Questo post è l'ultimo atto di questi tre che lo precedono:
Io ti consiglio di leggerli prima di affrontarlo, ma se non lo desideri cercherò di comprenderti ... in fondo la tua vita è affar tuo.
BUONA LETTURA.
Tutte queste “imprese” di Mitja
avvenivano pubblicamente, alla luce del sole, egli non si nascondeva affatto e
ciascuna di esse giungeva impietosamente alle orecchie di Katerina Ivanovna,
che si trova improvvisamente ad essere la fidanzata, con tanto di cerimonia
religiosa ortodossa, scambio di anelli in presenza di testimoni e la
benedizione del pope e della generalessa, di un beone, un poco di buono
frequentatore di taverne, uno senz’arte né parte, un fannullone e un traditore.
Uno che vive della carità altrui
senza guadagnare nulla, che ha scialacquato tutto ciò che aveva, un violento
che non si sa controllare e che ha minacciato di uccidere suo padre, che si è
innamorato di una donnaccia in tutto inferiore alla sua fidanzata, che è geloso
fino alla follia di questa donna ed è geloso di suo padre, che non ha più
neanche l’onore e la dignità di vergognarsi di tutto ciò e che non prova più
neanche a nascondere quanto è diventato abietto, anzi ne ha fatto stendardo.
In tutta questa folle corsa verso
il baratro, che tutti osservano stupefatti e nessuno sembra saper frenare,
simbolizzata dalla trojka galoppante
citata nell’arringa del procuratore Ippolit
Kirillov durante il processo, l’evento che rende irreversibile, inevitabile
e inesorabile il precipizio nella catastrofe di tutta la famiglia e di coloro
che in qualche modo ne sono coinvolti affettivamente, è la consegna di tremila
rubli di Katerina Ivanovna a Dmitij Karamazov.
Ella dice che non si dava pace di
sapere il suo fidanzato privo di mezzi che viveva di espedienti, allora
escogitò uno stratagemma per non ferire il suo orgoglio e per non sembrare che
gli stesse facendo l’elemosina, lo chiamò in disparte sola con lui e gli
consegnò la somma suddetta affinché la inviasse a Mosca alla sorella, ma senza
fretta, bastava che giungesse da li ad un mese e che non la inviasse da li, ma
dal paese vicino; di quell’invio Katerina non chiese mai a Mitjia di mostrarle
una ricevuta, né domandò se avesse inviato il denaro.
In una situazione così esplosiva
in cui il suo fidanzato era poco lucido, pronto a qualsiasi cosa, pure ad
uccidere il proprio padre, e preoccupato fino alla follia che la donna che
amava potesse tradirlo con suo padre per denaro, avere in mano tremila rubli (anche
la cifra è simbolica e beffarda, è la stessa cifra che Fëdor Pavlovič ha messo in palio per godere delle grazie di
Grušen’ka) poteva essere un’arma micidiale, e infatti così fu.
Nel tentativo di conquistare
definitivamente la sua bella Dmitrij la invita per qualche giorno in un albergo
a Mokroe, una località di villeggiatura poco distante dal paese in cui
abitavano, ma non è un normale invito, egli fa le cose in grande, alla russa,
anzi alla Karamazov, acquista per l’occasione una quantità spropositata di
casse di champagne, del buon caviale, salmone ed altre squisitezze dolci e
salate, carica fino a farla scoppiare una trojka
e corre a perdifiato attraverso la steppa fino a quel luogo che per lui è il
paradiso, qui fra spese, mance e regali, feste, musica e balli di gitani, si
vanta in pochi giorni di aver dilapidato l’intera somma, senza fra l’altro aver
ottenuto da Grušen’ka nient’altro che il permesso di baciare il suo piedino.
Quel denaro fu in realtà una
sfida e una vendetta da parte di Katerina e Dmitrij dal canto suo capì
immediatamente che era in odio verso di lui e non per amore che lei glielo
stava dando, era per perderlo, era perché lui accelerasse la sua sventura; è la
stessa Katja a dirlo pubblicamente nel corso del suo secondo interrogatorio nel
processo, quando ormai il suo odio per lui è allo scoperto e vuole solo
distruggerlo.
