mercoledì 31 agosto 2016

TUTTI GIÙ PER TERRA









Una catastrofe di dimensioni bibliche, centoquarantadue lunghissimi secondi di puro terrore, un’eternità, basta guardare ciò che rimane degli edifici completamente accartocciati su se stessi, le case sventrate, le pareti sbriciolate come le mura di Gerico al suono delle trombe di Giosuè, per capire quale notte hanno attraversato gli abitanti dei luoghi colpiti dal sisma. 
Non ho mai visto un disastro simile né in Umbria, né in Molise, né in Emilia, né a L’Aquila, dove solo il centro storico era paragonabile a questa improvvisa polverizzazione dei corpi solidi … ti guardi intorno e il paesaggio sembra un presepe di cartapesta su cui sia appena passato sopra un elefante.
Ma i danni maggiori il terremoto li ha fatti dentro le persone, se potessimo fare una spettrografia dell’anima o, se preferite, della psiche, noteremmo devastazioni maggiori, cicatrici più profonde,  rispetto a quelle arrecate fuori alle loro cose, alle loro case, al loro paese, che graffiano le pareti invisibili del loro essere.
C’è certamente l’impotenza, l’essere stati in balia di una forza contro la quale non puoi niente, una forza che ti ha privato di cose, di persone e di affetti, che non hai saputo o potuto proteggere; c’è la fiducia che è precipitata anch’essa con l’ultima pietra che è rotolata a terra, con l’ultimo calcinaccio sbriciolatosi miseramente, coi i tanti corpi senza vita soffocati, schiacciati, lacerati.
A nulla sono valse le garanzie, le rassicurazioni, la speranza di avere amministratori più onesti, più coscienziosi, più in gamba, i lavori preventivi effettuati, la messa in sicurezza che avrebbe dovuto proteggerli meglio di quanto fossero protetti gli abitanti de L’Aquila solo pochi anni prima.








C’è l’assenza della fede, che si nota tutta nell’esclamazione disperata del vescovo di Rieti  mons. Domenico Pompili, quando invoca: “Dov’è Dio?”, ma si nota ancora di più nei tanti che si assemblano spauriti sotto un campanile diroccato, in una chiesa improvvisata, sotto la tonaca di un prete a chiedere inconsapevolmente perché? Si nota ancora di più in quei credenti o in quei prelati che da almeno due millenni spiegano qualsiasi cosa con la cattiveria, la malvagità o la debolezza dell’uomo pur di non intaccare la perfezione e la bontà del loro Dio.
Queste non sono espressione di una fede salda e consapevole, tutt’altro, sono le manifestazioni della constatazione che Dio proprio non c’è nella storia (non si tratta del fatto che Dio esista o no, l’esistenza si può dimostrare solo con la percezione sensoriale che nel caso di Dio sarebbe inutile, si tratta piuttosto dell’esserci o non esserci, dell’influire sul corso della storia o sui destini umani, e qui sarebbe difficile per chiunque dimostrare che un Dio c’è, che interviene con la sua Provvidenza e che, soprattutto, si tratta di un Dio buono).
Puoi pure pensare che Dio abbia mandato quell’orrenda sciagura perché gli amatriciani e i cittadini dei paesi limitrofi fossero malvagi, indegni, o che avessero perso la giusta via, ma è difficile dimostrare che fossero più malvagi, più indegni o più empi di tanti altri … in fondo Totò Riina è ancora vivo, Bernardo Provenzano è morto di vecchiaia e i tanti mostri che popolano il pianeta non vanno incontro ad alcuna punizione divina.








E i bambini? che colpa avevano i bambini che sono morti? No, chi invoca la punizione divina a spiegazione delle disgrazie ha perso già da tempo la fede e la ragione.
Se abbiamo perso la fede in Dio (anche se è difficile liberarsi di un Dio, non esistono praticamente popoli che non abbiano una qualche forma di divinità e Lacan ha dimostrato quanto sia essenziale l’Altro per la costituzione di un soggetto, quanto: "non si vive senz’Altro"); se non è servito a nulla crearci un Dio che fosse neutro (ne uter=né l’uno né l’altro), che si incarna non in Cristo ma nel potere, nel sapere, nell’amore o nel denaro che ti illude di poter avere i primi tre a discrezione e a piacimento; allora cosa ci rimane: credere nell’uomo?
No, l’uomo quando diventa Dio è il più terribile e il più crudele di tutti gli dei, tutte le grandi rivoluzioni degli ultimi due secoli sono nate sotto il sigillo dell’umanesimo, erano imbevute di teorie che avrebbero dovuto migliorare la condizione fisico-sociale (comunismo), ideologico-valoriale (liberismo), narcisistica (fascismo e nazismo), esistenziale (esistenzialismo; Heidegger in Germania appoggiò il nazismo, Sartre in Francia appoggiò il comunismo).








