«Ragionando, sarei forse riuscito
a convincere la mia mente, ma non il mio sangue, ed era il mio sangue che mi
teneva in vita, era il mio sangue che mi scorreva dentro, dicendomi che mi ero
sbagliato. Mi abbandonai al mio sangue e lasciai che mi trasportasse fino al
mare profondo dei miei inizi. […]. Questo è l’oceano e questo è Arturo.
L’oceano è reale e Arturo crede che lo sia. Poi volto le spalle al mare e non
vedo altro che terra. Continuo a camminare e la terra si estende fino
all’orizzonte. Un anno, cinque anni, dieci anni, senza vedere il mare. Cos’è
accaduto al mare, mi dico? Il mare è qui, rispondo, nel magazzino della
memoria. Il mare è un mito. Non è mai esistito. E invece c’era! Lo so perché
sono nato sulle sue sponde, mi sono bagnato nelle sue acque! Mi ha nutrito e mi
ha dato pace, e le sue affascinanti distanze hanno alimentato i miei sogni! No,
Arturo, il mare non è mai esistito. Non è che desiderio, il tuo, ma continua
pure a camminare nel deserto. Non lo rivedrai mai più, il mare. È un mito in
cui una volta hai creduto. Eppure sorrido, perché ho ancora il salino nel
sangue, e la terra, con tutte le sue strade, non riuscirà a confondermi, perché
il mio sangue tornerà alla sua sorgente. […] E la notte verrà, e con essa i
dolci oli delle mie marine, versati su di me da chi ho abbandonato per
inseguire i sogni della mia gioventù».
(John Fante, 1939, Chiedi alla
polvere, Einaudi, Torino, 2004, pp. 113-115).
Immagina di ricevere una
telefonata, sul tuo telefono di casa, da parte di uno sconosciuto che dice di
chiamarsi Alexandre e che ti chiama “Casa”, voce sensuale, baritonale, maschia,
accattivante, esprit vivace, densa di
ironia leggera che ti sfiora appena senza mai essere invadente.
Ti dice che ha ritrovato il tuo
cellulare che avevi perso, lui era li quando te ne sei andata via dopo aver
litigato con Coso li … Bruno … poi hai chiuso il cellulare e sei uscita di
corsa dimenticandolo, lui ha cercato nella tua rubrica, ha trovato “casa” e ti
sta chiamando … che facciamo? Lo rivuoi indietro, vero?
Aspetta, aspetta, ma se hai
assistito a tutto, se hai visto che dimenticavo il cellulare - obietti - perché
non mi hai rincorso per restituirmelo subito? Perché volevo rivederti - ti
replica lui sfacciatamente - sai se rincorri qualcuno e gli porgi il cellulare
che ha dimenticato, questa ti ringrazia, non ti guarda nemmeno in faccia e va
via, io voglio che mi guardi in faccia almeno.
Di certo questo tipo è impertinente, chi si
crede di essere per pretendere di rivedermi, per esigere un invito … a cena no,
con uno sconosciuto poi … a pranzo nemmeno … una colazione, un drink, un caffè
… neanche, forse un caffeuccio appena ... un bicchieruccio d'acqua ... forse; lei sbuffa, nicchia, sta sulla difensiva, ma ne è stuzzicata, lusingata,
sedotta, soggiogata dal suo osare, dalla sua sfrontatezza, e anche dai modi
garbati e intelligenti, ironici e divertenti che sfoggia questo tizio.
Alle donne piace il maschio
sfrontato, sicuro di sé, ma dovrete accompagnare la vostra sfrontatezza con
molta ironia e intelligenza, dovrete essere aerei e lievi nella vostra faccia
tosta, perché una certa pesantezza, una certa rigidità, l’imperdonabile errore
di credere davvero di essere irresistibili e non di recitarlo soltanto,
potrebbe cambiare improvvisamente il registro interpretativo e il vostro
atteggiamento diventa aggressività, arroganza, narcisismo.