Katerina era consapevole che
Dmitrij amava un’altra, che la stava tradendo con quella “canaglia”, e che
questa donna sensibile al denaro poteva essere conquistata e mantenuta solo da
uomini facoltosi, allora escogita l’espediente dell’invio a Mosca, guarda caso
della stessa cifra stanziata dal vecchio Karamazov; stava alludendo,
simbolizzando, si prendeva gioco di lui, voleva umiliarlo, voleva vedere se lui
sarebbe stato tanto privo d’onore da tentare di conquistare quella donna
proprio con i soldi che gli stava affidando lei, la sua fidanzata.
Stava ripetendo, invertendo il
ruolo dei protagonisti, la stessa scena di quella sera in cui fu lui ad offrire
a lei il proprio denaro, e fu nei suoi occhi che scintillò il disprezzo perché
lei lo prendeva, umiliandosi, vendendosi, offrendosi a lui e probabilmente a
chiunque glielo avesse offerto; per tutto quel tempo Katja era inorridita al
ricordo di quello sguardo carico di disprezzo, da quello sguardo nasceva il suo
odio profondo per lui, quegli occhi lampeggianti avevano risvegliato il suo
orgoglio il suo amor proprio, e lei si era legata a lui perché quegli occhi si
mutassero in amore o per sprofondare con lui in un mare di odio reciproco.
“Lo volevo salvare perché mi
aveva odiata e disprezzata così tanto …Oh , lui mi disprezzava profondamente,
mi ha sempre disprezzata e sapete, sapete, mi ha disprezzata dal momento stesso
in cui mi sono inginocchiata davanti a lui per quei soldi, io me ne accorsi
…Oh, lui non ha capito, non ha capito niente del motivo per il quale mi ero
precipitata da lui, lui è capace di sospettare soltanto bassezze! Egli
giudicava la gente secondo il proprio metro, pensava che fossero tutti come
lui…” (p. 944), proruppe Katerina come se fosse impazzita, durante il processo.
Poco prima aveva fornito una
testimonianza completamente diversa, in cui tutti quelli che l’avevano ascoltata
si erano orientati verso l’innocenza di Dmitrij o almeno ad una riabilitazione
della sua figura e ad accarezzare l’ombra del dubbio nei suoi confronti,
nonostante gli indizi contro di lui fossero schiaccianti, e per aiutarlo non
aveva esitato a raccontare tutto di quella sera, macchiando pubblicamente la
sua reputazione, pur di ribadire che uomo di cuore generoso fosse Dmitrij
Karamazov.
Però, non esita neanche a
cambiare successivamente la sua versione, condannandolo definitivamente e
fornendo quella che Ivan aveva definito la “prova matematica” della sua
colpevolezza, in cui Mitja in stato di ebbrezza, sul retro del conto di una
taverna, aveva scritto a Katja la sua intenzione di uccidere suo padre, nel
modo in cui poi era stato veramente ucciso, e di appropriarsi dei soldi che il
vecchio teneva nascosti per Grušen’ka … la lettera ella non l’aveva distrutta,
anzi, quel giorno l’aveva portata con sé, forse indecisa fino alla fine se
salvarlo o perderlo e alla fine farà entrambe le cose.
Non solo i Karamazov vivono fra
due abissi, lacerati fra due opposti, chi molto più titanicamente è abbarbicata
fra due abissi è proprio Katerina Ivanovna, lacerata fin da subito dagli
opposti amori per due uomini che non potrebbero essere fra di loro più diversi
nonostante siano fratelli; fino alla fine Katja non saprà chi dei due ama
davvero, fino alla fine in carcere quando andrà a trovare Mitja lo abbraccerà,
lo bacerà e nonostante gli dica perentoriamente: “L’amore è finito, Mitja!”,
subito dopo aggiungerà: “Tu ami un’altra donna e io amo un altro uomo, eppure
ti amerò in eterno, e anche tu amerai me, lo sapevi questo?” (p. 1050).
