(Jacques Lacan, Il seminario. Libro
VIII, Il transfert 1960-1961, Einaudi, Torino, 1991, p. 59).
Qualche tempo fa scrissi questo post: Ah, che
sarà che sarà ... in cui accennavo al Simposio di Platone e
sottolineavo l’evento del singhiozzo di Aristofane, un problema sollevato
decenni addietro dal filosofo Alexandre Kojève, a cui Jacques Lacan aveva dato
una risposta in uno sei suoi Seminari.
Al mio caro amico Antonio che mi
chiedeva incuriosito quale fosse il motivo di questo singhiozzo, avrei dovuto
rispondere che Lacan ne aveva parlato nel suo Il seminario. Libro VIII, Il
transfert del 1960-1961; leggendo il testo direttamente avrebbe soddisfatto la
sua curiosità molto meglio di quanto possa fare io in poche righe.
Ma considerato che il libro costa 34
euro e che Antonio non è uno psicoanalista, quindi della concezione del transfert di Lacan potrebbe non importargli
molto, mi sono risolto a scrivere io due righe per lui e per quelli curiosi
come lui.
Perché poi un libro di 436 pagine in
semplice cartoncino debba costare 34 euro è un mistero, ciò che invece non è un
mistero è il fatto che alcuni individui strutturano la propria esistenza come
sacerdoti al servizio di un venerabile “maestro” (meglio se morto, ma anche molto
anziano va bene lo stesso), di cui si impegnano a divulgarne fedelmente il
verbo e a trattare ogni cosa che appartenga al suddetto maestro come se fosse
una reliquia … in tutto questo guadagnandoci sia in termini di potere, sia in
termini economici.
Jacques-Alain Miller, genero di Lacan,
stabilì una volta per tutte il testo dei seminari del suocero-maestro, stabilì
altresì quell’assurdità che non dovevano esserci note esplicative, nemmeno
quelle volte a tradurre i termini greci o latini, nemmeno quelle atte a far
cogliere dei riferimenti culturali che potevano essere scontate qualche
decennio fa, ma che ora non sarebbero rilevate.
E questa assurdità si ripropone anche
nei testi tradotti in italiano da Antonio Di Ciaccia, che è il curatore per
Einaudi dei seminari di Lacan, egli propone una asciutta traduzione del verbo
dal francese all’italiano, apprezzabile, ma incompleta; lasciando così ampio
spazio agli esegeti del verbo lacaniano, a gente cioè che sull’interpretazione
del pensiero di Lacan ha basato tutta la sua carriera e il proprio successo.
Dunque, per capire Lacan dovresti
acquistare i costosi libri Einaudi con l’opera completa del maestro, poi
sarebbe meglio attingere a Lacan direttamente in lingua originale, visti gli
innumerevoli giochi linguistici che questi improvvisava e che vengono
irrimediabilmente perduti anche nella traduzione più accurata e, infine, se tu
avessi comunque la sensazione di non averci capito granché di Lacan, perché egli
parlava per enigmi più dell’oracolo di Apollo in Delfi, in maniera cioè tutt’altro
che facile, potresti sempre acquistare uno degli innumerevoli libri di chi
cerca di renderti più accessibile il pensiero del maestro francese.
Senza stare tanto a girarci intorno e
senza tergiversare ulteriormente, penso di affrontare questo problema prendendo
il toro-Lacan per le corna; egli infatti è lapidario nella risposta e io ne
riporto le testuali parole: “ … se Aristofane ha il singhiozzo, è perché
durante tutto il discorso di Pausania si è sbellicato dalle risa, e che Platone
ha fatto altrettanto”. (J. Lacan, ibid., p. 70).
Più che sbellicarsi dalle risa, che
sarebbe stato irrispettoso e indelicato in un simposio, soprattutto in
considerazione che Pausania è l’amante del festeggiato, di Agatone, e molto
probabilmente anche lo sponsor del banchetto, il vero padrone di casa insomma, io
direi che Aristofane si è dovuto, piuttosto, trattenere dal farlo, per questo
adesso ha il singhiozzo.
D’altronde il muscolo diaframmatico
partecipa sia nella cosiddetta risata di pancia, sia negli spasmi del
singhiozzo, e non è ardito ipotizzare che il singhiozzo possa essere una risata
soffocata, anche se non è solo questo e bisognerebbe indagare caso per caso.
