lunedì 28 aprile 2014
giovedì 24 aprile 2014
... E VOI NON SIETE UN CAZZO!
Settecento metri quadri! Ah... me dispiace, ma io so' Ior ... e voi non siete un
cazzo!
C'era una volta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st'editto:
- Io so' io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pozzo vénneve a ttutti a un tant'er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l'affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd'Imperatore,
quello nun po' avé mmai vosce in capitolo -.
Co st'editto annò er boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e, arisposero tutti: È vvero, è vvero.
(Giuseppe Gioacchino Belli, Li soprani der monno vecchio)
venerdì 18 aprile 2014
GABRIEL GARCÌA MÁRQUEZ
“A volte arrivava in ufficio
senza aver dormito, con i capelli ingarbugliati d’amore …” (Gabriel García
Márquez, L’amore ai tempi del colera, p. 77).
“Ansioso di contagiala con la sua
stessa follia, le mandava versi da miniaturista incisi con la punta di uno
spillo sui petali delle camelie”. (Ibid., p. 78).
“ … la rabbia coltivata con tanto
amore per molti giorni si sedò improvvisamente” (Ibid., p. 133).
“ … gli esseri umani non nascono
sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce ma che la vita li
obbliga ancora molte altre volte a partorirsi da loro stessi” (Ibid., p. 175).
“…non esisteva nessuno con
maggior senso pratico, né tagliapietre più ostinati né gerenti più lucidi e
pericolosi dei poeti” (Ibid., p.
178).
“… matrimonio: un’invenzione
assurda che solo poteva esistere per la grazia infinita di Dio. Era contro
qualsiasi ragione scientifica che due persone che si erano appena conosciute,
senza nessuna parentela fra loro, con caratteri diversi, con culture diverse, e
persino con sessi diversi, si vedessero impegnate di colpo a vivere insieme, a
dormire nello stesso letto, a condividere due destini che forse erano stabiliti
in sensi diversi. Diceva: «Il problema del matrimonio è che finisce tutte le
notti dopo che si è fatto l’amore, e bisogna tornare a ricostruirlo tutte le
mattine prima della colazione»”. (Ibid,. p. 222).
“La vita mondana … non era altro
che un sistema di patti atavici, di cerimonie banali, di parole scontate, con
cui si intrattenevano in società gli uni con gli altri per non assassinarsi
reciprocamente” (Ibid,. p. 234).
“Si sentì sempre di vivere una
vita prestatale dal marito: sovrana assoluta di un vasto impero di felicità
edificata da lui e solo per lui. Sapeva che lui l’amava più di qualsiasi cosa,
più di chiunque altro al mondo, ma solo per sé: al suo santo servizio” (Ibid., p. 235).
“… non era possibile vivere
insieme in un altro modo né amarsi in un altro modo: niente a questo mondo era
più difficile dell’amore”. (Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del
colera, p. 237).
“… il cuore ha più stanze di un
casino”. (Ibid., p. 288).
“Una volta lui le aveva detto
qualcosa che lei non riusciva a immaginare: gli amputati sentono dolori,
crampi, solletico, alla gamba che non hanno più. Così si sentiva senza di lui,
sentendolo là dove non c’era più”. (Ibid., p. 298).
“… ben presto si rese conto che
la voglia di dimenticarlo era lo stimolo più forte per ricordarlo”. (Ibid., p. 300).
“Doveva insegnarle a pensare
all’amore come a uno stato di grazia che non era un mezzo per nulla, bensì
un’origine e un fine di per se stesso”. (Ibid., p. 312).
“… lei continuava a essere tanto
selvatica come quando era giovane ma che aveva imparato ad esserlo con
dolcezza”. (Ibid., p. 328).
