lunedì 17 giugno 2013

MY HEART’S IN THE HIGHLANDS








My heart's in the Highlands, my heart is not here,
My heart's in the Highlands a-chasing the deer -
A-chasing the wild deer, and following the roe; (=ree)
My heart's in the Highlands, wherever I go.

Farewell to the Highlands, farewell to the North
The birth place of Valour, the country of Worth;
Wherever I wander, wherever I rove,
The hills of the Highlands for ever I love.

Farewell to the mountains high cover'd with snow;
Farewell to the straths and green valleys below; (=breed dal)
Farewell to the forrests and wild-hanging woods;
Farwell to the torrents and loud-pouring floods.

My heart's in the Highlands, my heart is not here,
My heart's in the Highlands a-chasing the deer
Chasing the wild deer, and following the roe;
My heart's in the Highlands, whereever I go.
(Robert Burns)







Il mio cuore è nelle Highlands, la regione montuosa a nord-ovest della Gran Bretagna, piccole valli lastricate di rocce fredde e sterili e di aspri costoni rocciosi, niente a che vedere con la verde Irlanda, la coste ardite sull’Atlantico e le ampie pianure del Galles o le grasse e vellutate praterie dell’Inghilterra.
Una terra impervia, dura, accidentata, un clima rigido e inclemente, abitata da gente scontrosa, spigolosa e intrattabile … tanto che i romani non si diedero la briga di conquistarla ed eressero il vallo di Adriano per tenere a distanza quei selvaggi, tanto che il re Enrico VIII° d’ Inghilterra dopo aver battuto in maniera schiacciante l’esercito scozzese di Giacomo V° a  Solway Moss, pensò bene di prendere prigionieri e portarli con sé a Londra alcuni nobili scozzesi che fossero garanti della pace, dopo aver festeggiato con loro il Natale a Greenwich fu, tuttavia, costretto a trovare per loro un alloggio diverso dalla corte reale e li insediò in un’ex proprietà monastica sul Tamigi, dove: “avrebbero potuto continuare a comportarsi da barbari senza spaventare i cavalli a corte”.
Chi potrebbe allogare i suoi sentimenti in terre così selvagge? Eppure i precedenti illustri ci sono, Omero e Foscolo ci dicono che Ulisse “baciò le zolle” (Odissea, XIII°, 54) o che “baciò la sua petrosa Itaca”, (A Zacinto); era stato incantato dai fiori del loto che davano l’oblio e facevano dimenticare la patria, la donna e le pene, era stato ammaliato dal canto delle sirene, era stato avvinto dalle braccia candide di splendide dee, nutrito a nettare ed ambrosia, allettato dalla proposta di immortalità, di essere simile a un dio (che era la massima aspirazione per un greco antico), ma nonostante tutto si era scosso ed era ritornato alla sua terra natia.
Tutta quanta la vicenda terrena di Ulisse possiamo comprenderla come il conflitto fra la curiosità dell’uomo (che il Ulisse si esprime al suo massimo grado) e il richiamo delle radici, degli affetti, del focolare, dei doveri di uomo e di re; l’astuzia che gli si riconosce è lo strumento con cui Ulisse affronta e piega al suo volere gran parte degli eventi a lui sfavorevoli, quello che gli fa superare le prove più impervie … un’astuzia che si dispiega con Circe, con Polifemo, con Poseidone, con chiunque incontra nella sua strada, ma anche con la moglie Penelope, da cui non si fa riconoscere immediatamente perché prima vuole conoscere se i suoi sentimenti per lui sono immutati.
Anche Penelope ricorre all’astuzia per fugare l’ultimo dubbio che quello straniero possa essere davvero suo marito o per estrema accortezza perché sa che gli dei possono divertirsi ad illudere i mortali facendo loro credere di avere ciò che più desiderano o, come dimostrazione di fedeltà assoluta o, anche, per avere una piccola vendetta su di lui che non le si era manifestato subito, voleva in qualche modo fargli pagare la sua diffidenza.
Per questo architetta il tranello, con una recitazione degna del consorte finge di cedere ai rimproveri di freddezza e di insensibilità nei confronti del ritrovato marito, si rimprovera la sua insensatezza, la sua superbia e il suo esibito disprezzo e chiede alla vecchia serva Euriclea di portare subito in quel luogo il letto di Ulisse e di prepararlo con guanciali, drappi e coperte per il suo illustre e ritrovato sposo.
Ulisse comprende e se ne ritiene offeso, poi rivela che nessuno potrebbe spostare altrove quel letto, che fu scolpito da egli stesso nel grande tronco di un frondoso ulivo e che la loro camera da letto in mattoni gli è stata costruita intorno … solo allora a Penelope si sciolsero gli occhi in pianto, il cuore e le ginocchia e si lanciò ad abbracciare e baciare il suo sposo.





