giovedì 24 aprile 2014

... E VOI NON SIETE UN CAZZO!





Settecento metri quadri!  Ah... me dispiace, ma io so' Ior ... e voi non siete un cazzo!


C'era una volta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st'editto:
- Io so' io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pozzo vénneve a ttutti a un tant'er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l'affitto.

Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd'Imperatore,
quello nun po' avé mmai vosce in capitolo -.

Co st'editto annò er boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e, arisposero tutti: È vvero, è vvero.
(Giuseppe Gioacchino Belli, Li soprani der monno vecchio)


venerdì 18 aprile 2014

GABRIEL GARCÌA MÁRQUEZ



“A volte arrivava in ufficio senza aver dormito, con i capelli ingarbugliati d’amore …” (Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera, p. 77).

“Ansioso di contagiala con la sua stessa follia, le mandava versi da miniaturista incisi con la punta di uno spillo sui petali delle camelie”. (Ibid., p. 78).

“ … la rabbia coltivata con tanto amore per molti giorni si sedò improvvisamente” (Ibid., p. 133).

“ … gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce ma che la vita li obbliga ancora molte altre volte a partorirsi da loro stessi” (Ibid., p. 175).

“…non esisteva nessuno con maggior senso pratico, né tagliapietre più ostinati né gerenti più lucidi e pericolosi dei poeti” (Ibid., p. 178).

“… matrimonio: un’invenzione assurda che solo poteva esistere per la grazia infinita di Dio. Era contro qualsiasi ragione scientifica che due persone che si erano appena conosciute, senza nessuna parentela fra loro, con caratteri diversi, con culture diverse, e persino con sessi diversi, si vedessero impegnate di colpo a vivere insieme, a dormire nello stesso letto, a condividere due destini che forse erano stabiliti in sensi diversi. Diceva: «Il problema del matrimonio è che finisce tutte le notti dopo che si è fatto l’amore, e bisogna tornare a ricostruirlo tutte le mattine prima della colazione»”. (Ibid,. p. 222).

“La vita mondana … non era altro che un sistema di patti atavici, di cerimonie banali, di parole scontate, con cui si intrattenevano in società gli uni con gli altri per non assassinarsi reciprocamente” (Ibid,. p. 234).

“Si sentì sempre di vivere una vita prestatale dal marito: sovrana assoluta di un vasto impero di felicità edificata da lui e solo per lui. Sapeva che lui l’amava più di qualsiasi cosa, più di chiunque altro al mondo, ma solo per sé: al suo santo servizio” (Ibid., p. 235).




“… non era possibile vivere insieme in un altro modo né amarsi in un altro modo: niente a questo mondo era più difficile dell’amore”. (Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera, p. 237).

“… il cuore ha più stanze di un casino”. (Ibid., p. 288).

“Una volta lui le aveva detto qualcosa che lei non riusciva a immaginare: gli amputati sentono dolori, crampi, solletico, alla gamba che non hanno più. Così si sentiva senza di lui, sentendolo là dove non c’era più”. (Ibid., p. 298).

“… ben presto si rese conto che la voglia di dimenticarlo era lo stimolo più forte per ricordarlo”. (Ibid., p. 300).

“Doveva insegnarle a pensare all’amore come a uno stato di grazia che non era un mezzo per nulla, bensì un’origine e un fine di per se stesso”. (Ibid., p. 312).

“… lei continuava a essere tanto selvatica come quando era giovane ma che aveva imparato ad esserlo con dolcezza”. (Ibid., p. 328).

“Florentino Ariza lo ascoltò senza battere ciglio. Poi guardò dalle finestre il cerchio completo del quadrante della rosa dei venti, l’orizzonte nitido, il cielo di dicembre senza una sola nuvola, le acque navigabili per sempre, e disse: «Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, ancora verso La Dorada». Fermina Daza sussultò, perché riconobbe l’antica voce illuminata dalla grazia dello Spirito Santo, e guardò il capitano: era lui il destino. Ma il capitano non la vide perché era annichilito dal tremendo potere di ispirazione di Florentino Ariza. «Lo dice sul serio?» gli chiese. «Fin da quando sono nato» disse Florentino Ariza, «non ho detto una sola cosa che non sia sul serio». Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi fulgori di una  brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, la sua padronanza invincibile, il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti. «E fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?» gli domando. Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatrè anni sette mesi e undici giorni, notti comprese. «Per tutta la vita» disse”. (Ibid., p. 369-370).