Alla fine tutti questi eventi,
tutto quest’amore tramutato in odio, come il miracolo à rebours delle nozze di Cana (citate nel romanzo), non più l’acqua
che si fa vino, ma il vino che diventa aceto, tutta questa enorme ambivalenza,
il vivere costantemente a cavallo fra due abissi, travolgerà irrimediabilmente
tutti i protagonisti, che cadranno uno ad uno come marionette senza fili.
Se vogliamo, la trama de I fratelli Karamazov è estremamente
banale, assomiglia alla fiaba de I tre
porcellini, simbolizzati dai tre fratelli Karamazov, ciascuno di essi
costruisce la sua casa con i materiali che riterrà più opportuni, Dmitrij la
costruirà fondandola sull’appagamento immediato dei suoi desideri e sarà punito
dalla giustizia e mandato in Siberia, Ivan la costruisce sulla nuova filosofia
atea in cui se elimini l’idea di Dio elimini anche la morale fra gli uomini e
allora “tutto è lecito”, e pagherà il naufragio di questa dottrina con la
follia e con lo sprofondare nel senso di colpa, Alekseij costruirà la sua casa
sulla solida rocca della fede, ed è l’unico ad uscire indenne da questa
tragedia, nonostante sia addolorato per la sorte dei fratelli e per la triste
morte del padre.
In ciascuno dei personaggi del
romanzo Dostoevskij mette qualcosa di suo, e più importante è la figura che
rappresenta, più profonda è l’identificazione fra lo scrittore e l’attore che
mette in scena nel suo scritto; c’è un po’ di Dmitrij, di Ivan, di Fëdor
Pavlovič e persino di Smerdjakov in
lui (con ogni probabilità un quarto fratellastro, non riconosciuto dal vecchio
Karamazov, che lo tiene in casa come cuoco, lacchè, confidente e uomo di
fiducia, che soffre di crisi di grande male epilettico, esattamente come lo
scrittore, e che sarà l’esecutore materiale dell’assassinio del padre, del
patricidio appunto).
Un evento, il patricidio, che non
doveva essere del tutto estraneo al nostro Dostoevskij, almeno nelle
intenzioni, visto che il proprio padre era un tiranno con tutti, anche con i
figli, e l’intenzione di ribellarsi contro di lui e forse anche quella di
ucciderlo deve essersi affacciata più volte nella loro mente, tanto è vero che
qualche biografo l’ha pure sospettato, perché le circostanze della morte del
padre di Dostoevskij non furono mai del tutto chiare: ucciso dai suoi stessi
contadini/servi della gleba, che angariava e sfruttava e su cui sfogava la
propria rabbia e le proprie frustrazioni, ma i suoi figli dov’erano, cosa
stavano facendo in quel momento, ed è possibile descrivere così bene le
circostanze di un delitto così atroce in tutte le sue sfumature se non l’hai
vissuto?
Dostoevskij descrive con perizia
il tormento del giocatore, perché a sua volta egli fu un giocatore patologico,
descrive in maniera eccellente l’angoscia del condannato a morte, e lui
sperimentò in prima persona la condanna, ciò che si prova fino all’istante in
cui ci si reca al patibolo, poi per fortuna la sua condanna venne commutata nel
confino in Siberia, descrive accuratamente l’aura che avverte un epilettico che
sta per soggiacere ad una crisi di grande male, perché lui soffriva di
epilessia.
Sigmund Freud gli riconosce di essere un grande scrittore: “ … il
suo posto viene subito dopo quello di Shakespeare [e Freud aveva una
venerazione per Shakespeare]. I
fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che sia mai stato scritto,
l’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura
universale, un capitolo di bellezza inestimabile [e come dargli torto?]”. (Sigmund Freud, Dostoevskij e il parricidio, 1927, in Opere, Vol. 10, p. 521, Boringhieri, Torino).