“Florentino Ariza lo ascoltò
senza battere ciglio. Poi guardò dalle finestre il cerchio completo del
quadrante della rosa dei venti, l’orizzonte nitido, il cielo di dicembre senza
una sola nuvola, le acque navigabili per sempre, e disse: «Andiamo a dritta, a
dritta, a dritta, ancora verso La Dorada». Fermina Daza sussultò, perché
riconobbe l’antica voce illuminata dalla grazia dello Spirito Santo, e guardò
il capitano: era lui il destino. Ma il capitano non la vide perché era
annichilito dal tremendo potere di ispirazione di Florentino Ariza. «Lo dice
sul serio?» gli chiese. «Fin da quando sono nato» disse Florentino Ariza, «non
ho detto una sola cosa che non sia sul serio». Il capitano guardò Fermina Daza
e vide sulle sue ciglia i primi fulgori di una
brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, la sua padronanza
invincibile, il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la
vita, più che la morte, a non avere limiti. «E fino a quando crede che possiamo
continuare con questo andirivieni del cazzo?» gli domando. Florentino Ariza
aveva la risposta pronta da cinquantatrè anni sette mesi e undici giorni, notti
comprese. «Per tutta la vita» disse”. (Ibid., p. 369-370).
Gabriel "Gabo" Garcia Marquez e la moglie Mercedes
Mi ha insegnato un modo nuovo,
più intenso, più profondo, di pensare all’amore, alla morte, alla vita, un
concetto inedito di poesia, un modo stupefacente di scrivere e di vedere le
cose, un senso del rispetto illimitato, che le cose non esistono al di fuori di
noi, ma siamo noi con la nostra tenacia a farle esistere.
Florentino Ariza, il protagonista
de L’amore ai tempi del colera, ama Fermina Daza nonostante tutto, nonostante
il fatto che con tutta evidenza Fermina non lo riamasse come sembrava inizialmente, ma fosse
soltanto lusingata che un giovane la guardasse con quegli occhi ardenti che le
facevano pena, piuttosto, e che gli sembravano quelli di un malato, perché le
scriveva lettere e le dedicava poesie, e perché le faceva delle serenate
appassionate col suo violino. E forse anche perché la zia di Fermina la
spingeva fra le sue braccia, giocandosi in questo modo le sue frustrazioni, le
sue sconfitte e le sue passate viltà in fatto di amore.
Florentino ci crede in questo
amore, crede non solo che lui ami Fermina, ma anche che Fermina ami lui, solo
che non lo sa, che la vita l’ha portata altrove, allontanandola da lui, ci
crede anche quando lei lo rifiuta, quando gli dice che è stata tutta
un’illusione, quando sposa un altro, quando rimane incinta di quest'uomo e lui la vede col pancione, quando il tempo
passa e loro invecchiano e tutto lascia presumere che non ci siano più
speranze, quando anche la fiamma che gli arde nel cuore sembra vacillare e questo
amore sembra senza speranza, un carico troppo gravoso per un uomo solo.
Ci crede anche quando cerca disperatamente di cancellare quel "no" di Fermina con i tanti troppi si di amanti fugaci che popolano il suo letto e muovono le sue lenzuola, amanti tutte debitamente e coscenziosamente annotate in un taccuino per numero e per caratteristiche.
Ci crede anche quando cerca disperatamente di cancellare quel "no" di Fermina con i tanti troppi si di amanti fugaci che popolano il suo letto e muovono le sue lenzuola, amanti tutte debitamente e coscenziosamente annotate in un taccuino per numero e per caratteristiche.
Marquez ha uno stile unico, in
cui il reale e l’irreale si fondono, camminano insieme, e l’irreale,
l’incredibile e l’impossibile diventano realtà o, meglio, plausibili, credibili;
come se si creasse un accordo fra lettore e scrittore perché ciò che viene
narrato non solo diventi possibile, ma l’unico, vero, grande espediente che
mette insieme e risolve le aspettative razionali di plausibilità e di
conformità a ciò che riteniamo vero e possibile, con i moti dell’animo e con i
sentimenti che vorrebbero travalicare il possibile per l’impossibile, il
concreto, il relativo, lo specifico, il determinato, per l’assoluto,
l’inesplicabile, il grandioso, l’incommensurabile … per poter misurare noi
stessi e le cose col metro infinito del sentimento senza sminuire ed umiliare
il metro della ragione.