Gabriel "Gabo" Garcia Marquez e la moglie Mercedes

Mi ha insegnato un modo nuovo, più intenso, più profondo, di pensare all’amore, alla morte, alla vita, un concetto inedito di poesia, un modo stupefacente di scrivere e di vedere le cose, un senso del rispetto illimitato, che le cose non esistono al di fuori di noi, ma siamo noi con la nostra tenacia a farle esistere.
Florentino Ariza, il protagonista de L’amore ai tempi del colera, ama Fermina Daza nonostante tutto, nonostante il fatto che con tutta evidenza Fermina non lo riamasse come sembrava inizialmente, ma fosse soltanto lusingata che un giovane la guardasse con quegli occhi ardenti che le facevano pena, piuttosto, e che gli sembravano quelli di un malato, perché le scriveva lettere e le dedicava poesie, e perché le faceva delle serenate appassionate col suo violino. E forse anche perché la zia di Fermina la spingeva fra le sue braccia, giocandosi in questo modo le sue frustrazioni, le sue sconfitte e le sue passate viltà in fatto di amore.
Florentino ci crede in questo amore, crede non solo che lui ami Fermina, ma anche che Fermina ami lui, solo che non lo sa, che la vita l’ha portata altrove, allontanandola da lui, ci crede anche quando lei lo rifiuta, quando gli dice che è stata tutta un’illusione, quando sposa un altro, quando rimane incinta di quest'uomo e lui la vede col pancione, quando il tempo passa e loro invecchiano e tutto lascia presumere che non ci siano più speranze, quando anche la fiamma che gli arde nel cuore sembra vacillare e questo amore sembra senza speranza, un carico troppo gravoso per un uomo solo.
Ci crede anche quando cerca disperatamente di cancellare quel "no" di Fermina con i tanti troppi si di amanti fugaci che popolano il suo letto e muovono le sue lenzuola, amanti tutte debitamente e coscenziosamente annotate in un taccuino per numero e per caratteristiche. 
Marquez ha uno stile unico, in cui il reale e l’irreale si fondono, camminano insieme, e l’irreale, l’incredibile e l’impossibile diventano realtà o, meglio, plausibili, credibili; come se si creasse un accordo fra lettore e scrittore perché ciò che viene narrato non solo diventi possibile, ma l’unico, vero, grande espediente che mette insieme e risolve le aspettative razionali di plausibilità e di conformità a ciò che riteniamo vero e possibile, con i moti dell’animo e con i sentimenti che vorrebbero travalicare il possibile per l’impossibile, il concreto, il relativo, lo specifico, il determinato, per l’assoluto, l’inesplicabile, il grandioso, l’incommensurabile … per poter misurare noi stessi e le cose col metro infinito del sentimento senza sminuire ed umiliare il metro della ragione. 

Della sua vita, della vittoria del premio nobel e del suo impegno politico, potrete leggerne qui o altrove, dove vi pare, di ciò che non trovate qui scritto, ne parlerà qualcun altro. 


sabato 12 aprile 2014

AI PAMPINI CHE NON FIORIRONO, AL CALICANTO CHE NON SBOCCIÒ 1







Il 25 aprile dell’A.D. 1431 il nobiluomo veneziano Pietro Querini, membro del Maggior Consiglio della Serenissima Repubblica di Venezia, signore dell’isola di Candia (Creta), dei feudi di Castel Termini e Dafnes, con i suoi luogotenenti Nicolò de Michele, patrizio veneto, e Cristofalo Fioravante, comito, salpò dall’isola di Candia a bordo della Querina (una caracca veneziana), con sessantotto uomini di equipaggio provenienti dai quattro angoli del mondo e tutti esperti marinai, e con un carico di 800 barili di Malvasia, spezie provenienti dalle Indie e dall’Africa, cotone, cera, allume di rocca e altre mercanzie per un totale di circa 500 tonnellate di stivaggio, alla volta delle Fiandre.
Era un viaggio per mare lungo una rotta battuta da naviganti spagnoli, portoghesi, genovesi e veneziani che comprendeva circa metà della navigazione nell’oceano Atlantico, ma si trattava di una navigazione sottocosta, bordeggiando, con la terra sempre in vista, soltanto chi si avventurava verso le Canarie, le Azzorre o l’isola di Capo Verde  (balzi che in ogni caso non superavo le 500 miglia) navigava per qualche giorno senza vedere la terra, questo tipo di navigazione, pur non essendo completamente esente dai pericoli, era tuttavia molto più rassicurante di un viaggio in mare aperto.