Io sono d’accordo che anche Platone ha
dovuto trattenersi dal farlo mentre gli dava la parola nel suo libro: infatti
tutto il discorso di Pausania è trattato con eleganza e rigore stilistico, è
subito dopo che avviene qualcosa che lascia trasparire a livello linguistico il
singhiozzo di Platone.
Il grande filosofo, come fa notare Lacan,
dedica ben sedici righe del suo testo più conosciuto a come fermare il
singhiozzo di Aristofane, a come smettere cioè di deridere il discorso appena
ascoltato, a come reincanalare il dibattito entro i canoni della serietà,
seppure della serietà lieve di un banchetto.
Comincia a fare assonanze comiche
degne di Aristofane quando parla della pausa di Pausania, e il suffisso “paus”
è ripetuto sette volte, così come è ripetuto in continuazione anche il termine
tentare, nelle sue varianti di tentante, da tentare, ecc.
Per non parlare del gioco di parole
fra “farà” o “non farà” qualcosa, il “che io farò ciò che hai detto che farò”,
in cui anche il termine ποιήσω (fare, creare, generare) [185 d] viene ripetuto
ossessivamente in omofonie ed isologie che creano un effetto comico e spassoso
come in alcune filastrocche.
Ma non voglio qui fare l’esegesi del
testo platonico né mostrarvi che so ancora tradurre dal greco antico,
sfoggiandovi la mia erudizione (o quella di Lacan), volevo soltanto farvi
capire come qui Platone si sta divertendo, sta mettendo cioè in scena
Aristofane, lo stile popolare e spesso triviale usato nelle sue commedie, per
dileggiare il discorso di Pausania appena concluso.
Ci sono molte cose da spiegare nel
Simposio, cose che non sono affatto chiare: ad esempio chi è Pausania, che è
colui di cui si ride, e cosa rappresenta; chi è Aristofane è più semplice
dirlo, perché le sue commedie sono giunte fino a noi, ma perché si trovava li
in quel convivio non è affatto chiaro.
Aristofane era un commediografo di
ispirazione conservatrice, che con le sue opere aveva spesso attaccato e
ridicolizzato Socrate (ad esempio ne Le
nuvole) perché a suo parere rappresentava il nuovo, l’ondata di neo demagoghi
che con i loro sofismi, con la progressiva distruzione delle antiche tradizioni
e del rispetto per gli dei, stavano distruggendo la polis di Atene.
Egli sosteneva gli stessi argomenti
che Anito, Licone e Meleto usarono per accusare Socrate di fronte ad una giuria
di 501 cittadini ateniesi, e cioè il fatto che l’insegnamento socratico
corrompesse i giovani e disgregasse il rispetto che si deve alla tradizione e
al sacro (non è un caso che Alcibiade, prototipo per eccellenza del discepolo
socratico, fosse stato accusato di empietà per aver mutilato le erme, cioè
delle teste divine scolpite in pilastrini quadrangolari che erano considerate
sacre e il gesto in sé era considerato un dileggiare il divino e i valori
stessi in cui si riconosceva non soltanto la polis di Atene ma la grecità
tutta).
Aristofane era inoltre un comico, cioè
niente di più di un guitto, un saltimbanco, uno che a sentire Aristotele traeva
diletto dalle cose e dalle persone vili, uno che parlava alla pancia del
popolo, e basta soltanto confrontare il testo di una qualsiasi commedia con
quello di una qualsiasi tragedia antica per rendersi conto che le cose stessero
davvero così.
Mentre il poeta tragico veniva
osannato, portato in trionfo, premiato (ne abbia un esempio in Agatone che
proprio con quel simposio sta festeggiando la sua vittoria negli agoni delle
Lenee, oppure alle Grandi Dionisie del 416 a.C.), il poeta comico, lo scrittore
di commedie era considerato un attore o scrittore di infima categoria, uno che
faceva ridere e basta.
Considerazione, questa, che si è
mantenuta fino ai nostri giorni, passando per le fallofòrie dionisiache, la
commedia attica, i fescennini romani, le atellane, la pantomima, la commedia
dell’arte, le compagnie itineranti, fino all’attuale distinzione fra opera
impegnata seria e opera buffa fatta solo per intrattenere e far ridere ... in
altre parole Aristofane era il Checco Zalone dell’antichità e Le Rane non era
altro che il cine-panettone dell’epoca.