Ma sul messaggio morale che lo
scrittore russo veicola e affida ad Aleksej, che designa come protagonista del
suo romanzo, anche se ciò non fa degli altri personaggi principali delle figure
secondarie, anzi al di la degli intenti si fatica a distinguere un vero
protagonista e diventa importante l’attore che è in scena in quel momento,
perché viene rappresentato in tutta la sua grandezza e magnificenza, Freud fu
più critico, fino alla durezza, nel commentarlo.
Freud che era un ateo convinto,
non poteva accettare il semplicistico ed edulcorato messaggio religioso che
Dostoevskij veicola attraverso Aleksej e lo starec
Zosima, infatti tuona: “Anche il
risultato finale del conflitto morale di Dostoevskij non è affatto glorioso.
Dopo le lotte più violente per riconciliare le pretese pulsionali
dell’individuo con le esigenze della comunità umana, egli finisce con
l’approdare ad una posizione retrograda: si sottomette sia all’autorità
temporale sia a quella spirituale, venera lo zar, ma anche il Dio cristiano,
coltivando il più gretto nazionalismo russo: è un approdo, questo, al quale
sono giunti, con minor fatica, spiriti meno eccelsi del suo. È
qui il punto debole di questa grande personalità. Dostoevskij non è riuscito a
diventare un maestro e un liberatore dell’umanità essendosi associato ai suoi
carcerieri”. (Ibid., p. 521-522).
Il giudizio di Freud è
eccessivamente impietoso, se fosse vero ciò che scrive noi leggeremmo con molto
meno entusiasmo le opere del grande scrittore russo e molte cose ci
apparirebbero incomprensibili, essendo mutati i valori (lo zar non esiste più e
il potere religioso è fortemente ridimensionato in Russia) in cui egli crede;
in realtà ciò che rende Dostoevskij ancora attuale e avvincente non è il
candore con cui ammanta Alesä e il miele che trasuda da tutta la
vicenda umana dello starec Zosima, ma
il tormento interiore fra tutti i fermenti emotivi, politici e culturali che
spazzavano la Russia di allora e che nella loro archetipicità anche il mondo
attuale, come il buran spazza la
steppa siberiana.
Dostoevskij è un uomo e uno
scrittore profondamente cristiano, legato alle sue tradizioni religiose, che
però ha fatto sue anche tutte le obiezioni, le critiche e la repulsione
profonda che legioni di atei e di nichilisti avanzavano con sempre maggiore
successo, e che rendevano il suo essere cristiano un tormento indicibile;
d’altronde gli scrittori e i pensatori cristiani del XIX° secolo furono tutti
senza eccezione, molto tormentati: basti pensare a Kierkegaard, Manzoni, Tolstoj, Wilde, Rilke, Pascoli, Svevo, Fogazzaro, Carducci, Pirandello, Deledda, Mann, Hesse.
Lo stesso discorso vale per la
sua fedeltà al potere costituito, alla fine un uomo può sempre risolversi ad
abbracciare i suoi stessi carnefici, e come altro chiamare chi ti condanna a
morte e prima di commutarti la condanna in confino obbligato ti fa giungere
fino al patibolo?, ma farà tutto questo non senza forti lacerazioni interiori e
non senza estrema ambivalenza.
Il suo stesso impeto rappresenta
per Dmitrij il precipizio, mentre Ivan si accorge che eliminando Dio non
elimina il suo senso di colpa, anzi lo accresce, perché Dio si fa garante delle
azioni degli uomini, attenua la portata di quelle malvage, e rappresenta
qualcuno autorevole a cui chiedere perdono e che può altrettanto autorevolmente
assolverti da ogni tuo peccato con formula plenaria, se non c’è alcun Dio non è
vero che non ci sia più alcun peccato, è vero anzi che il peccato diventa
assoluto e irreversibile, nessuno può più perdonarti se hai ucciso tuo padre.