Bisognerà attendere per altri 61 anni ancora perché dei naviganti con a capo Cristoforo Colombo si avventurino in un viaggio nell’oceano, completamente circondati dall’acqua, con il sole che sorge maestoso alle tue spalle e ti tramonta davanti agli occhi incendiando di porpora tutto ciò che riesci a vedere.
L’idea di  buscar el levante por el poniente era sorta certamente perché con la caduta di Costantinopoli nel 1453 per opera  dei turchi ottomani guidati dal sultano Maometto II si erano interrotti gli scambi commerciali vantaggiosissimi con il lontano Oriente, con la via della seta e la via delle spezie, che portavano nei mercati europei ogni tipi di merce esotica pregiata.
Ma, soprattutto, la concezione del mondo si andava rimpicciolendo nella mente dei filosofi, dei pensatori, dei geografi, dei cartografi e dei navigatori, c’era come una frenesia di superare i confini, le barriere, soprattutto quelle teoriche, ideologiche, culturali, religiose, c’era come una smania di andare oltre, di constatare con mano la consistenza di molte verità tramandate dalle antiche e venerande auctoritates che avevano incardinato il sapere del mondo in solidi e indiscutibili battenti.
Dai calcoli di Eratostene dell’equatore terrestre, a quelli di Tolomeo, di Martino di Tiro, fino ai più recenti del cardinale d'Ailly e di Paolo del Pozzo Torricelli, il mondo diventava sempre più piccolo e si ribaltava la proporzione fra terre ed acque: da metà terra e metà acque di Tolomeo si giungeva alle proporzioni stimate di due terzi di terre emerse ed un terzo d'acqua. 
Con un mondo rimpicciolito di un terzo del suo diametro (a cui Colombo applicherà una dieta ulteriore per renderlo alla portata delle possibilità di navigazione del suo tempo) e con le terre emerse che sono stimate molto maggiori della superficie coperta dalle acque, era possibile raggiungere anche da Occidente il fantastico Catai e il Cipango, dai tetti laminati in oro.
E l'Oriente per gli europei significava esotismo e ricchezza, ori, gemme preziose, seta e altri coloratissimi tessuti preziosi, spezie di ogni tipo che insaporivano e decoravano i nostri piatti e polveri e oli essenziali pregiati, che si estraevano da alcune piante o da alcuni animali, che servivano a creare quei colori accesi, brillanti, profusi nelle immense opere d’arte che i pittori italiani e fiamminghi facevano fiorire in ogni contrada.




Al dogmatismo degli accademici platonici e aristotelici, che però era basato su calcoli più corretti se pensiamo che Eratostene stimava la circonferenza terrestre in 252.000 stadi (385 km in meno  rispetto al calcolo moderno che è di 40.075 km se si assume come unità di misura lo stadio egiziano, che è di 157,5 m), si contrapponevano stime, considerazioni e calcoli molto più imprecisi, intrisi di entusiasmo, di inesperienza e persino di semplicismo.
E quando anche i calcoli, così scorretti, non bastavano a dimostrare la fattibilità dell'impresa, non si esitava a citare persino il profeta Esdra, secondo cui nel terzo giorno della creazione Dio aveva prosciugato sei settimi del globo, o la parola di altri venerandi padri della chiesa che, dal profondo del loro eremo o dal cubicolo della cella del convento in cui vivevano, poco o niente sapevano di astronomia, di mare, di terre emerse e di navigazione.
Il povero Colombo passò anni in Portogallo prima a maturare la sua idea e poi a cercare invano di convincere della sua bontà il re Giovanni II, che fece confutare le ipotesi del navigatore genovese da un consiglio (la “junta dos mathematicos”), a cui facevano parte illustri cosmografi come don Diego Ortiz e scienziati come José e Rodrigo Vizinho.
Poi si trasferì in Spagna, dove ebbe a che fare con i professori di Salamanca, i quali pur asserendo che egli: “ "no era docto ma bien entendido" (così scrive di lui lo storico Francisco López de Gómara), tuttavia bocciarono la sua proposta ritenendola, e a ragione, poco fondata; perché sia il Giappone, sia la Cina erano davvero molto più distanti di quanto egli immaginasse, e al di fuori della portata della navigazione a vela di quel tempo, e se non avesse incontrato l’America nel corso della sua navigazione, nessuno di quella spedizione sarebbe più ritornato indietro vivo.