Che ci faceva uno così in un simposio
offerto da Agatone, poeta epigrammatico e drammaturgo, sincero ammiratore di Socrate,
e in cui era invitata tutta la ristretta cerchia del maestro, è difficile dirlo
e non può essere spiegato soltanto col successo che questi riscuoteva nei
teatri; è molto probabile che debba la sua presenza nell’opera di Platone
proprio al fatto che questi avesse bisogno dell’elemento comico, di
inframmezzare i discorsi seri dei commensali (appositamente scelti da lui per
esporre l’argomento in tutta la sua complessità) con discorsi più lievi e
gradevoli, così come le commedie inframmezzavano la rappresentazione delle
tragedie.
Però come possiamo spiegare, invece,
che sia proprio Aristofane quello che fra i commensali fa il discorso più
interessante, quello più degno di nota, mentre quello di Fedro è molto ingenuo,
giunge appena alla sufficienza per un discepolo di Socrate, quello di Pausania
è involontariamente comico, anzi ridicolo, quello di Erissimaco è troppo
tecnico, forse a causa della deformazione professionale, infatti egli è medico,
e quello di Agatone è deludente, povero, quasi infantile, indegno di un poeta
tragico appena premiato.
Ma nel suo caso questa povertà sembra
voluta, come se avesse scherzato e avesse infarcito il suo scherzo con qualcosa
di serio da scevrare, di non facile individuazione insomma, infatti egli
conclude con queste parole: “Questo, o Fedro, è il mio discorso, da offrire in
voto al dio; composto in parte di scherzo, in parte di misurata serietà, per
quanto ho saputo” (197e).
Se chiedete un po’ in giro a chiunque
di dirvi qualcosa sul Simposio o sull’amore platonico, a parte la banalità
dell’amore senza sesso che veicolano persino gli insegnanti di filosofia dei
licei, in molti vi citeranno il mito dell’androgino, come se lo avessero
esposto Socrate e Platone, e non Aristofane … un guitto.
In molti ricorderanno quegli esseri
sferici, quadrupedi e quadrumani, che invece di camminare rotolavano, con
doppia testa e doppi organi sessuali, che appartenevano non ai due sessi che
conosciamo oggi, ma al sesso maschile, che si originava dal sole, se entrambi
gli organi erano maschili, al femminile, che derivava dalla terra, se entrambi
gli organi erano femminili, e all’androgino, di origine lunare, se erano
presenti sia gli organi sessuali maschili, sia quelli femminili.
Questi esseri erano forti, potenti,
vigorosi, terribili, superbi, ambiziosi e cercarono di scalare il cielo e di
sfidare gli dei; Zeus e i numi in consiglio decisero di non sterminarli
fulminandoli come avevano fatto con i giganti, ma di punire la loro tracotanza
degradandoli, tagliando a metà ciascuno di loro come si fa con un frutto o con
un uovo sodo.
Una volta dimezzati gli uomini,
ciascuna di queste parti anelava a ricongiungersi con l’altra, cercando di
accoppiarsi con lei, ma non vi riusciva perché gli organi sessuali non erano
posizionati anteriormente, occorse un secondo intervento divino perché ciò
potesse accadere.
Fu così che da allora chiunque derivi
da una sfera omosessuale cercherà il suo omologo, un uomo se egli è un uomo,
una donna se è una donna, e chiunque, invece, derivi da un essere androgino,
cercherà di accoppiarsi con un esponente dell’altro sesso … il punto debole di
questo discorso è, ovviamente, il fatto che trascura la sterilità delle coppie
omosessuali, per cui anche l’omosessuale deve derivare dall’androgino
uomo-donna, e ciò annulla la spiegazione delle inclinazioni sessuali
dall’antica derivazione di queste specie umane.
Platone si avvicina in parte alla
filosofia di Empedocle in cui il simile ama il simile, gli omologhi si
attraggono e gli eterologhi si respingono, e si allontana del pensiero di
Eraclito in cui governa il conflitto (“Al timone di tutto la folgore” DK 22 B
64), dove invece sono gli opposti ad attrarsi, o meglio, l’amore è un
equilibrio di opposti così come lo è lo strumento per cacciare o per ferire che
chiamiamo arco e quello di piacere che chiamiamo lira (DK 22 B 51): entrambi
devono la loro funzione di vita o di morte alla contrapposizione fra la
flessibilità e la durezza del legno e l’elasticità delle corde.
Però dal punto di vista mitologico,
plastico e di stimolazione della fantasia il discorso di Aristofane ha avuto ed
ha ancora molto successo, perché spiega l’amore e il desiderio come dettati da
una carenza, da un vuoto, da un’incompletezza, perché da come scopo ultimo
dell’amore il fare di due esseri una sola carne, e il grande potere evocativo
del fatto che l’amore non è solo un congiungimento, ma un ricongiungimento, che
da qualche parte su questa terra esiste un’anima a me affine, un’anima gemella,
a me destinata da disegni divini o da leggi naturali, che esiste cioè la mia
altra parte del cielo, l’altra metà della mela edenica.
