Ogni mattina in Africa, quando sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o
verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, quando sorge il sole, un leone si sveglia e
sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina a
Firenze, quando sorge il sole, una studentessa americana si sveglia e sa che dovrà correre più della
gazzella dei carabinieri o sarà stuprata. Ogni mattina, in Africa o a Firenze,
non importa che tu sia gazzella, leone, studentessa o carabiniere, appena sorge il
sole è bene che tu cominci a correre.
Un agente delle forze dell’ordine
dovrebbe mettersi al servizio del cittadino, non “fargli il servizio”; se c’è
stata violenza (la forma dubitativa è d’obbligo per chiunque non abbia
assistito di persona), come sembra, questi carabinieri hanno tradito tutto ciò
che c’era da tradire: lo Stato, l’Arma dei Carabinieri, lo spirito di servizio, i cittadini che si fidavano della divisa, le donne tutte, il consorzio del
genere umano, la loro famiglia e se stessi.
Auguro a tutti i deficienti che
hanno messo in dubbio le accuse delle ragazze americane prima ancora di capire
se erano basate su prove solide e circostanziate, che accada loro esattamente
ciò che è accaduto alle due ragazze a Firenze: se si trattava di un rapporto
consenziente, allora trascorreranno una piacevole serata in compagnia di due
baldi rappresentanti dell’arma; se si è trattato di violenza però la prenderanno
in quel posto doppiamente, la prima in senso fisico e la seconda perché
incontreranno legioni di imbecilli dopo che diranno che se la sono cercata o
che si stanno inventando tutto.
Ogni tanto, nel vano tentativo di
aumentare i visitatori di questo blog, i commenti, i like, i cuoricini, i sorrisini, i filippini … alterno immagini
pornografiche a ricette di cucina; ma se sulla pornografia non ho alcuna
possibilità di battere il blog di Beppe Grillo, Radio Maria o il quotidiano
Libero, sulle ricette l’ultima parola deve essere ancora detta, l’ultimo brodo
ancora fatto e l’ultimo dado tratto.
Non vi sarà sfuggito che a
qualsiasi ora, in qualsiasi stagione, in uno qualunque dei canali televisivi
siate collegati troverete sfigolar di padelle, rimestare di mestoli, tintinnio
di forchette, clangore di paioli e calderoni, batterie di pentole schierate in
rivista, presentatrici completamente inette all’arte culinaria che vi spiegano
come fare il vitello alla Stroganoff o una Saint Honorè.
Non c’è trasmissione in cui
manchi un cuoco, un sottocuoco, un apprendista, un lavapiatti, non c’è
argomento in cui non venga consultato uno chef, dalla composizione del governo,
alla questione degli immigrati, al terrorismo o per quanta pasta fillo serva
per costruire il ponte sullo Stretto.
E allora … venghino siore e siori, che oggi voglio regalare
la roba, oggi mi voglio rovinare, oggi so’
ascito pazzo e mi voglio cimentare in una ricetta semplice, molto famosa,
ma proprio per questo difficile da proporre perché in tutte le cose semplici ed
elementari, se ti vengono male è una disfatta, come non saper fare nemmeno due
uova al tegamino, e se ti vengono bene o discretamente, comunque non hai
scritto alcuna nuova pagina nel Reader’s
digest dell’arte culinaria, l’unico risultato accettabile è che ti vengano
benissimo.
Voglio insegnarvi come si fa il
pesto alla genovese, si avete capito bel il pes-to al-la ge-no-ve-se; anche se
sono siciliano e vivo in Veneto dove è molto raro che troviate un pesto al
basilico ben fatto … però ho avuto una zia emigrata a Genova, che aveva un
ristorante a Sampierdarena, e faceva un pesto eccellente oltre a un’ottima
cucina siciliana (e questo conterà pure qualcosa) e a Genova ho incontrato anche
il mio primo grande amore, che veniva dalla Svezia, che a 14 anni era alta già
un metro e ottanta, che aveva occhi verdi come smeraldi, che si illuminavano
ogni volta che mi vedevano e che ogni volta che rideva sbocciavano i fiori.