Ivan è costretto a sdoppiarsi, ad
inventarsi un diavolo … invero molto povero e molto misero, a cui confidare la
propria colpa … egli non ha voluto capire, ha preferito essere stolido e ottuso
mentre il delitto veniva organizzato, ha preferito non capire che stava
diventando complice, e che con la sua fuga in sostanza permetteva che
avvenisse…un delitto ancora più vile di chi l’ha commesso materialmente o di
chi c’è mancato un pelo che non l’avesse commesso lui, sarebbe bastato trovare
Grušen’ka in casa col padre e il primo colpo di pestello da mortaio si sarebbe
abbattuto sulla testa del proprio genitore fino ad ucciderlo, invece che su
quella di Grigorij.
Ma Ivan non impazzisce solo
perché progressivamente prende coscienza di essere stato complice consenziente
del delitto, impazzisce ancora prima e di più perché non si da pace del rifiuto
di Katerina Ivanovna ad accettare il suo amore, non riesce a capire e ad
accettare come possa una donna di classe come lei essere sempre più innamorata
di quell’animale di suo fratello Mitja, sempre più innamorata quanto più lui
diventa abietto poi, da amarlo non soltanto quando la deruba dei suoi soldi,
quando la tradisce, quando dichiara di voler sposare la sua amante, ma persino
quando sono ormai entrambi “matematicamente certi” che sia stato lui
l’assassino di suo padre.
Fin dalla prima lettura di questo
romanzo mi identificavo con Ivan Karamazov, mi entusiasmava la sua filosofia
atea, il suo modo di porsi, la sua verve dialettica, le pagine più belle,
quelle che ho ricordato in maniera indelebile, sono quelle in cui egli narra
del Grande Inquisitore, ma forse provavo simpatia per lui anche per il suo
amore disperato per Katerina Ivanovna.
Credo che ciascuno di noi abbia
fatto l’esperienza di amare non amato, quando questo accade, quando cioè
qualcun altro è preferito a te nel cuore di colei che ami, è umano cercare di
capire perché, e chi è questo rivale che ha prevalso su di te o che ti ha
soppiantato; tutto ciò avviene inevitabilmente attraverso l’attribuzione di
pesi e di misure, a te e all’altro, e questo ti da l’illusione di capire il
perché: l’ha preferito perché è più bello, più ricco, più affascinante, più
divertente … è strano, poterti dire che l’altro ha qualcosa in più di te è
ugualmente doloroso, ma più consolante.
L’eventualità inaccettabile si
verifica quando alla fine della tua disamina, stabilisci che l’altro è
palesemente meno di te, quando l’altro non ha alcuna qualità con cui possa
predominare al tuo confronto, quando anzi è chiaramente e nettamente inferiore
rispetto a te … questa eventualità ti fa contorcere dal dolore come un serpente
che si avvolga in una spirale quando viene colpito, perché una cosa così non ha
senso di esistere.
Se per il disgraziato che perde
l’amore tutto questo è doloroso e catastrofico, dal punto di vista di chi
guarda tutto questo suo affannarsi a far paragoni dall’esterno, tutto diventa
ridicolo, quand’anche riuscisse ad identificarsi col malcapitato; non mi viene
in mente niente di più calzante del film di Troisi Pensavo che fosse
amore invece era un calesse quando Tommaso cerca conferme disperate circa i
difetti del suo rivale Enea e trova invece, inspiegabilmente per lui, solo
apprezzamenti persino dai suoi amici più cari.
Naturalmente, tutti questi
paragoni sono semplicemente assurdi e ridicoli, ciascuna persona è diversa da
un’altra, è unica, il pensare di poter valutare le persone in base ad alcuni
parametri che tutti possiederebbero chi più e chi meno non trova alcun
fondamento ed è un’operazione senza senso, ma che distoglie temporaneamente dal
dolore del rifiuto; nemmeno io qui riuscirò a farne a meno, perché il romanzo
ne è infarcito, tanta follia e tanta sofferenza derivano proprio dal quel
sentirsi “più” o “meno”, e senza questi avverbi comparativi non si
comprenderebbe la trama.