Della sua vita, della vittoria del premio nobel e del suo impegno politico, potrete leggerne qui o altrove, dove vi pare, di ciò che non trovate qui scritto, ne parlerà qualcun altro.
sabato 12 aprile 2014
AI PAMPINI CHE NON FIORIRONO, AL CALICANTO CHE NON SBOCCIÒ 1
Il 25 aprile dell’A.D. 1431 il
nobiluomo veneziano Pietro Querini, membro del Maggior Consiglio della
Serenissima Repubblica di Venezia, signore dell’isola di Candia (Creta), dei feudi di Castel Termini
e Dafnes, con i suoi luogotenenti Nicolò de Michele, patrizio veneto, e
Cristofalo Fioravante, comito, salpò dall’isola di Candia a bordo della Querina
(una caracca veneziana), con sessantotto uomini di equipaggio provenienti dai
quattro angoli del mondo e tutti esperti marinai, e con un carico di 800 barili
di Malvasia, spezie provenienti dalle Indie e dall’Africa, cotone, cera, allume
di rocca e altre mercanzie per un totale di circa 500 tonnellate di stivaggio,
alla volta delle Fiandre.
Era un viaggio per mare lungo una
rotta battuta da naviganti spagnoli, portoghesi, genovesi e veneziani che
comprendeva circa metà della navigazione nell’oceano Atlantico, ma si trattava
di una navigazione sottocosta, bordeggiando, con la terra sempre in vista, soltanto chi si
avventurava verso le Canarie, le Azzorre o l’isola di Capo Verde (balzi che in ogni caso non superavo le 500
miglia) navigava per qualche giorno senza vedere la terra, questo tipo di
navigazione, pur non essendo completamente esente dai pericoli, era tuttavia
molto più rassicurante di un viaggio in mare aperto.
Bisognerà attendere per altri 61
anni ancora perché dei naviganti con a capo Cristoforo Colombo si avventurino
in un viaggio nell’oceano, completamente circondati dall’acqua, con il sole che
sorge maestoso alle tue spalle e ti tramonta davanti agli occhi incendiando di
porpora tutto ciò che riesci a vedere.
L’idea di buscar
el levante por el poniente era sorta certamente perché con la caduta di
Costantinopoli nel 1453 per opera dei
turchi ottomani guidati dal sultano Maometto II si erano interrotti gli scambi
commerciali vantaggiosissimi con il lontano Oriente, con la via della seta e la
via delle spezie, che portavano nei mercati europei ogni tipi di merce esotica
pregiata.
Ma, soprattutto, la concezione
del mondo si andava rimpicciolendo nella mente dei filosofi, dei pensatori, dei
geografi, dei cartografi e dei navigatori, c’era come una frenesia di superare
i confini, le barriere, soprattutto quelle teoriche, ideologiche, culturali,
religiose, c’era come una smania di andare oltre, di constatare con mano la
consistenza di molte verità tramandate dalle antiche e venerande auctoritates che avevano incardinato il
sapere del mondo in solidi e indiscutibili battenti.
Dai calcoli di Eratostene
dell’equatore terrestre, a quelli di Tolomeo, di Martino di Tiro, fino ai più
recenti del cardinale d'Ailly e di Paolo del Pozzo Torricelli, il mondo diventava sempre più piccolo e
si ribaltava la proporzione fra terre ed acque: da metà terra e metà acque di Tolomeo si giungeva alle proporzioni stimate di due terzi di terre emerse ed un terzo d'acqua.
Con un mondo rimpicciolito di un terzo del suo diametro (a cui Colombo applicherà una dieta ulteriore per renderlo alla portata delle possibilità di navigazione del suo tempo) e con le terre emerse che sono stimate molto maggiori della superficie coperta dalle acque, era possibile raggiungere anche da Occidente il fantastico Catai e il Cipango, dai tetti laminati in oro.
E l'Oriente per gli europei significava esotismo e ricchezza, ori, gemme preziose, seta e altri coloratissimi tessuti preziosi, spezie di ogni tipo che insaporivano e decoravano i nostri piatti e polveri e oli essenziali pregiati, che si estraevano da alcune piante o da alcuni animali, che servivano a creare quei colori accesi, brillanti, profusi nelle immense opere d’arte che i pittori italiani e fiamminghi facevano fiorire in ogni contrada.