A Genova ho vissuto molto
intensamente, vegliavo la notte e dormivo di giorno, mi piaceva moltissimo il
suo caratteristico odore di salmastro e di muschio bianco che la caratterizza …
perché ogni città ha un suo odore specifico, diverso da quello di chiunque
altra … ad esempio a Venezia c’è il tipico odore malva e a Taranto c’è il
tipico odore “ilva”; per me che venivo dalla sonnolenta Sicilia sud-orientale
la città mi è sembrata molto frenetica e avventurosa, ci ho rischiato anche la
vita in una di quelle sere.
Dorina era una bellissima e
simpaticissima ragazza con un caschetto biondo in testa che col suo muoversi a
scatti e con l’incapacità intrinseca che aveva di stare ferma, svolazzava
deliziosamente sulla sua testa come fossero ali di pipistrello spiegate o vele
capite; i suoi occhi sorridevano sempre, anche quando piangeva e il suo
entusiasmo era in genere contagioso, incontenibile e travolgente.
Genova |
Genova |
Purtroppo ebbi la sfortuna di
esserle simpatico e si mise in testa di farmi visitare la città, i suoi luoghi
caratteristici, di notte, a bordo della sua 126 o in sella al vespone che mi
aveva pietosamente prestato mio cugino quando ha saputo che giravo con quella
matta: diceva che ero troppo giovane per morire in un incidente stradale in una
città sconosciuta… io guidavo e lei mi telecomandava da dietro (praticamente la
sorte dell’uomo sposato e senza essere passato dal prete).
Una sera mi porta in un quartiere
nuovo, Pegli … Voltri … Bolzaneto…non ricordo … ricordo però il nome del locale
in cui entrammo Le mosche bianche;
prima di fare il nostro ingresso mi si parò di fronte tutta trafelata e mi
disse: “Fa finta di essere il mio uomo!”. “Come?” replicai; “Si, comportati
come se stessimo insieme!”. “Ma che devo fare?”, “Tacchinami un po’ …”,
“Cosa? U tacchinu jù??? E se poi alla fine qualche mafioso si domandasse: 'Scusate, si può sapere cu minchia era ca facieva u tacchinu?'”, “Oh, ma non vi insegnano niente a voi in terronia? Prendimi per mano,
abbracciami, cingimi la vita, accarezzami i capelli, baciami…”, “Seh, baciammi,
tanto tanto intensammente, con il cuore e con la mente, come se io fossi li …
farò del mio meglio ma per….” e non finii la parola perché lei tagliò corto,
abituata a comandare riteneva di aver perso già fin troppo tempo con inutili
spiegazioni, era una tipa da “Fallo e basta!”.
Entrammo, e per i primi cinque
minuti non mi sembrava molto pericoloso il gioco che stavamo facendo, anzi era
decisamente piacevole, lei mi abbracciava, mi stringeva la mano con le sue dita
intrecciate alle mie, appoggiava la sua guancia sulla mia rasata di fresco, e
la sua testa sulla mia spalla lasciando che gliela accarezzassi, poi
all’improvviso, come di scatto, mi si avventò contro e mi scoccò un bacio, ma
di quelli veri e non per finta, sentivo tutto l’umore della sua saliva, quel
sapore delizioso e indescrivibile che ha la bocca di una donna eccitata o
innamorata e la sua lingua che roteava (si vede che si era identificata fin
troppo col personaggio).
Quasi immediatamente compresi il
motivo di quel bacio improvviso, da lontano… Caron dimonio con occhi di bragia…due occhi che sprigionavano fuoco
e fiamme mi guardavano con malevole intenzioni, se avessero potuto fulminarmi
io oggi sarei soltanto un mucchietto di cenere; agli occhi stava attaccato un
ragazzone alto fra un metro e ottanta e uno e novanta (propendo più per la
seconda ipotesi, a meno che il terrore che mi coglie alla vista del sangue,
soprattutto quando è il mio, non mi abbiano fatto ingigantire le dimensioni),
con una struttura ossea e muscolare particolarmente sviluppata che congiunta ad
una lieve microcefalia lo rendevano particolarmente temibile … mi sentivo come Rocky Balboa quando Ivan Drago, il gigante russo con i
capelli a spazzola gli disse: “Ti spiezzo in due!”.