Lui la vuole rivedere, vuole
un’opportunità, certo, questo è chiaro, il maschio è sempre chiaro in quello
che vuole, lei non si capisce cosa voglia, il suo cellulare? Sicuro, ma allora
perché indossare un vestitino nero molto sexy, il tacco d’ordinanza, perché
truccarsi e pettinarsi meticolosamente, perché quel passo deciso e sicuro che
ha solo una donna bella che sa di essere bella, tanto che per strada i maschi
si girano a guardarla … e siamo in Francia, non in Italia, perché tutto
l’insieme del suo portamento e del suo atteggiamento stona moltissimo con
quella borsa da lavoro, che porta con sé come se volesse far credere che si è
momentaneamente assentata dai suoi impegni per sbrigare una spiacevole
incombenza, un noioso contrattempo?
Quando accetti di andare ad un
appuntamento al buio ti aspetti di tutto, ma ciò che si presenta davanti ai
suoi occhi va al di la di qualsiasi aspettativa; Alexandre è un uomo bello,
affascinante, elegante, intelligente, divertente, travolgente, ironico, …, ma è
alto appena un metro e trentasei, compreso di scarpe, tacchi e sovratacchi.
Nonostante i suoi modi gentili e
divertenti, scatta immediatamente l’imbarazzo, oddio cosa faccio, faccio finta
di niente, come se la sua altezza non fosse importante, come se io vedessi
tutti i giorni uomini alti un metro e trentasei? Ma non è naturale, e
irrigidirebbe tutta la conversazione, come se ci trovassimo nella cella
frigorifera di un ristorante, in genere si evita ciò che si pensa di non poter
affrontare, e per l’interessato è più imbarazzante, più umiliante, che uno
faccia finta di non vedere la sua diversità: in genere il diverso è abituato a
persone che lo guardano troppo e con insistenza e a persone che non lo vedono
affatto o che fanno finta di non vederlo, a chi lo disprezza, lo odia e lo
prende in giro per la sua diversità, e a chi lo ignora o fa finta di non
vederlo o lo tratta come se fosse normale.
Questo film è il remake
dell’argentino Corazon de Leon (2013)
,
il titolo originale in lingua francese è
Un homme à la hauteur, tradotto
correttamente in spagnolo con Un hombre de altura, solo noi italiani
trasformiamo un “uomo” all’altezza in un “amore” all’altezza … è semplicemente
assurdo, perché un amore è sempre all’altezza, mentre noi uomini quasi mai
siamo all’altezza del nostro amore, quasi mai siamo all’altezza dei nostri
sentimenti.
L’argomento affrontato, ma questo
lo avrete già capito, è quello molto attuale della diversità; ogni popolo, ogni
civiltà, ogni villaggio, ogni clan, ogni gruppo costituito, ciascuno di noi ha affrontato
o deve affrontare prima o poi il tema della diversità: la diversità altrui,
degli altri che non siamo noi, non sono io, che incontrano, e dell’altro che
c’è in me, del diverso che sono io, della parte di me che non accetto (l'Ombra, avrebbe detto Carl Gustav Jung), che
cerco di non vedere e che puntualmente mi presenta il conto quando meno me lo
aspetto, magari credendo di risolvere un problema relazionale, so in realtà
risolvendo anche e soprattutto un problema intra-psichico.
In molte culture l’altro viene
inserito nel tessuto sociale a qualche titolo, non si cancella la sua
diversità, ma si struttura su di essa un senso per cui anche questa diversità
trovi il su posto nella società, e il diverso viva una vita dignitosa;
presso molti popoli il diverso è
“toccato” dalla mano divina, non lo si insulta e non lo si disprezza, trova il
suo posto insieme agli altri e troverà anch’egli il suo destino nel corso della
vita.