Per quanto sia pietrosa e inospitale la nostra Itaca, la nostra donna non sia più giovane, fresca e bella, la nostra casa sia infestata dai “proci”, e non sappiamo cosa ci attenderà al ritorno, se gli affetti che legavano a noi le persone che avevamo care si sono conservati immutabili oppure sono cambiati, c’è una forza potente che ci spinge verso il nostro mondo, le persone che amiamo, la nostra quotidianità, il familiare, il consueto, le nostre radici (ben piantate nel frondoso ulivo come il letto di Ulisse e Penelope, come la loro unione), ciò che realmente siamo.
Le Highlands possono essere un luogo, o una persona, o una situazione, ma più spesso sono un’idea, un’aspirazione, un sogno e, qualche volta, persino un delirio, che può essere reificato in un luogo (indipendentemente dalle sue caratteristiche), in una persona, in una fantasia, in un tempo lontano, nel passato o nel futuro, in qualche cosa di mai accaduto, che però è per noi più reale e stimolante di qualsiasi realtà.
Rubert Burns (autore di questa canzone popolare scozzese), così come Andrew Muir, che riprese l’antica tradizione, erano nati e cresciuti nelle Highlands, conoscevano ogni angolo, ogni valle, ogni specchio d’acqua di quei posti, e come dei bardi gaelici di origine celta ne cantano con accenti lirici la bellezza, che è soprattutto nei loro occhi e nel loro cuore, un cuore che è in quelle terre, pulsa all’unisono col respiro di quella terra.
Ma Bob Dylan, Neil Young, Arvo Pärt, Else Torp and Christopher Bowers (nella versione musicale che vi propongo), che riprendono a versificare e a intonare queste ballate, non hanno mai visto le Highlands, eppure ci fanno sentire l’odore del bosco, i profumi gentili del caprifoglio e del giacinto selvatico, l’usta del cervo e del capriolo, i cavalli e i segugi, l’eccitazione della caccia, il tendersi degli archi, il sibilo delle frecce scoccate, il colpo della lancia che apre la carne e spezza le ossa del cervo colpito o che si infligge sul tronco di un albero o sulla nuda terra.
Si sente tutto l’amore e la nostalgia per ciò che siamo verso ciò che eravamo, ciò che ci ha formati, ciò da cui crediamo provenga la nostra linfa vitale, o per ciò che siamo verso ciò che saremo quando ci allontaneremo dalle nostre Highlands. 
Le Highlands più che un posto sono un’idea, l’idea di un paradiso edenico in cui siamo nati o che si trovi agli antipodi del posto in cui viviamo, di un’età dell’oro collocata nel passato o nel futuro, che ci fa struggere di nostalgia o bramarne l’avvento, può essere un’ideologia economica, sociale, politica o religiosa, ma può anche essere un’ideale etico, la vita posta al servizio della virtù e dell’areté (l’eccellenza), così come era per gli antichi greci, o, ancora, un ideale estetico, come gli artisti della Grecia classica (dove però occorre dire che etica ed estetica coincidevano, perché ritenevano impossibile che una cosa buona non fosse anche bella e viceversa), o gli ideali che permearono l’umanesimo e il rinascimento, che produssero opere eterne e sublimi, o l’ideale di bellezza inseguito da Goethe o la vita vissuta come se fosse un’opera d’arte di Wilde, che dedicava tutto il suo genio nel vivere bene e soltanto il suo talento alle opere che scriveva.






O l’ideale della “grande bellezza” messo in pellicola da Paolo Sorrentino (da cui è tratta la musica), che fa dire al protagonista Joe Gambardella (interpretato dallo straordinario Toni Servillo, che mi è piaciuto molto di più in questo personaggio che in molti altri che ha interpretato in passato) che non ha più scritto niente di rilevante dal suo primo romanzo di successo (L’apparato umano), perché gli è mancato di ispirarsi alla grande bellezza, la stessa intravista da giovane nel sorriso sollevato della ragazza stasa al sole sugli scogli dopo che lui con un tuffo era scampato alle eliche di un motoscafo o quella del seno mostratogli all’improvviso, sempre sugli scogli, dalla stessa ragazza … quanto può essere bello il seno di un’adolescente, quanto quello di una donna, quanto può essere bello l’averne rivelazione all’improvviso, inaspettatamente perché lei te lo offre alla vista e te lo dona come se fosse tuo?
Dopo, quest’ideale è stato sommerso dal cinismo, dal successo, dall’auto-compatimento, dal potere (“Volevo diventare il re dei mondani, e ci sono riuscito. Non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire!”), da vagonate di volgarità, da una miriade di attività frenetiche che riempiono il vuoto dell’esistenza, e dall’infinità di trenini, quelli delle feste, quelli accompagnati dal ritmo di “…  Brigitte Bardot Bardot Brigitte beijou beijou na fila do cinema todo mundo se afogou … Eh meu amigo Charlie eh meu amigo Charlie Brown Charlie Brown ….”, quei trenini che non portano da nessuna parte, si gira sempre a vuoto e ci si ritrova sempre nello stesso posto, come prima … solo un po’ più vecchi e più vuoti di prima.