Il ragazzone parlò concitatamente
con un suo collega cameriere, evidentemente perché voleva venire di persona a
servire il nostro tavolo, poi si avviò deciso verso di noi e io, pur essendo un
pacifista convinto (sebbene quando vedo zanzare mi sale il sangue agli occhi e
sono pronto a fare una strage più di un seguace dell’Isis), pensai che mi sarei difeso con tutte le mie
forze: in fondo ero cintura verde di karate, e che diamine … qualche mae-geri, o mawashi-geri sarei riuscito a piazzarglielo … e forse sarei
sopravvissuto al primo round … in fondo ero troppo giovane per morire per un
bacio con la lingua e una foto io e lei abbracciati stretti stretti alla
macchinetta automatica della stazione Principe alle tre di notte.
Quando è giunto al tavolo mi
guardava con rabbia e con disprezzo, mentre a lei faceva gli occhi dolci … e
vai a capire la psiche umana, perché li l’unico che non c’entrava nulla e non
aveva alcuna colpa ero io, eppure se avesse potuto disintegrarmi mi avrebbe
disintegrato e oggi sarei un cassaintegrato (nel senso di disintegrato e
inscatolato in una cassa di noce o di mogano); comunque, quando chiese cosa prendevamo
tirai un sospiro di sollievo che le velature di tutte le barche del porto si
gonfiarono e premettero sull’ancoraggio, come se volessero prendere il mare
aperto … ma subito dopo avergli chiesto un caffè cominciai a temere
l’avvelenamento.
Comunque Mario (non ricordo come
si chiamasse, mi pare Mario, ma poteva benissimo essere Zâne o Serafìn) ci
portò i caffè (mi ero detto che era meglio stare svegli e pronti per qualsiasi
evenienza) e quel caffè era pure particolarmente buono; ci fu qualche altra carezza,
ma sempre in campana, non si sa mai, passato l’obnubilamento mentale di vedere
la tua ragazza che bacia un altro in un tavolo del locale in cui lavori, lo
shock della provocazione, ora il delitto diventava intenzionale, doloso e le
pene previste erano più severe.
Ci fu una nuova scossa elettrica
quando Dorina andò alla toilette, lui mi si avvicinò e mi disse: “Belìn, ma
proprio qui dovevate venire?”, con quella cadenza tipica della parlata ligure,
che ad un siciliano sarebbe parso un gelese quand’è ubriaco; stavo quasi per
replicargli che io neanche lo conosco, né sapevo di trovarlo li, ma lui come
già lei non aspettavano repliche né spiegazioni, così rinunciai.
In ogni caso non vidi l’ora di
uscire da quel posto, mi guardai cautamente tutto intorno per evitare un
agguato nei vicoli, magari armato di un coltello da cucina o di uno
snocciolatore di olive, poi diedi una pedalata alla messa in moto, feci cenno
alla mia donna di saltare in sella come se fossi Jack Nicholson in Easy Driver,
Marlon Brando in Fronte del torto, ingranai la prima e per poco non feci
impennare la bestia.
Ma prima di cimentarvi a fare un
pesto, prima di svelarvi gli ingredienti segreti e i trucchi del mestiere, è
imprescindibile che voi assaggiate un buon pesto genovese, il migliore o uno
dei migliori: quindi mettete nella vostra agenda un week-end didattico
esplorativo nella città della Lanterna, perché non potrete mai fare un buon
pesto se non conoscete il sapore di quello buono di Genova.
Andate a colpo sicuro alla Trattoria da Maria in vico Testadoro,
piccola salita alla base di via XXV Aprile, nel centro di Genova, la scià Maria
è morta da qualche anno, ma ha lasciato la sua preziosa ricetta al figlio, alla
nuora e alla nipote che porta il suo nome, ordinate le trenette o gli gnocchi
al pesto, con patate a fagiolini bolliti che lo rendono un piatto unico e
beveteci sopra un bel bicchiere di vermentino o di albarola.