Ci sono culture, come quella
indiana, verticistiche e fortemente strutturate, dove ciascuno è in funzione
della sua nascita, del censo, dal gruppo da cui proviene, e la mobilità sociale
è nulla, dove il disprezzo per il diverso si mantiene inalterato, esistono
caste superiori, caste inferiori, “intoccabili”, ma nessuno di questi per
quanto disprezzabile esce dal tessuto sociale, ciascuno vi trova parte e vi
svolge la sua funzione, come se nel complesso ogni casta fosse un organo del
corpo sociale, come il cuore, il fegato e la milza sono i vari organi del corpo
umano, ciascuno con il suo compito, ciascuno che svolge funzioni superiori o
inferiori, ciascuno che elabora materie più o meno nobili.
Nella nostra civiltà, quella
occidentale, quella che ha radici ebraico-cristiane e greche, l’altro è sempre
un problema, gli spartani eliminavano fisicamente i loro neonati rachitici o deformi,
gli antichi romani li buttavano giù dalla Rupe tarpea, almeno nei secoli bui
della nascita dell’urbe, gli ateniesi non erano così crudeli, tuttavia ogni
anno durante le Tergelie (feste in onore di Apollo), la comunità sceglieva uno
dei suoi membri marginali, afflitto da deformazioni fisiche o da patologie
psichiche, e lo metteva al bando, accompagnandolo in processione alle porte
della città; questa procedura era chiamata kátharsis, cioè
"purificazione" e l'individuo cacciato era detto kátharma o perípsema
(immondizia), in questo modo la città pensava di liberarsi dalle contaminazioni
che potevano essere presenti nel gruppo sociale.
Non devo ricordarvi nel dettaglio
la caccia alle streghe, agli stregoni, le crociate contro gli eretici, quelle
in terra santa, i pogrom, le guerre di religione, la ghettizzazione dell’ebreo,
la cacciata dei mori, la lotta accanita contro i sodomiti, l’eugenetica, i
campi di concentramento, l’olocausto, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki
(l’avrebbero mai lanciata in Germania o in Italia?).
E quando queste aggressioni si
scatenano, escono fuori le idee più mostruose, le convinzioni più deliranti, i
fantasmi più spaventosi, gli incubi più terribili dell’umanità in cerca di
qualcuno su cui riversare tutte le proprie frustrazioni, le proprie paure, la
propria incapacità di vivere bene.
È sempre sospesa l’annosa
questione, mai risolta, se l’aggressività sia originaria e fondativa nell’uomo,
cioè se l’uomo gode nel fare del male ai propri simili e nel distruggerli, e
molte cose farebbero propendere per questa soluzione, come l’esistenza della
perversione, che riduce l’altro ad oggetto nelle proprie mani, di cui posso
farne ciò che voglio, l’inclinazione a fare guerre per futili motivi, la lunga
scia di sangue con cui è scritta la storia dell’umanità, le violenze gratuite e
terribili che si scatenano non appena la patina di civiltà che ci siamo dati
sbiadisce un po’.
Oppure, se l’aggressività dipenda
dalle frustrazioni: Hitler sarebbe stato solo un bravo pittore se solo fosse stato
accettato all’Accademia delle Belle Arti di Vienna? O dipenda dalla paura, più
abbiamo paura dell’altro più lo fuggiamo o, se la fuga non è praticabile, lo
aggrediamo come se ne valesse della nostra stessa sopravvivenza.
Alexandre è sempre stato così, è
rimasto piccolo di statura, non sa cosa vuol dire essere alto, non riesce a
fare la differenza, per lui la sua “normalità” sono i suoi 136 cm, i problemi
gli giungono dal rapporto con l’esterno, con gli altri, che lo considerano un
nano, un mezzo uomo, lo disprezzano (come se fosse dipeso da lui essere basso),
non lo accettano, non lo prendono sul serio.