Anche se vogliamo crederci con tutte
le nostre forze al fatto che da qualche parte esiste indubbiamente un essere a
me destinato, l’altra metà di me, può succedere che in alcuni casi veniamo
assaliti dai dubbi che le cose non stiano esattamente così.
Un mio giovane paziente dopo essere
stato lasciato dalla ragazza che era l’unico grande amore della sua vita, mi
disse sconsolato e con una punta di autoironia che se davvero esiste l’anima
gemella difficilmente te la vengono a mettere giusto come vicina di casa,
troppo semplice, già da questo avrebbe dovuto sospettare.
Certo, qualche dubbio ti viene, si
insinua, come il serpente si insinuò fra Eva, Adamo e Dio attraverso
l’attrazione che esercitavano i frutti dell’albero del bene e del male e la
tentazione di infrangere l’unico tabù divino, l’unico divieto nel tedio
infinito del paradiso terrestre.
Anche oggi siamo fortemente convinti
di amare e di desiderare perché ci manca qualcosa, perché vogliamo completarci
attraverso l’altro, perché avvertiamo un vuoto, una mancanza; Jacques Lacan era
convinto che il motore dell’asse conativo che conduce l’uomo dal bisogno al
desiderio, dal desiderio alla domanda, fosse da individuare nella béance, cioè nella mancanza originaria
che avverte il bambino quando si distacca dalla madre e non si crogiola più in
quella sorta di simbiosi beata che non viene permeata dal dolore, dai bisogni,
dalla noia, dall’affanno, dall’angoscia.
Compito del padre è quello di
interdire il ricongiungimento col corpo materno, quella che viene chiamata la
castrazione simbolica (non è necessario essere maschi per temere la
castrazione), in questo modo il bisogno si tramuta in desiderio, gli oggetti a
cui chiediamo la gratificazione si moltiplicano, perché oggetto del bisogno è
il cibo, mentre oggetto del desiderio è il pollo che cucinava mia madre, gli
spaghetti al pomodoro che mi faccio io, il risotto al radicchio che trovo in
quel particolare ristorante, la torta alle mandorle di zia Benedetta, oggetto
del bisogno è solo la madre e nessun altro mentre oggetto del desiderio può
essere quasi chiunque lungo una catena ininterrotta di significanti dove l’uno rinvia
all’altro e tutto si ricongiunge all’oggetto originario.
Solo i due discorsi di Socrate e di
Alcibiade possono competere ed elevarsi (e Platone era convinto che lo
superassero) col discorso di Aristofane, anche se quest’ultimo è certamente
molto più evocativo ed ha colpito molto più in profondità l’immaginario
collettivo; e non è solo perché si tratta di un mito, perché anche Socrate
affida al mito la nascita di Eros, l’amore.
In occasione della nascita di Afrodite,
Penìa, la povertà, che essendo una divinità minore non era stata invitata al
banchetto degli dei e che stava elemosinando qualcosa fuori dalla porta,
approfittò sessualmente di Poros (l’ingegno o l’espediente), figlio di Metis
(la sapienza), che completamente ebbro giaceva disteso nei giardini di Zeus.
Solo in questo modo, infatti, Penìa
che era una dea vecchia e poco avvenente, poteva godersi le grazie di un
giovane di bello aspetto come Poros di cui era attratta, elemosinando l’amore
come elemosinava il cibo; da questa unione nacque Eros, l’Amore, e infatti come
poteva esserci una dea dell’amore appena nata senza che ci fosse l’amore?
Eros, dunque, secondo Platone è amante
del bello, ma: “… è sempre povero e tutt'altro che tenero e bello, come invece
ritengono i più, anzi è aspro, incolto, sempre scalzo e senza casa, e si sdraia
sulla terra nuda, dormendo all'aperto davanti alle porte e per le strade
secondo la natura di sua madre, e sempre accompagnato dall'indigenza. Invece
per parte di padre insidia i belli e i virtuosi, in quanto è coraggioso e
ardito e veemente, e cacciatore astuto, sempre pronto a tessere intrighi, avido
di sapienza, ricco di risorse, e per tutta la vita innamorato del sapere, mago
ingegnoso e incantatore e sofista; e non è nato né immortale né mortale, ma in
un'ora dello stesso giorno fiorisce e vive, se la fortuna gli è propizia, in
altra invece muore, ma poi rinasce in virtù della natura del padre, e quel che
acquista gli sfugge sempre via, di modo che Amore non è mai né povero né ricco,
e d'altra parte sta in mezzo fra la sapienza e l'ignoranza” (203c-d-e).