In alternativa, vanno benissimo
anche Il genovese, in via Galata, Raibetta in vico dei Caprettai, in cui
lo potrete abbinare ai mandilli de saea,
cioè delle lasagnette genovesi, rettangoli di pasta sottile conditi con questa
preziosa crema verde, o se vi allontanate un po’ dal centro cittadino e vi
spostate al passo del Turchino, tra Genova Voltri e Masone, troverete Baciccin du caru, che lo fa ancora col
mortaio e ve lo propone con gli gnocchi di patate quarantine (una varietà
ligure antica quasi scomparsa) o con fettuccine e maltagliati “avvantaggiati”
fatti con farina di castagne.
Fatta questa necessaria
esperienza è bene che cominciate a familiarizzare con la cultura e il modo di
essere del genovese, perché per fare un buon pesto dovrete cercare di
assomigliare quanto più possibile come carattere ad un genovese, la cui cifra
caratteristica è una spiccata cautela e un’accentuata parsimonia.
No, non sto avallando la diceria
che i genovesi sono tirchi, taccagni, spilorci, sparagnini, nooo, tutti quelli
che ho incontrato io anzi erano particolarmente generosi, e raramente andando
in giro da quelle parti mi hanno lasciato offrire anche solo un caffè; vi basta
sapere che un’estate invitai a casa mia cinque amici conosciuti a Genova,
genovesi DOC che, bando all’avarizia, portarono in dono un preziosissimo
vasetto di pesto genovese di ben 120 gr., “È la volta buona che invito a
pranzo tutto il quartiere - pensai - così anche gli abitanti della bassa siracusana
assaggeranno questa salsa nordica particolarmente raffinata”.
Potrei iniziare a dirvi di
procurarvi uno … anzi due mazzetti di basilico di Pra, meglio abbondare, il
basilico è l’unico ingrediente su cui il genovese abbonda, visto il costo
contenuto, perché è a km zero e a prezzo zero visto che può coltivarselo da
solo, coglietelo foglia per foglia, eliminando il peduncolo, lasciando solo le
parti tenere, evitate i tronchi insomma, perché i tronchi sono robe industriali
e voi siete un laboratorio artigianale, una fucina del gusto.
Lavate le foglie e controllatele
una ad una immergendole in acqua fredda molto rapidamente, non lasciandole in
ammollo insomma, fate almeno tre o quattro acque (dipende da quanto sono
sporche di terra e da quanto deposito lasciano sul fondo, in ogni caso l’ultima
acqua deve essere limpida), passatele con un asciuga insalata e stendetele ad
asciugare ulteriormente su un asciugapiatti; tutto questo (la raccolta, il
lavaggio e l’asciugatura devono avvenire molto delicatamente, perché le foglie
stropicciate e maltrattate renderebbero amarognolo il vostro pesto).
Se non avete il basilico di Pra,
come possiamo presumere, e non lo coltivate in casa come faccio io a partire
dai semi di basilico genovese, procuratevi comunque un buon basilico, che sia
molto profumato, con le foglie di un verde chiaro e piccole, quello a foglie
enormi e scure, molto profumato anch’esso, tipico del meridione, non è adatto
perché ha un sapore molto intenso, e il pesto deve essere delicato.
Comunque sia, se non avete di
meglio, fatelo con quello che avete, tanto male che vada anche se usate foglie
di cicoria non può venirvi peggio del pesto Barilla.
La questione del basilico BIO è
una cavolata, ma che vuol dire BIO? Un basilico DEVE essere BIO per forza anzi,
tutto ciò che mangiamo dovrebbe essere BIO; gli antiparassitari, gli
anticrittogamici e i concimi chimici dovrebbero essere proibiti nella
produzione di alimenti, perché ci sono fascicoli e faldoni di evidenze
scientifiche che dicono che questi prodotti nuocciono alla salute e possono
causare la morte, quindi il BIO insapore che costa di più da parte di aziende
che producono anche il NON-BIO è una presa per il culo ed io mi rifiuto
categoricamente di acquistare da queste aziende sia il BIO sia il NON-BIO.