Cristoforo Colombo

Isabella di Castiglia

Francisco Pradilla Y Ortiz (Villanueva de Gállego, Zaragoza, 1840 - Madrid, 1921), La rendición de Granada, 1882, Óleo sobre lienzo. 


Ma Colombo, grazie alla sua testardaggine, alle sue amicizie e ai molti commercianti pronti a scommettere su di lui perché credevano di poter trarne lauti guadagni con la povera spesa di armare una piccola spedizione che avrebbe corso ogni rischio, insistette direttamente con la corona spagnola, in particolar modo con la regina Isabella di Castiglia.
A Isabella Colombo stava pure simpatico, qualcuno ha ipotizzato che sotto i paludamenti regali e i modi cerimoniali che era costretta a tenere, battesse il cuore pulsante di un’appassionata donna di Spagna verso questo genovese che pure qualche fascino doveva pur averlo, se non con i cattedratici di tutto il mondo, certamente con le donne a giudicare dagli amori che gli si attribuiscono.
Inoltre, Isabella era molto simile a Cristoforo come carattere, una donna che aveva osato riunire la Spagna intera col suo matrimonio con Ferdinando D’Aragona e che non aveva esitato ad iniziare una guerra per rivendicare alla loro corona territori spagnoli ancora saldamente in mano araba e che tutto lasciava intravedere che sarebbero stati ardui da riconquistare.
Isabella non poteva approvare un progetto di esplorazione finalizzato alla scoperta di nuove terre che partisse dalla Spagna e che fosse interamente finanziato da privati, con accordi fra le parti che escludessero la corona di Spagna, questo tipo di progetto doveva avere necessariamente il suo imprimatur o non se ne faceva niente. Perché se davvero Colombo avesse avuto successo sarebbe stato impensabile per la Spagna tenersi in disparte sia dagli immensi guadagni che ci si attendeva, sia dalla finalità religiosa di convertire alla “vera fede” gli indigeni, non bisogna dimenticare che Isabella passò alla storia col titolo di “cattolicissima” e che durante il suo regno l’inquisizione in Spagna oliava le porte delle vergini di Norimberga, delle garrote, delle ruote della tortura e limava coltelli, coltellini e coltellacci, e un autodafé era sempre pronto con la fiamma base accesa.






In fondo Colombo non chiedeva molto a livello economico, armare una ciurma di un centinaio di persone e qualche nave, mentre tutti i rischi erano suoi e le ricchezze e i privilegi che pretendeva erano subordinati al successo dell’impresa; Isabella però non poteva stornare neppure quella modica cifra dal bilancio dello Stato, l’unificazione del regno era costata (e costava ancora) parecchio, e ancora di più stava costando la liberazione della Spagna dai mori, in quel momento in cui Colombo le chiedeva di approvare e finanziare la sua spedizione, tutte le risorse della corona erano impiegate nell’assedio di Granada, nell’arco di una guerra estenuante che durava da un decennio e che culminò con la resa (per i mori ignominiosa e umiliante) del sultano Boabdil che consegna le chiavi della città ai sovrani Ferdinando e Isabella di Spagna.
Di fronte alle insistenze colombiane Isabella intonava: “Granada/Tierra ensangrenteda/en tardes de toros/mujer que conserva el embruj/de los ojos moros …/De sueῆo rebelde y gitana/cubietta de flores …/Y beso tu boca de grana/jugosa manzana/que me abla de amores”, ricordando al navigatore che prima di tutto nel suo cuore c’era Granada, e Colombo replicava: “Che cosa sei, che cosa sei che cosa sei, cosa sei …”, e Isabella: ”Ma tu sei la frase d’amore cominciata e mai finita”, Cristoforo:” Non cambi mai, non cambi mai, non cambi mai”, Isabella: “Tu sei il mio ieri, il mio oggi”, Cristoforo: “Proprio mai”, Isabella: “Il mio sempre, inquietudine”, Cristoforo: “Adesso ormai ci puoi provare, chiamami tormento dai, già che ci sei”, Isabella: “Tu sei come il vento che porta i violini e le rose”, Cristoforo: “Caravelle non ne voglio più”, Isabella: “Certe volte non ti capisco”, Cristoforo: “Le rose e i violini questa sera raccontali a un altro violini e rose li posso sentire quando la cosa mi va, se mi va, quando è il momento e dopo si vedrà”, Isabella: “Una parola ancora”, Cristoforo: “Parole, parole, parole”, Isabella: “Ascoltami”, Cristoforo: “Parole, parole, parole”, Isabella: “Ti prego”, Cristoforo: “Parole, parole, parole”, Isabella: “Io ti giuro”, Cristoforo: “Parole, parole, parole, parole, soltanto parole, parole tra noi”.