Con un mondo rimpicciolito di un terzo del suo diametro (a cui Colombo applicherà una dieta ulteriore per renderlo alla portata delle possibilità di navigazione del suo tempo) e con le terre emerse che sono stimate molto maggiori della superficie coperta dalle acque, era possibile raggiungere anche da Occidente il fantastico Catai e il Cipango, dai tetti laminati in oro.
E l'Oriente per gli europei significava esotismo e ricchezza, ori, gemme preziose, seta e altri coloratissimi tessuti preziosi, spezie di ogni tipo che insaporivano e decoravano i nostri piatti e polveri e oli essenziali pregiati, che si estraevano da alcune piante o da alcuni animali, che servivano a creare quei colori accesi, brillanti, profusi nelle immense opere d’arte che i pittori italiani e fiamminghi facevano fiorire in ogni contrada.
Al dogmatismo degli accademici
platonici e aristotelici, che però era basato su calcoli più corretti se pensiamo che Eratostene stimava la circonferenza terrestre in 252.000 stadi (385 km in meno rispetto al calcolo moderno che è di 40.075 km se si assume come unità di misura lo stadio egiziano, che è di 157,5 m), si contrapponevano stime, considerazioni e calcoli molto più imprecisi, intrisi di entusiasmo, di inesperienza e persino di semplicismo.
E quando anche i calcoli, così scorretti, non bastavano a dimostrare la fattibilità dell'impresa, non si esitava a citare persino il profeta Esdra, secondo cui nel terzo giorno della creazione Dio aveva prosciugato sei settimi del globo, o la parola di altri venerandi padri della chiesa che, dal profondo del loro eremo o dal cubicolo della cella del convento in cui vivevano, poco o niente sapevano di astronomia, di mare, di terre emerse e di navigazione.
Il povero Colombo passò anni in Portogallo prima a maturare la sua idea e poi a cercare invano di convincere della sua bontà il re Giovanni II, che fece confutare le ipotesi del navigatore genovese da un consiglio (la “junta dos mathematicos”), a cui facevano parte illustri cosmografi come don Diego Ortiz e scienziati come José e Rodrigo Vizinho.
E quando anche i calcoli, così scorretti, non bastavano a dimostrare la fattibilità dell'impresa, non si esitava a citare persino il profeta Esdra, secondo cui nel terzo giorno della creazione Dio aveva prosciugato sei settimi del globo, o la parola di altri venerandi padri della chiesa che, dal profondo del loro eremo o dal cubicolo della cella del convento in cui vivevano, poco o niente sapevano di astronomia, di mare, di terre emerse e di navigazione.
Il povero Colombo passò anni in Portogallo prima a maturare la sua idea e poi a cercare invano di convincere della sua bontà il re Giovanni II, che fece confutare le ipotesi del navigatore genovese da un consiglio (la “junta dos mathematicos”), a cui facevano parte illustri cosmografi come don Diego Ortiz e scienziati come José e Rodrigo Vizinho.
Poi si trasferì in Spagna, dove
ebbe a che fare con i professori di Salamanca, i quali pur asserendo che egli:
“ "no era docto ma bien entendido" (così scrive di lui lo storico Francisco
López de Gómara), tuttavia bocciarono la sua proposta ritenendola, e a ragione,
poco fondata; perché sia il Giappone, sia la Cina erano davvero molto più
distanti di quanto egli immaginasse, e al di fuori della portata della
navigazione a vela di quel tempo, e se non avesse incontrato l’America nel
corso della sua navigazione, nessuno di quella spedizione sarebbe più ritornato
indietro vivo.
Cristoforo Colombo |
Isabella di Castiglia |
Francisco Pradilla Y Ortiz (Villanueva de Gállego, Zaragoza,
1840 - Madrid, 1921), La rendición de Granada, 1882, Óleo sobre lienzo.
|
Ma Colombo, grazie alla sua
testardaggine, alle sue amicizie e ai molti commercianti pronti a scommettere
su di lui perché credevano di poter trarne lauti guadagni con la povera spesa
di armare una piccola spedizione che avrebbe corso ogni rischio, insistette
direttamente con la corona spagnola, in particolar modo con la regina Isabella
di Castiglia.
