualsiasi altro humus culturale per fare in maniera eccellente un pesto, perché il genovese pensa che sarebbe un peccato sprecare la roba usandola in eccesso e sarebbe altrettanto peccato farlo male, farlo senza sapore.




È un po’ come la Dorina di cui vi ho parlato prima, che adesso è sposata e ha due figli (né troppi, né troppo pochi), che volendo ingelosire il suo ragazzo mi da un bacio senza troppo trasporto e senza grande intensità, ma che comunque sarebbe un peccato sprecarlo del tutto e usa la lingua.
Esistono donne così che non sanno fingere e che non sanno recitare, se devono darti un bacio, anche per finta, te lo danno davvero, mettendoci tutte se stesse, esistono donne vere come lo era Anna Magnani, che non interpretava, che non sapeva recitare, che nel finale del film di Roberto Rossellini Roma città aperta, quando corre dietro al camion dei nazisti gridando: “Francesco, Francesco!!!”, ama davvero quel Francesco, quell’uomo è davvero suo marito, e muore davvero per una raffica di mitra e non le importa di morire perché muore per amore, o come Maria Callas che si innamora di Aristotele Onassis e lo amerà per tutta la vita, contro ogni evidenza, l’unica donna che abbia mai amato l’armatore greco disinteressatamente, di amore sincero, e che ama Pier Paolo Pasolini in maniera disperata, perché lui non potrà mai ricambiarla come lei vorrebbe, è Lucia di Lammermoor folle d’amore per Edgardo, è Norma … Casta Diva, che inargenti queste sacre antiche piante, a noi volgi il bel sembiante, senza nube e senza vel (Norma, preghiera, Atto I) … che si immola in olocausto per amore e perché non regge la colpa, è Medea che non esita a sacrificare i suoi stessi figli per il folle amore che prova per Giasone.
Il pesto genovese: la storia.

Vespaiolona di Breganze


A Genova ... e ai genovesi, che in realtà sono le persone più generose che io conosca ... se non altro per scrollarsi di dosso l'etichetta di taccagneria.