A malincuore tralascio il bellissimo
discorso di Socrate e l’apparizione di Alcibiade, completamente ebbro, che fa
anch’egli un discorso interessantissimo sull’amore, calandolo nella concretezza
del rapporto fra egli e Socrate e togliendolo da quel limbo teorico, metafisico
quasi, dove l’avevano collocato tutti, Socrate compreso.
Può essere importante sapere che Lacan individua una complessa dinamica amorosa nel comportamento di Alcibiade, che non sarebbe geloso di Socrate, di cui si dice innamorato e di cui parla superando ogni pudore o ogni limite di decenza (anche per quei tempi), bensì di Agatone, infatti invece di scalzare quest'ultimo dl triclinio in cui era disteso a fianco a Socrate, scalza invece lo stesso Socrate, facendo finta di non averlo visto, per stare da solo con Agatone.
(SEGUE).
Argomenti importanti. Come ad esempio quando tratti l'argomento del cibo. Ho molti ricordi di infanzia e gioventù a Genova quando mia madre e le zie cucinavano il baccalà (buonissimo, per carità) ma ne ho mangiato talmente tanto (fra me, le mie sorelle e i miei cugini) che ero arrivato a non sopportarne più neanche l'odore. Da qualche anno ho ripreso ad apprezzarlo di nuovo, ma pur sempre con una certa moderazione. Tempo fa ti avevo scritto che con alcuni amici ci si vede un giorno alla settimana dove parliamo e discutiamo di filosofia al ristorante (i ristoratori ci fanno sempre un prezzo da amici, e in più gli portiamo nuovi clienti). Con la nostra tutor - filosofa (fra le varie) abbiamo letto Lacan (molto bravo e interessante). Sino a ieri nel mio nuovo blog consigliavo "Socrate" di Hannah Arendt (http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/hannah-arendt/socrate-9788860307590-1631.html) stampato nel 2015 e da leggere (ho cambiato link con Memorie di Adriano). Un salutone e alla prossima
RispondiEliminaDimenticavo: le foto sono come sempre molto belle ed evocative.
RispondiElimina@ Accadebis,
RispondiEliminaottimo il binomio fra filosofia e gastronomia, i greci antichi per finezza o per educazione non parlano del cibo di cui si nutrono, ne parla appena Esiodo ne Le opere e i giorni, per il resto dobbiamo rivolgerci ad altre fonti per sapere come si nutrivano. io invece lo trovo un argomento altrettanto nobile del più nobile dei pensieri. Trovo che i libri che proponi siano degli buoni suggerimenti di lettura, saranno sicuramente apprezzati dagli altri amici di blog.
Al baccalà ho dedicato due post in passato, avrei anche voluto aggiungere la ricetta del baccalà alla vicentina (confidatami direttamente da alcuni membri della Confraternita del baccalà http://baccalaallavicentina.it/), ma mi era sembrato che già i primi due post non avessero riscosso molto successo.
Io ho iniziato ad apprezzare il baccalà da quando vivo in Veneto, qui è quasi una religione per la cucina veneta; a casa mia si cucinava bollito con aromi o impanato in una leggera frittura ma, dal momento che a mio padre non piaceva molto il pesce, lo condiva pesantemente con olio d’oliva, limone e menta, da perderne ogni traccia di sapore di pesce.
I miei amici veneti ancora inorridiscono quando mi vedono tagliare il limone da strizzare su ogni tipo di pesce o quando mi sentono chiedere altro limone al cameriere se siamo in qualche locale … ma ancora oggi non riesco a mangiare il pesce cucinato in un certo modo senza il limone.
Grazie per i tuoi apprezzamenti e per i tuoi passaggi.
Ciao
mi aspettavo una spiegazione analitica sul singhiozzo di Aristofane, come si evinceva dal titolo, invece tratta di tutto il resto del discorso di Aristofane nel simposio.
RispondiEliminaChe vuol dire "una spiegazione analitica sul singhiozzo"? Volevi un trattato fisiologico sul singhiozzo, sapere i muscoli interessati, una radiografia, una tac, riesumare i resti di Aristofane e fare un'indagine autoptica?
RispondiEliminaA me sembra di aver approfondito abbastanza l'argomento.