A Isabella Colombo stava pure
simpatico, qualcuno ha ipotizzato che sotto i paludamenti regali e i modi
cerimoniali che era costretta a tenere, battesse il cuore pulsante di un’appassionata
donna di Spagna verso questo genovese che pure qualche fascino doveva pur
averlo, se non con i cattedratici di tutto il mondo, certamente con le donne a
giudicare dagli amori che gli si attribuiscono.
Inoltre, Isabella era molto
simile a Cristoforo come carattere, una donna che aveva osato riunire la Spagna
intera col suo matrimonio con Ferdinando D’Aragona e che non aveva esitato ad
iniziare una guerra per rivendicare alla loro corona territori spagnoli ancora
saldamente in mano araba e che tutto lasciava intravedere che sarebbero stati
ardui da riconquistare.
Isabella non poteva approvare un
progetto di esplorazione finalizzato alla scoperta di nuove terre che partisse
dalla Spagna e che fosse interamente finanziato da privati, con accordi fra le
parti che escludessero la corona di Spagna, questo tipo di progetto doveva
avere necessariamente il suo imprimatur o non se ne faceva niente. Perché se
davvero Colombo avesse avuto successo sarebbe stato impensabile per la Spagna
tenersi in disparte sia dagli immensi guadagni che ci si attendeva, sia dalla
finalità religiosa di convertire alla “vera fede” gli indigeni, non bisogna
dimenticare che Isabella passò alla storia col titolo di “cattolicissima” e che
durante il suo regno l’inquisizione in Spagna oliava le porte delle vergini di
Norimberga, delle garrote, delle ruote della tortura e limava coltelli,
coltellini e coltellacci, e un autodafé era sempre pronto con la fiamma base
accesa.
In fondo Colombo non chiedeva
molto a livello economico, armare una ciurma di un centinaio di persone e
qualche nave, mentre tutti i rischi erano suoi e le ricchezze e i privilegi che
pretendeva erano subordinati al successo dell’impresa; Isabella però non poteva
stornare neppure quella modica cifra dal bilancio dello Stato, l’unificazione
del regno era costata (e costava ancora) parecchio, e ancora di più stava
costando la liberazione della Spagna dai mori, in quel momento in cui Colombo
le chiedeva di approvare e finanziare la sua spedizione, tutte le risorse della
corona erano impiegate nell’assedio di Granada, nell’arco di una guerra
estenuante che durava da un decennio e che culminò con la resa (per i mori ignominiosa
e umiliante) del sultano Boabdil che consegna le chiavi della città ai sovrani
Ferdinando e Isabella di Spagna.
Di fronte alle insistenze
colombiane Isabella intonava: “Granada/Tierra ensangrenteda/en tardes de
toros/mujer que conserva el embruj/de los ojos moros …/De sueῆo rebelde y
gitana/cubietta de flores …/Y beso tu boca de grana/jugosa manzana/que me abla
de amores”, ricordando al navigatore che prima di tutto nel suo cuore c’era
Granada, e Colombo replicava: “Che cosa sei, che cosa sei che cosa sei, cosa
sei …”, e Isabella: ”Ma tu sei la frase d’amore cominciata e mai finita”,
Cristoforo:” Non cambi mai, non cambi mai, non cambi mai”, Isabella: “Tu sei il
mio ieri, il mio oggi”, Cristoforo: “Proprio mai”, Isabella: “Il mio sempre,
inquietudine”, Cristoforo: “Adesso ormai ci puoi provare, chiamami tormento
dai, già che ci sei”, Isabella: “Tu sei come il vento che porta i violini e le
rose”, Cristoforo: “Caravelle non ne voglio più”, Isabella: “Certe volte non ti
capisco”, Cristoforo: “Le rose e i violini questa sera raccontali a un altro
violini e rose li posso sentire quando la cosa mi va, se mi va, quando è il
momento e dopo si vedrà”, Isabella: “Una parola ancora”, Cristoforo: “Parole,
parole, parole”, Isabella: “Ascoltami”, Cristoforo: “Parole, parole, parole”,
Isabella: “Ti prego”, Cristoforo: “Parole, parole, parole”, Isabella: “Io ti
giuro”, Cristoforo: “Parole, parole, parole, parole, soltanto parole, parole
tra noi”.