È proprio il fatto di credere che non funziona, e non può funzionare, l’altalena Dio/Uomo provoca solo disastri, massacri, discriminazioni perché punta su una parte e vorrebbe dominare il tutto, e ciò che non riesce a dominare lo nega, lo esclude, lo discrimina, lo perseguita o lo uccide … succede in una coppia, figuratevi fra due bande rivali, fra due paesi, fra due stati o fra due blocchi di alleanze contrapposte del mondo.
L’uomo faccia i conti col suo Dio (o col suo Altro), se completa il suo percorso di soggettivazione, se diventa uomo, se costruisce ciò che è in base alle potenzialità di ciò che avrebbe potuto essere, allora è un uomo libero in rapporto col mondo.
Certo, un uomo limitato, uno che non è dio e non vuole esserlo, che convive ancora col suo Dio (o col suo Altro), ma in un rapporto differente, come gli antichi greci convivevano con i loro dei: non si piegavano in ginocchio quando dovevano rivolgersi a loro, avrebbero voluto misurarsi con loro e magari superarli, spinti dalla hybris (tracotanza, superbia, prevaricazione), non si facevano eccessive illusioni sui loro dei, ma li temevano e li rispettavano.








Sarebbe saggio mantenere fra l’Uomo e Dio, fra Vecchi e Giovani, fra Maschile e Femminile e fra le diverse culture la “buona distanza”, quella che apprese Claude Lévi-Strauss osservando gli Indiani Mandan del Nord America; questi indigeni che soggiornavano fra il Nord e il Sud Dakota furono raggiunti da un altro gruppo di indiani che vivevano non troppo distanti fra loro a cui insegnarono la coltura del mais.
Quando i vecchi saggi delle tribù Mandan stabilirono che il contatto fra le due culture era stato sufficientemente intenso e proficuo, così si rivolsero ai loro ospiti:
“Sarebbe preferibile che voi ve ne andaste al di là del fiume, e che vi costruiate il vostro villaggio, perché i nostri costumi sono troppo diversi dai vostri. Non conoscendosi gli uni con gli altri, i giovani potrebbero avere dei disaccordi, e ci sarebbero delle guerre. Non andate troppo lontano, perché i popoli che vivono a grande distanza sono come stranieri e la guerra può scoppiare tra loro. Viaggiate verso il nord, fino a che non riuscirete a vedere più il fumo delle nostre case, e qui costruite il vostro villaggio. Così, saremo abbastanza vicini per essere amici e non abbastanza lontani per essere nemici”.
(Claude Lèvi-Strauss, Antropologia strutturale. Rapporti di simmetria tra riti e miti di popoli vicini, Il Saggiatore, Milano, Vol. II, p.299).







Qualsiasi contatto casuale e accelerato del diverso, degli opposti, provoca catastrofi: dall’incontro di due placche tettoniche si origina un terremoto, dai giovani e dai vecchi il conflitto intergenerazionale, dal ricco e dal povero l’invidia (reciproca) e la lotta di classe, dall’Uomo e da Dio il fanatismo, l’integralismo, il fondamentalismo e le guerre di religione, dalle diverse culture l’intolleranza e il razzismo, dal Maschio e dalla Femmina … beh, fate voi...ditemi voi se anche l'amore non è una tragedia ...
Bisogna andarci cauti, dunque, quando andiamo incontro al diverso, ma non possiamo mettere in discussione l'utilità di questo incontro (che è comunque inevitabile), perché dallo scontro delle placche tettoniche si originano le montagne, da quello fra giovani e vecchi la saggezza, fra il ricco e il povero la compassione e la solidarietà, fra l'uomo e dio nasce l'Uomo e da maschio e femmina nasce l'amore, che è si un demone, ma n demone di cui non possiamo fare a meno.
Ma stabilire la buona distanza non basta, bisognerebbe anche saper coniugare i verbi, ma non  per quello stupido sport di alcuni snob fanatici che credono di essere migliori di qualcun altro solo perché loro sanno coniugare un congiuntivo o esprimersi al condizionale; il verbo esprime la volontà, il tempo e l’azione dell’uomo.
Il modo e il tempo che usiamo, dunque, rivelano le nostre vere intenzioni, in questo periodo ascolto molti discorsi e ne leggo degli altri in riferimento al terremoto, sono molto usati i tempi del passato prossimo, dell’imperfetto, del trapassato remoto per spiegare presunte cause e antecedenti, e il futuro semplice per indicare ciò che si intende fare.






Questo è il tempo preferito del politico, dell’imbonitore, del truffatore, così come esistono i cosiddetti “pronomi cialtroneschi”, quelli per cui alla fine non riesci ad individuare un soggetto specifico perché il soggetto della frase diventa folla, senza alcun contorno o responsabilità per l’azione che il verbo esprime, quelli omessi o impersonali che lasciano vuoto lo spazio del soggetto, nascondendone l’identità, perché ogni azione necessita di un soggetto, esistono i modi cialtroneschi, e il futuro semplice lo è perché sposta in avanti il problema per non occuparsene adesso.
Congiuntivo, condizionale, participio, gerundio e infinito creano, se è possibile, ancora più problemi per ciò che riguarda la definizione dell’agire di un soggetto, ma questi sono problemi da affidare alla linguistica o ad una psicoanalisi che si è occupata degli slittamenti temporali del soggetto fra passato, presente e futuro.
In quest’ambito dico solo che auspicherei di sentire articolare di più i discorsi usando il futuro anteriore, perché questo è il modo e il tempo che flette la storia, che presentifica ciò che sarà domani come se lo vedesse, è un futuro che è già adesso, una memoria del domani: è il tempo del miracolo.
Scrive Lacan:
“Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto  di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto diventando”.

(Jacques Lacan, Funzione e campo della parola, in Scritti, Einaudi, Torino, p. 293).