Pensate, persino il primo
peccato, la prima trasgressione, il nutrirsi del frutto dell’albero del bene e
del male avviene perché non ci si vuol sentire da meno di Dio, si vuole essere
come lui; e il primo omicidio, Caino che uccide Abele, è perché non si accetta
che l’altro sia preferito, sia considerato migliore di noi.
Ivan si rende conto che per una
donna come Katerina l’uomo più adatto per poterle stare al fianco è lui e non
il fratello Mitja, egli è pari a lei per bellezza, per intelligenza, per
cultura, per maniere raffinate, per orgoglio … e ciò non lo capisce solo lui,
lo capisce anche lei, lo capisce così tanto che dopo essersi accorta di amarlo
esclama con rammarico: “…mi era penoso che un uomo del suo calibro potesse
sospettare che io amassi ancora quell’altro …Io volevo cadere ai suoi piedi per
la venerazione …” (p. 1039).
E lo stesso Dmitrij sembra
convinto fin dall’inizio della diversità fra lui e suo fratello Ivan e che
probabilmente egli sarebbe stato il marito più adatto per Katerina Ivanovna, ad
Alëša egli dice infatti: “Quanto a Ivan, capisco benissimo quanto adesso debba
maledire la natura, a maggior ragione con l’intelligenza che si ritrova! A chi,
a che cosa viene data la preferenza? Viene data a un mostro, che anche qui,
sebbene sia fidanzato e abbia addosso gli occhi di tutti, non riesce a porre
freno alla propria depravazione, e questo in presenza della sua fidanzata!
Ecco, viene data la preferenza a uno come me, mentre lui viene respinto. Ma per
quale motivo? Perché la fidanzata vuole violentare la propria vita e il proprio
destino per gratitudine! Che assurdità!” (p. 165-166).
Anche a Katerina Ivanovna non
viene risparmiata l’onta di essere soppiantata da una donna, Grušen’ka, che è
in tutto meno di lei: meno bella, anzi, per quanto avvenente, Dostoevskij
descrive quest’ultima come una bellezza ordinaria, di quelle matronali, alla
russa, prosperosa e piena di curve, ma di quelle che già a trent’anni si
sformano e diventano delle mongolfiere, con qualche irregolarità nei lineamenti
per il resto di una bellezza selvaggia, mentre Katerina Ivanovna è tout court una “bellezza da mozzare il
fiato”, sempre e comunque e che quando si arrabbia diventa ancora più bella.
Katerina è anche più fine, più
colta, più intelligente, più amabile di Grušen’ka, solo un mostro, un animale
come Mitja Karamazov poteva preferire la seconda alla prima; Katerina non
riesce nemmeno a sospettare che l’amore/odio che lei inocula a Dmitrij potrebbe
uccidere un rinoceronte soffocandolo e che forse Grušen’ka è solo un po’ più
umana di lei, che finisce per spezzare gli unici due uomini della sua vita,
facendo condannare l’uno come assassino e patricida e facendo piombare l’altro
nella follia.
Certo, Dostoevskij lascia un
margine di speranza a chiusura del suo romanzo, molto probabilmente Mitja
riuscirà a scappare prima di arrivare in Siberia, grazie al piano e ai soldi di
Ivan stanziati per corrompere le guardie, e Ivan si riprenderà dalla sua
follia, in fondo, se non vado errato, sembra trattarsi di un primo episodio di
psicosi delirante acuta, quegli accessi o bouffées
accompagnati da delirio acustico e visivo e da stati oniroidi, con esordio
improvviso e tanto acuti ed allarmanti quanto, nella loro gravità e
drammaticità, tendenti a sparire con la stessa repentinità con cui sono
comparsi.
Questo naturalmente non vuol dire
che Ivan soffra di una sciocchezza, in realtà l’esordio delle bouffées è comunque inquietante, ed in
presenza di altri shock emotivi, potrebbe ritornare in modo più intenso e
perdurare più di prima, esse possono essere porte girevoli che si affacciano
sulla follia; inoltre non va dimenticato che esiste una familiarità, la madre
di Ivan era soprannominata la klikuša
ed è morta completamente folle.