Ajvazovskij Ivan Konstantinovic, La nona onda, il mare, la
tempesta.
|
Ajvazovskij Ivan Konstantinovic, Tempesta in mare.
|
Ma torniamo al nostro Pietro
Querini, il Querin Meschino, col la sua barchetta, i suoi marinai, il suo
carico di spezie e i barili di Malvasia da portare ai fiamminghi per far loro
dimenticare quell’orribile saporaccio della loro birra, in fondo gli portava
tutto il sole del Mediterraneo, raccolto in acini, pigiato, spremuto e
fermentato per deliziare quegli uomini che vivevano in terre grige poco
scaldate dal sole e poco illuminate dalla luce, gli stessi fiamminghi che solo
qualche decennio più tardi diventeranno accorti e ricchi mercanti, i loro
pittori illumineranno i dipinti di colori straordinari che saranno
accuratamente studiati persino da Raffaello e daranno tanti grattacapi al
nipote di Isabella, Carlo V.
Dopo aver attraversato il
Mediterraneo senza incontrare problemi, il 14 settembre, attraversato il Capo
Finisterre, una violenta tempesta cavalcava il cielo e il mare col ruggito
imperioso dei tuoni e con le zampate incandescenti del fulmine che squarciavano
il firmamento e che sembrava volessero far brillare di luce e di paura persino
l’anima di quei poveri naviganti.
Il 17 dicembre, dopo essere
andati alla deriva per intere settimane, trasportati dalla Corrente del Golfo,
con la nave ormai disalberata e col timone spezzato, i naufraghi si decisero ad
abbandonare il relitto a cui al destino non restava altro che fare una lieve
pressione col dito perché affondasse, e cercarono scampo calando in mare le
scialuppe: diciotto di loro si imbarcarono in uno schifo (una sorta di piccola
scialuppa il cui nomen omen: infatti di quei 18 uomini non se ne seppe più
nulla) e quarantasette (compresi i tre ufficiali) su una lancia più grande.
Pazienza per il pepe (chi pescava
pesce in quelle zone l’avrà trovato già speziato), per i chiodi di garofano,
per l’allume di rocca e per lo zenzero che andarono perduti in quel naufragio,
ma che il malvasia finisse in pasto ai pesci è un delitto inconcepibile; anche
i marinai rischiarono la stessa fine, nella lancia fra scarsità di viveri,
malattie e morti, riuscirono a salvarsi soltanto 16 superstiti che il 14
gennaio del 1432 misero fortunosamente piede nell'isola deserta di Sandøy,
nell'arcipelago norvegese delle Lofoten.
Isole Lofoten |
Isole Lofoten |
Isole Lofoten |
Isole Lofoten |
Isole Lofoten |
Qui, dopo aver cercato di
sopravvivere individuando fonti d’acqua, procacciandosi un po’ di cibo
(soprattutto patelle che abbondavano sugli scogli) e accendendo dei fuochi per
scaldarsi, furono avvistati dai pescatori della vicina isola di Røst, che
all’epoca contava in tutto 120 abitanti, che li salvarono e li ospitarono nelle
loro case.
Tutti gli abitanti vivevano
principalmente della pesca e dell’essiccazione del merluzzo, che in quelle zone
assumeva proporzioni abbastanza imponenti ed era particolarmente abbondante a
causa della calda corrente del Golfo che aveva trasportato i naufraghi in quel
luogo e che rendeva il clima molto mite per quelle latitudini nordiche, pensate
che la temperatura anche in inverno non scendeva mai oltre i meno 13 gradi
sotto lo zero.
Il merluzzo pescato era la fonte
di cibo principale di quelle isole, e del merluzzo come del maiale qui da noi e
dell’oca fra gli ebrei, non si buttava via niente: dalla pelle di merluzzo
scuoiata si facevano vestiti, splendidi costumi da bagno, biancheria intima
sexy, e accuratamente affumicata anche delle scarpe; dal fegato si produceva
l’olio di fegato di merluzzo che molti di noi hanno odiato nella loro infanzia e
i più fortunati tra di noi nemmeno sanno cos’è, ma dal merluzzo si distillava anche un ottimo profumo, l’eau de baccalà.
(Continua ...).
(Continua ...).
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