Ma l’opinione altrui,
fortunatamente, non cambia in peggio il suo carattere, anche se necessita
comunque di qualche compensazione, di qualche talismano: guida una macchina
enorme, possiede una casa enorme, un cane enorme, una colf straripante, è un
architetto di successo, baciato dalla fortuna negli affari, si lancia col
paracadute, è bravo a giocare a ping pong, ed ha una voglia matta di stupire le
donne che lo interessano, di strabiliarle, di rimanere impresso nella loro
mente.
Diane, dal canto suo, è costretta
a fare i conti con la sua continua ambivalenza, da un lato c’è un uomo che la
attira sempre di più, dall’altro ci sono tutti quegli stereotipi su come
dev’essere l’uomo dei sogni, e certamente sull’altezza non si discute, l’uomo
da amare non può essere assolutamente al di sotto della media nazionale anzi, è
necessario che sia anche qualche tacca sopra se vuole avere qualche speranza.
L’altezza è una cosa importante
nella nostra cultura, diciamo che altezza è mezza bellezza, un principe azzurro che non sia alto non è nemmeno immaginabile, e tutti i film romantici ci
presentano un eroe dal metro e ottanta in su; quelli bassi al massimo fanno
ridere, nel rinascimento erano i buffoni di corte, oggi non potrebbero fare
nemmeno i cattivi al cinema, perché nessuno li prenderebbe sul serio.
Diane deve imparare ad uscire dai
suoi stereotipi, deve imparare ad amare quest’uomo così grande da essere il
migliore fra tutti quelli che ha mai conosciuto, e nello stesso tempo, il più
piccolo di statura: Diane deve imparare a porsi alla sua altezza, e quando dico
porsi intendo dire salire alla sua altezza; lui deve imparare ad accettare il
fatto che può essere amato esattamente come chiunque altro, senza che debba
fare i salti mortali per conquistare una donna.
Un film così è oggi possibile in
Francia, può nascere in Argentina, può essere proposto in Spagna, non trova
molta eco in Italia, dove imperano i film barzelletta, quelli in cui si ride
del diverso per esorcizzarlo, senza alcuna elaborazione della diversità e, alla
fine, se proprio vogliamo essere buoni, se proprio si tratta di una commedia,
dopo tanto deridere il diverso, troviamo per lui un lieto fine che gli si confaccia
… ridicolo pensare che un nano possa essere amato da una bella donna, meglio
fargli incontrare un’altra nana, magari carina, allo sfigato la sfigata, al
brutto la brutta, la down la down e così via.
Io questo film l’ho incrociato
per caso al Piccolo Edera, una piccola sala di un metro e trentasei … scherzo,
i cinepanettoni fanno più audiens, Checco Zalone fa la coda, esci da questi
film e hai il vuoto nel cervello, hai riso per un’ora e mezza di gente più
“sfortunata” di te, lieto che ci sia qualcuno più sfigato, hai il vuoto
pneumatico in testa e non vedi l’ora di mangiare hamburger e patatine e di
riprendere in mano il joystick della play station.
Il nostro cinema si è appiattito
sulla mancanza di idee, sulla ricerca della risata facile, sulla barzelletta
continua senza trama, a certi nostri attori comici se togli loro il romanesco
fanno piangere invece che ridere, è come togliere il sedere a Jennifer Lopez …
qualcuno ricorda qualche sua meravigliosa interpretazione? E se vi chiedessi
così a bruciapelo di che colore ha gli occhi? Scommetto però che nessuno ha
dimenticato il suo sedere, gli uomini perché lo desiderano, le donne perché
vorrebbero averlo uguale.
Attrice, cantante, show girl
passabile, passabilissima, godibile, godibilissima, ma senza quel meraviglioso
fondo schiena sarebbe ancora a cantare nelle feste paesane, fra birra,
hamburger e patatine; lei lo sa, e amministra oculatamente il suo talento.
