Trentacinque anni fa, appena adolescente, nell’unica vera
libreria del paese in cui sono nato (le altre vendevano quasi esclusivamente
libri scolastici e qualche best seller o qualcuno di quei libri di persone
conosciute, di quelli che le case editrici ti “consigliavano” caldamente di
tenere, così come la mafia ti consigliava di pagare il pizzo), un buco di pochi
metri quadrati dove i libri sono esposti più in verticale che in orizzontale, e
dovevi salire scale e cercare sopra, sotto, dietro, per scorgere ciò che poteva
interessarti, e ciò che non trovavi potevi chiedere al libraio, un tizio col
barbone che di nome faceva Francesco (Ciccio) Urso, che sicuramente te lo
avrebbe rintracciato, incontravo Umberto Eco.
Non lui di persona, cosa sarebbe venuto a fare un autore già
molto noto in uno sperduto paese della Sicilia sud orientale, quando persino
Cristo si era fermato a Eboli; si trattava di un suo libro, edito da Bompiani:
Opera Aperta, me lo rigiravo fra le mani senza decidermi, quando il suddetto
libraio senza essere interpellato mi guardò aggiungendo: “Ottima scelta!”.
Cosa ci faceva un quindicenne, con i capelli tagliati a
caschetto, come usavano allora, dedito più all’attenzione delle ragazze sue
coetanee, con un libro il cui sottotitolo recava la scritta: “Forma e
indeterminazione nelle poetiche contemporanee” era un mistero, quando persino i
suoi insegnanti e gli eruditi di quel paese non avrebbero mai preso in
considerazione un libro simile e se, costretti a leggerlo, difficilmente l’avrebbero
capito.
Ma il quindicenne lo acquistò insieme, ovviamente,
alla rivista preferita che leggeva A Rivista Anarchica;
si, perché il quindicenne non era certo un tipo qualunque, aveva un magma
incandescente di idee, sentimenti e sensazioni che gli bollivano dentro, aveva
fame di cose nuove, ma cose che davvero potessero nutrirlo, cose vere,
autentiche, perché tutto ciò che lo circondava gli sembrava irrimediabilmente
falso e banale.
Era un tipo che non scriveva “Bimba ti amo” sui muri, ma si inventava
cose come: “Il più bel fiore non muore mai” oppure :” Vivi la vita come una
battaglia e la morte come un’avventura”.
Cosa poteva insegnare un pacato professore piemontese,
vagamente di sinistra, che giocava con la sua indubbiamente notevole
intelligenza, che inventava un modo nuovo di fare intelligenza, ad un ragazzo
siciliano incandescente come la lava dell’Etna, che era alla ricerca affannosa
di sorsate di acqua pura e di aria fina per sfuggire a quella sensazione di
soffocamento, grettezza, di limitatezza, di sconforto e di schifo che lo
circondava?
Poco o niente. Quelle parole era come non lo riguardassero,
così come non riguardavano il mondo che stava vivendo, erano troppo razionali,
troppo intellettuali, troppo centrate sull’intelligenza, troppo astratte, per
significare qualcosa per un ragazzo che stava assistendo all’invasione della
mafia (quella dei corleonesi, quella degli omicidi, quella delle intimidazioni
e delle bombe, quella che si nutre delle vostre aspirazioni, dei vostri sogni,
del vostro scopo di vita, del motivo stesso per cui vi alzate la mattina e fate
delle cose, quella che vi spegne il futuro e che vi lascia solo due
opportunità: o vi piegate, a 90° gradi, o vi spegnete).
Lessi quel libro, lo divorai in fretta, ma lo accantonai
senza farci niente, non una citazione, non un cenno di averlo letto, non molte
riflessioni sopra … solo l’impressione molto vaga di aver letto qualcosa di
grande che al momento non riuscivo a comprendere.
Solo qualche anno dopo, era già il 1986, il libro era uscito
da qualche anno, riincontrai di nuovo Umberto Eco in una libreria di Padova, un
altro libro, stavolta un romanzo, dal titolo oscuro e accattivante Il nome
della rosa, ne fui conquistato, lo presi e iniziai a leggerlo senza riuscire ad
interrompere la lettura e, finito di leggerlo, riiniziai da capo, e quando lo
lessi più volte cominciai a cercare informazioni sui cavalieri templari, su Fra
Dolcino, sui movimenti ereticali medioevali, sull’inquisizione, sui francescani,
sulla storia di quello scorcio di tempo e, appena mi fu possibile, andai una
settimana a soggiornare da solo in una famosa abbazia del nord Italia, seppure
non sono mai stato credente.
Dire che il libro mi piacque è poco, è nulla, non ho mai
avuto ambizioni letterarie, ma quel libro avrei voluto scriverlo io, davvero,
talmente lo sentivo mio; qualsiasi frase non avrei saputo scriverla meglio,
qualsiasi termine mi sembrava il più indicato, l’argomento lo sentivo come se
fosse qualcosa che in quel momento agitava anche me, mi sembrava l’espressione
di un assoluto, di qualcosa di universale, di quelle opere che rimangono
scritte nella letteratura universale a lettere di fuoco e parlano ai
contemporanei, così come parleranno alle generazioni a venire.
Non mi è mai successo un simile trasporto per un libro, né
per altri capolavori universali della letteratura di tutti i tempi, che pure ho
apprezzato, e molto, né per altre opere dello stesso Eco, scritte prima o dopo.
In seguito mi sono rifatto del tempo perduto, ho rastrellato
tutto ciò che aveva scritto in precedenza, ho intercettato tutto ciò che ha
scritto in seguito, tutti i suoi saggi, il Trattato di semiologia che mi ha
aiutato moltissimo a ripensare la semeiotica della psicopatologia, insieme ai
trattati di psichiatria, gli altri romanzi che sono seguiti, la Bustina di
Minerva su L’Espresso, alcune interviste rilasciate a questo o quel giornale,
le sue lezioni al DAMS di Bologna che ho frequentato irregolarmente, quando
potevo.
Mi dispiace che Eco sia nato in Italia, paese che non l’ha
apprezzato quanto avrebbe dovuto, eravamo troppo impegnati a schierarci da una parte
o dall’altra, a destra o a sinistra, per i riformisti o per i moderati, per
Berlusconi o per Prodi, per Renzi o per Salvini … per cui Eco o stava dalla
nostra parte, senza capirlo, o era dall’altra, senza capirlo … una tristezza!
I miei colleghi sudamericani, argentini, cileni, messicani,
colombiani e brasiliani lo adorano … letteralmente, i miei colleghi italiani
quasi non sanno chi è, e a parte alcuni dei suoi romanzi di successo, non hanno
mai letto nient’altro di ciò che ha scritto … una pena!
Ci vorrebbe un altro Umberto Eco per scrivere un necrologio
di Umberto Eco degno di lui… e mi dispiace davvero molto di non essere io a
saperlo scrivere!