Ajvazovskij Ivan Konstantinovic, La nona onda, il mare, la tempesta.


Ajvazovskij Ivan Konstantinovic, Tempesta in mare.


Ma torniamo al nostro Pietro Querini, il Querin Meschino, col la sua barchetta, i suoi marinai, il suo carico di spezie e i barili di Malvasia da portare ai fiamminghi per far loro dimenticare quell’orribile saporaccio della loro birra, in fondo gli portava tutto il sole del Mediterraneo, raccolto in acini, pigiato, spremuto e fermentato per deliziare quegli uomini che vivevano in terre grige poco scaldate dal sole e poco illuminate dalla luce, gli stessi fiamminghi che solo qualche decennio più tardi diventeranno accorti e ricchi mercanti, i loro pittori illumineranno i dipinti di colori straordinari che saranno accuratamente studiati persino da Raffaello e daranno tanti grattacapi al nipote di Isabella, Carlo V
Dopo aver attraversato il Mediterraneo senza incontrare problemi, il 14 settembre, attraversato il Capo Finisterre, una violenta tempesta cavalcava il cielo e il mare col ruggito imperioso dei tuoni e con le zampate incandescenti del fulmine che squarciavano il firmamento e che sembrava volessero far brillare di luce e di paura persino l’anima di quei poveri naviganti.
Il 17 dicembre, dopo essere andati alla deriva per intere settimane, trasportati dalla Corrente del Golfo, con la nave ormai disalberata e col timone spezzato, i naufraghi si decisero ad abbandonare il relitto a cui al destino non restava altro che fare una lieve pressione col dito perché affondasse, e cercarono scampo calando in mare le scialuppe: diciotto di loro si imbarcarono in uno schifo (una sorta di piccola scialuppa il cui nomen omen: infatti di quei 18 uomini non se ne seppe più nulla) e quarantasette (compresi i tre ufficiali) su una lancia più grande.
Pazienza per il pepe (chi pescava pesce in quelle zone l’avrà trovato già speziato), per i chiodi di garofano, per l’allume di rocca e per lo zenzero che andarono perduti in quel naufragio, ma che il malvasia finisse in pasto ai pesci è un delitto inconcepibile; anche i marinai rischiarono la stessa fine, nella lancia fra scarsità di viveri, malattie e morti, riuscirono a salvarsi soltanto 16 superstiti che il 14 gennaio del 1432 misero fortunosamente piede nell'isola deserta di Sandøy, nell'arcipelago norvegese delle Lofoten.

Isole Lofoten


Isole Lofoten


Isole Lofoten


Isole Lofoten


Isole Lofoten


Qui, dopo aver cercato di sopravvivere individuando fonti d’acqua, procacciandosi un po’ di cibo (soprattutto patelle che abbondavano sugli scogli) e accendendo dei fuochi per scaldarsi, furono avvistati dai pescatori della vicina isola di Røst, che all’epoca contava in tutto 120 abitanti, che li salvarono e li ospitarono nelle loro case.
Tutti gli abitanti vivevano principalmente della pesca e dell’essiccazione del merluzzo, che in quelle zone assumeva proporzioni abbastanza imponenti ed era particolarmente abbondante a causa della calda corrente del Golfo che aveva trasportato i naufraghi in quel luogo e che rendeva il clima molto mite per quelle latitudini nordiche, pensate che la temperatura anche in inverno non scendeva mai oltre i meno 13 gradi sotto lo zero.
Il merluzzo pescato era la fonte di cibo principale di quelle isole, e del merluzzo come del maiale qui da noi e dell’oca fra gli ebrei, non si buttava via niente: dalla pelle di merluzzo scuoiata si facevano vestiti, splendidi costumi da bagno, biancheria intima sexy, e accuratamente affumicata anche delle scarpe; dal fegato si produceva l’olio di fegato di merluzzo che molti di noi hanno odiato nella loro infanzia e i più fortunati tra di noi nemmeno sanno cos’è, ma dal merluzzo si distillava anche un ottimo profumo, l’eau de baccalà.

(Continua ...).