Mi viene da ridere, poi, quando
leggo alcune ricette che prescrivono l’uso di basilico DOP, tutto il basilico
prodotto nei dintorni di Genova non basterebbe a garantire la produzione di
pesto industriale di una sola delle aziende che si fregiano di usare il basilico
DOP, per soddisfare tutte queste aziende i genovesi dovrebbero coltivare
basilico pure in vasca da bagno o staccare le mattonelle del salotto e
piantarvi un orto.
E poi, volete forse suggerirmi
che io ogni volta che faccio il pesto dovrei venire a comprare il basilico a
Genova? Sarebbe il pesto più costoso di tutti i tempi, anche perché non vedo
sul mercato piantine di basilico DOP genovese, il basilico è una piantina
fragile che ha di solito breve durata, sarebbe impossibile trasferirla dai
vivai liguri in vasi di plastica ed esportarla in tutta la penisola, isole
comprese … quindi tralasciamo il DOP per i non liguri.
Olio Bono ... naturalmente |
Genova |
L’olio invece deve essere
necessariamente ligure, o comunque un olio extra vergine a bassa o bassissima
acidità perché ogni singolo ingrediente del pesto ne venga esaltato e non
alterato: provate vari tipi di olio finché non troverete quello che vi sembra
più indicato.
Sul pesto, poi, ci vanno i pinoli
e non si discute, mandorle, noci, nocciole e quant’altro non solo sono
controindicati, ma a volte sono pure un accostamento innaturale, come nel caso
sempre più frequente di uso degli anacardi per sostituire i pinoli, che
troverete in moltissimi vasetti di pesto industriale: gli anacardi costano
molto meno, e danno un sapore più aspro, quasi immangiabile al prodotto.
Gli anacardi, ma vi rendete
conto? Roba che viene dal Sud America! Beh, anche i pomodori vengono dal Sud
America! Ma che c’entra, i pomodori sono arrivati prima, siamo già all’ennesima
generazione coltivata in vitro di questi oriundi sudamericani nati in Italia
che usufruiscono dello ius soli mio sta ‘nfronte a tte, gli anacardi
arrivano ancora clandestini con i gommoni e preparano attentati terroristici al
senso del gusto.
E poi, tutto quello che è ana,
cioè tutto quello che sta sopra, intanto non è l’originale e poi mi sta sulle scatole
per questo atteggiamento di superiorità … sopra la panca la capra canta …: per
ciò a me piace Capri e non Anacapri, piace Nas e non Ananas, piace Lisi e non
Analisi, piace Mnesis e non Anamnesis e vogliamo metterci sopra anche il carico
da undici di quella tizia che esclamò: “Buone queste caramelle al gusto di
seueue”, “De che? Posso vedere?”, giri la caramella e leggi ananas (sɐuɐuɐ).
Vi chiederete come mai i sobri
genovesi utilizzino un prodotto particolarmente costoso sul mercato nella loro
salsa più famosa, visto che per una bustina da 20 gr. di pinoli dovrete vendere
un rene al mercato nero degli organi, il motivo è semplice, un tempo in Liguria
c’erano più pini che persone, bastava tirare un colpo per far cadere giù
qualche pigna, estrarre i pinoli dagli strobili, ed avevi un quantitativo di
frutta secca per tutta la stagione.
Delicatissima è invece la
faccenda dei formaggi che vanno ad arricchire questa salsa e a renderla
cremosa, il quesito è quale o quali usare e perché, intanto vi dico che c’è una
vera e propria faida fra i sostenitori del parmigiano e quelli del grana
padano, io da sempre mi sono schierato dalla parte dei parmigiani, perché
questo formaggio mi piace più del grana e perché da qualche anno tutto ciò che
è padano mi fa girare le palle.
La parte avversa sostiene che è
più plausibile che la ricetta antica dei vecchi genovesi prescrivesse l’uso del
grana, perché la zona di produzione è più estesa ed era più facile entrare in
contatto con ruote di grana che con ruote di parmigiano; io non condivido
questa idea, perché comunque il grana non si produce in Liguria e perché Parma,
Modena e Reggio non sono più distanti da Genova di Alessandria, Lodi e Asti.