La grande sconfitta di questo
romanzo è proprio lei, alla fine, la nostra anima bella, Katerina Ivanovna, che
può finalmente amare Ivan Karamazov perché questi è pazzo, mentre non poteva
amarlo quando non lo era, quando lui non aveva bisogno di lei, mentre non ama
più Mitja, che col suo amore strampalato per
Grušen’ka, con i suoi gesti da mascalzone, col suo disprezzo negli occhi
per chi si stava vendendo a lui per quattromila e cinquecento rubli, con
l’essere dietro solide sbarre e in procinto di andare in Siberia o forse negli
Stati Uniti con la sua nuova donna, si è affrancato completamente da lei,
mentre prima quando era solo, disperato e bisognoso avrebbe dedicato tutta se
stessa per salvarlo.
Anima bella è colei che è
emotivamente insensibile, quella che davvero non riesce a decifrare i
sentimenti propri e quelli altrui, quella che non sa se ama o se odia, e non sa
quali sentimenti davvero stia provando e non crede a quelli che qualcuno le
dice di provare per lei (e come potrebbe capire ciò che non ha mai provato?), perché
tutto in lei è un confuso, magmatico, caleidoscopico susseguirsi di vaghe ed
impalpabili sensazioni.
Anima bella è chi pare indifferente
alle conseguenze dei suoi gesti, può dire di amarti e rinnegarlo come niente
solo un istante dopo, odiarti e vanificare il suo stesso odio subito dopo come
se niente fosse mai successo, è colei che può pugnalarti senza che nemmeno se
ne accorga, colei che mostra un’infinità bontà, candore e soavità, e sembra non
capire che la sua bontà uccide più di qualunque cattiveria.
Tutto ciò che compie Katerina
Ivanovna è ispirato dalla sua virtù, non c’è niente che non sia bontà in uno
staro di purezza assoluto, è per bontà che lei si offre in olocausto al mostro
per salvare il padre, è per bontà che vuole salvare Dmitrij da se stesso, che
gli da i soldi, che tiene continuo convegno con i fratelli di lui perché
intervengano, che vede in casa sua la sua rivale tentando un accordo con lei, è
per bontà che si avvicina ad Ivan, si preoccupa per lui e, infine, lo ama.
Non importa poi se tutti coloro
che lei beneficia o che ama precipitino sempre di più, non importa se il suo
amore susciti in tutti odio e rabbia, non importa se succederà la catastrofe
del patricidio, in cui nessuno dei fratelli può dirsi davvero estraneo: o
perché ha materialmente commesso il delitto, o perché è stato molto vicino a
commetterlo lui, o perché l’ha desiderato anche se non l’ha commesso, o perché
se n’è fatto complice non volendo comprendere i disegni dell’assassino e
lasciandogli campo libero col suo viaggio o inseguendo altre faccende.
Dostoevskij pare presupporre che
in realtà dietro la sua bontà ci fosse cattiveria (l’orgoglio), dietro l’amore
l’odio, come se questo sentimento fosse più antico, primigenio rispetto
all’amore e alla bontà, pare suggerirci che l’amore frustrato o l’amore che
pensiamo a torto o a ragione non sarà accolto si sia tramutato in odio, e
l’odio in amore … continuamente.
Io, più semplicemente, credo che
l’anima bella non sappia distinguere fra amore ed odio, e ciò che a lei sembra
amore può essere odio e viceversa, ciò che le pare un farmaco in realtà si
svela come veleno, ciò che per lei è carezza una pugnalata, e non sa
distinguere fra l’uno e l’altro, pur di continuare il suo gioco; l’anima bella,
infine, è colei che ha un destino fra i più tragici, perché è condannata a
distruggere sempre e comunque, con un accanimento senza pari, e non rendendosi
conto di distruggere, anzi è la prima a meravigliarsi che gli altri la
ricambino con la rabbia, tutto ciò che di bello le capita nella vita.