In assenza di una cultura che
possa farti superare l’impatto col diverso, che in questi anni è drammatico,
cruciale e inevitabile, diverso che affrontiamo, purtroppo con le stesse
categorie mentali dei crociati che partivano per la terra santa o con quelle
più recenti dei fratelli Vanzina o di Checco Zalone, l’incontro con l’altro è
un percorso in cui dobbiamo essere disposti a cambiare in itinere anche più
volte gli stereotipi iniziali, dobbiamo essere disposti a costruire insieme
all’altro gli strumenti e i criteri su cui basare la relazione.
L’amore è un caso particolare,
anche se forse è il caso più complicato, di incontro col diverso, un partner,
sia che abbia il tuo stesso sesso, sia che abbia il sesso opposto al tuo, è un
ALTRO, e in quanto tale scatta anche con lui il dispositivo de conoscere e
dell’accettare la diversità.
Qualcuno pensa che dovremmo
sviluppare la comprensione, l’empatia, la tolleranza, qualche altro (di
ispirazione cattolica) crede che basti l’occhio per occhio biblico o l’ama il
prossimo tu come te stesso per regolare i rapporti amorosi: le prime soluzioni
sono troppo recenti perché la loro condanna sia definitiva, ma si sono già
rivelate ampiamente insoddisfacenti, mentre il Vecchio e il Nuovo Testamento in
diversi millenni di rodaggio sono riusciti a provocare conflitti più cruenti,
violenze inimmaginabili, incomprensioni stratosferiche.
Non si può ripagare l’altro con
la stessa moneta con cui ci paga lui, per il semplice fatto che io e l’altro
siamo diversi, e per ciascuno bisogna trovare la moneta giusta con cui poterlo
ripagare, l’occhio o il dente che più gli si addice; ama il prossimo tuo … non
si può obbligare nessuno ad amare un altro, e poi … è proprio il prossimo che
facciamo più fatica ad amare, tanto più mi sei vicino e tanto meno posso amarti
perché i sentimenti si complicano, all’amore (se esiste) si aggiunge l’invidia,
la gelosia, l’odio, l’aggressività, la vendetta per i torti ricevuti.
Non si può amare il prossimo, si
può amare solo il remoto, la parabola del buon samaritano insegna proprio
questo, l’uomo giaceva a terra, carico di botte, più morto che vivo, su una
strada non molto battuta; il sacerdote lo vide e passò oltre, lo vide anche il
levita e proseguì, una samaritano lo vide, si fermò e lo soccorse.
L’uomo a terra era israelita,
israeliti erano anche il sacerdote e il levita, troppo vicini, troppo prossimi,
non potevano soccorrerlo, quell’uomo era Israele percosso a morte, erano loro
stessi agonizzanti, non potevano soccorrersi da soli, un samaritano invece, che
non era considerato un giudeo, che a livello religioso era creduto come uno
scismatico, che persino Cristo invita a non predicare nelle terre di Samaria
(Matteo, 10,5), può vederlo, considerarlo altro da sé e soccorrerlo.
Ma allora, cosa rimane? Che tu
sia per me un enigma, sconosciuta e inconoscibile, un mistero che non conoscerò
mai, un mistero familiare però, un mistero che gravita intorno alla mia orbita
come io gravito nella tua, un arcano da scoprire, da esplorare, da conoscere,
qualcosa che si rinnova periodicamente come la fase lunare e la marea … “che tu
sia per me il coltello col quale frugo dentro me stesso” (Franz Kafka, Lettere
a Milena, Praga, 14 IX 1920).
Se solo pensassi che mi sei
perfettamente nota, mi afferrerebbe di te la noia e l’abulia, finché vedo in te
nuove terre di conquista, questo stimola la mia curiosità e la mia fantasia. Rimarrei con te anche tutta la vita, solo se tu fossi ogni giorno una donna diversa, eppure sempre la stessa donna, ed io sarei ogni giorno un uomo diverso, eppure sempre lo stesso uomo.