Al gusto rotondo e un po’ terroso
del parmigiano dovrete però abbinare il gusto più intenso e pastoso di un buon
pecorino romano, uno di buona qualità, non alcuni seppure marchiati con la DOP
che sanno solo di sale e rovinano il gusto delicato e intenso di un buon pesto:
provate ogni formaggio prima di usarlo, assaggiate sia il parmigiano sia il
pecorino e ogni scaglia che mettete in bocca dev’essere una pepita di gusto,
un’esplosione dei sensi, nel dubbio scartate, lasciate solo ciò che vi
convince.
Infine l’aglio, si l’aglio, se
anche solo vi fate la domanda: ci va o non ci va? è meglio lasciar perdere,
chiudiamola qui, non siete tipi da pesto, andatevi a farvi due spaghetti al
pomodoro e buonanotte…non è pensabile un pesto senz’aglio, solo Barilla poteva
realizzarlo…fate un piccolo test, quando andate in un supermercato, nel reparto
sughi e vasetti afferrate uno ad uno i pesti genovesi e leggete gli ingredienti,
tenendo presente che i primi sono quelli contenuti in proporzione maggiore,
guardate che olio usano, quali formaggi, quale basilico, quale frutta secca e
fatevi due risate su tutto il resto: io ho letto anche “può contenere tracce di
pesce o di molluschi … il pesto genovese? E come ci sono arrivati, il basilico
gran tombeur de femme ha invitato a
casa sua vongole e sardine, o si è aperta la scatola di sardine o il vasetto
delle vongole e hanno organizzato insieme un toga party? E poi, tracce … o
traccie come dice il Ministero dell’Istruzione, che vuol dire? Pare di avere a
che fare con le scie chimiche.
I pesti in vasetto fateli
mangiare al signor Barilla, al signor Giovanni Rana (il cui pesto contiene
traccie di Giovanni Rana, che essendo un anfibio nuota benissimo nell’olio di
palma d’estate e nell’olio di fegato di merluzzo d’inverno), al signor
Tigullio, al signor Biffi, al signor Buitoni, al signor Saclà, al signor Knorr
… e parlo solo delle marche che mi vengono in mente, le più note e del pesto
tradizionale, e taccio per decenza sul pesto di tofu, di seitan o di canapa.
Usate un aglio dal gusto
delicato, i genovesi vi suggerirebbero quello di Vessalico, meno forte e più
digeribile, una buona alternativa è l’aglio rosso di Nubia, di Trapani o di
Paceco,
oppure alcuni agli francesi, provate e troverete quello giusto, in ogni caso
mettetene meno ed eliminate il nerbo centrale dello spicchio, usando solo la
capsula esterna. Qui in Veneto trovo solo un aglio particolarmente forte,
sembra quasi che si attendano di essere invasi da un’ondata di rom della
Transilvania.
Il sale va quello marino, of course.
Se non siete particolarmente
tradizionalisti, se non avete una mezza giornata buona da perdere ma,
soprattutto, se non avete un mortaio, usate pure un frullatore elettrico, usando
però l’accortezza di mettere per una buona mezzora abbondante in freezer il
contenitore del frullatore, il suo coperchio e le lame e pur anche i pinoli, in
questo modo eviterete di surriscaldare il basilico che diventerebbe scuro ed
amaro.
Genova - Cattedrale di San Lorenzo |
Essere tradizionalisti
significherebbe, invece, pestare tutti gli ingredienti col pestello su un
mortaio di marmo, a partire dal sale e dai pinoli, fino a farne una farina e
subito dopo aggiungerete il basilico, i formaggi, l’aglio e l’olio; in questo
modo otterrete un pesto più denso e cremoso, molto più omogeneo e con un sapore
decisamente migliore.
Ma ricordatevi di ripetere a voi
stessi, meglio se a voce alta e per tutta la durata del procedimento: “Sono
genovese, sono genovese, sono genovese!”, e questo perché questo mantra per
entrare nella parte è meglio del metodo
Stanislavskij e vi eviterà di sbagliare.
Per prima cosa mettete quasi
tutto il basilico dentro, tranne un ciuffetto per ulteriori aggiustamenti
finali (che se vi avanza ci guarnirete gli spaghetti al pomodoro di cui sopra),
mettete un po’ d’olio a filo, quanto basta per non fare girare i rotori a secco
e a non fare ossidare rapidamente il basilico una volta tritato in contatto con
l’aria; poi mettete i pinoli e continuate a tritare col pulse, quello che potete regolare voi con le dita, quindi
aggiungete il formaggio tagliato in tocchetti piccoli o grattugiato, in
proporzioni più o meno uguali (io faccio predominare un po’, ma solo un po’, il
pecorino, che da un gusto più deciso).
Aggiungete piano piano i vari
ingredienti all’occorrenza, se è liquido pinoli o formaggio, se è troppo denso
l’olio, se è troppo chiaro il basilico (il colore finale dev’essere verde
intenso, non verde pastello e il sapore del basilico deve predominare su
tutto), i formaggi danno sapore, intensità e cremosità, ma non esagerate perché
se no fate la quattro formaggi con un po’ di basilico, l’aglio deve sentirsi ma
non esageratamente ed è l’ingrediente più difficile da gestire, perché se non
lo mettete affatto o ne mettete troppo poco vi siete giocati l’anima del pesto,
se ne mettete troppo saprà solo da aglio, in pratica più uno tzatziki greco o
un gazpacho andaluso o un’aiolì nostrana che un pesto genovese.
Tenete però presente che il gusto
anche intenso dell’aglio mentre assaggiate, tende col tempo, già il giorno dopo
ad attenuarsi e ad addolcirsi parecchio, per cui appena tritato l’aglio deve
beccare un po’, ma non troppo, infine regolate di sale e anche il sale tende a
sentirsi troppo ma si attenua nelle ore successive, quindi anche al gusto il
pesto dovrebbe essere leggermente troppo salato, senza essere acqua di mare.
È una salsa che va fatta a
piccole aggiunte, come se faceste economia di ingredienti, come se pensaste che
sarebbe meglio che la roba rimanesse e non venisse usata tutta, ma che è un
peccato non farlo bene, ecco il genovese che è in voi e che può servire meglio
di qualsiasi altro humus culturale per fare in maniera eccellente un pesto,
perché il genovese pensa che sarebbe un peccato sprecare la roba usandola in
eccesso e sarebbe altrettanto peccato farlo male, farlo senza sapore.
È un po’ come la Dorina di cui
vi ho parlato prima, che adesso è sposata e ha due figli (né troppi, né troppo
pochi), che volendo ingelosire il suo ragazzo mi da un bacio senza troppo
trasporto e senza grande intensità, ma che comunque sarebbe un peccato sprecarlo
del tutto e usa la lingua.
Esistono donne così che non sanno
fingere e che non sanno recitare, se devono darti un bacio, anche per finta, te
lo danno davvero, mettendoci tutte se stesse, esistono donne vere come lo era
Anna Magnani, che non interpretava, che non sapeva recitare, che nel finale del
film di Roberto Rossellini Roma città aperta, quando corre dietro al camion dei
nazisti gridando: “Francesco, Francesco!!!”, ama davvero quel Francesco,
quell’uomo è davvero suo marito, e muore davvero per una raffica di mitra e non
le importa di morire perché muore per amore, o come Maria Callas che si
innamora di Aristotele Onassis e lo amerà per tutta la vita, contro ogni
evidenza, l’unica donna che abbia mai amato l’armatore greco
disinteressatamente, di amore sincero, e che ama Pier Paolo Pasolini in maniera
disperata, perché lui non potrà mai ricambiarla come lei vorrebbe, è Lucia di
Lammermoor folle d’amore per Edgardo, è Norma … Casta Diva, che inargenti queste sacre antiche piante, a noi volgi il
bel sembiante, senza nube e senza vel (Norma,
preghiera, Atto I) … che si immola in olocausto per amore e perché non regge la
colpa, è Medea che non esita a sacrificare i suoi stessi figli per il folle
amore che prova per Giasone.
Il pesto genovese: la storia.
Vespaiolona di Breganze |
A Genova ... e ai genovesi, che in realtà sono le persone più generose che io conosca ... se non altro per scrollarsi di dosso l'etichetta di taccagneria.