Joe Gambardella tutto sommato non è l’eroe del nostro tempo, lo è la sua maschera, non la sua umanità o l’anelito alla grande bellezza, lo è il suo cinismo, il non voler più fare ciò che non vuole fare e non i suoi interrogativi spirituali, la voglia di farsi stupire ancora da una “santa” (Suor Maria) centenaria e controversa, paladina della povertà tanto da replicare fieramente alla direttrice della rivista : “Signora, io ho sposato la povertà. E la povertà non si racconta, si vive!” e dormire per terra, salvo poi quando viene a Roma alloggiare in uno degli hotel più prestigiosi, o farsi affascinare dall’immenso spettacolo di uno stormo di fenicotteri rosa che riposano all’alba sul suo terrazzo con vista sul Colosseo che improvvisamente ed un cenno della suora di librano in volo.
Il film non è piaciuto molto (io invece l'ho apprezzato moltissimo), nonostante l’interpretazione di Servillo e degli altri attori che è straordinaria, nonostante il montaggio semplicemente perfetto, nonostante la musica molto indovinata (io avrei aggiunto anche “Rumore” della Carrà, sempre rimixata da Bob Sinclair, come A far l’amore comincia tu che è diventata la colonna sonora del film), una regia attenta e apprezzabile, che non trascura nessuno degli insegnamenti dei grandi registi italiani che hanno girato pellicole memorabili sui temi esistenziali e le inquadrature, i primi piani, l’inserimento di immagini o di suoni improvvisi che cambia atmosfera, più tipicamente hollywoodiani.
Non è piaciuto perché Sorrentino non coglie i tempi, vorrebbe presentarci un “eroe” del nostro tempo a cui dovremmo identificarci per le sue fragilità, per i suoi dubbi, per i suoi rovelli esistenziali, per la sua tormentata ricerca di un grande ideale sacrificato sull’altare del successo; invece, credo, se avesse presentato Joe Gambardella come quel cinico impenitente che cerca di essere, quello ricco, famoso, potente, quello che è l’anima stessa della festa, amato e temuto da tutti, quello che può scoparsi tutte le donne e andarsene quando gli pare, quando una donna ti mostra se stessa, le sue debolezze, le sue fragilità, quando cerca il dialogo o qualcosa che gli assomiglia.
Uno che vive beatamente frequentando la crema della Capitale anzi, che decide cosa è "crema" e cosa non lo è, uno che crea l'evento ed anima il mondo che frequenta che poi farà da modello attraverso i tabloid, i pettegolezzi mondani e le indiscrezioni all’altro mondo, quello delle persone comuni che vorrebbero essere esattamente come i loro eroi e che, invece, si accontentano di contemplarli o di raccoglierne le briciole a distanza sui loro yacht o investendo una somma considerevole per il menù degustazione del più rinomato locale della costa Smeralda.








Non perdonano a Joe i suoi dubbi esistenziali, la sua sensibilità (“A questa domanda i miei amici rispondevano sempre nello stesso modo: la fessa. Io invece rispondevo: l’odore delle case dei vecchi. La domanda era: cosa ti piace di più nella vita? Ero destinato ad una diversa sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore : Jep Gambardella!”, non gli perdonano di non aver risposto la fessa, come farebbe la stragrande maggioranza degli italiani).
Non gli perdonano i suoi gesti di umanità verso le persone che conosce come quando si commuove per e con Romano, il suo sfigato amico sceneggiatore che vuole tornare al suo paese d’origine, nelle sue Highlands, perché si è scocciato di inseguire inutili sogni di successo e di farsi umiliare dalla vita e dalle donne, non gli perdonano di non averlo trattenuto, di non avergli ricordato l’odore della fama e del successo, di non averlo incitato magari con qualche tiro di cocaina a resistere, di non averlo esortato a mollare quella stronza che lo sfrutta senza pietà.
Non gli perdonano la sua sensibilità verso Ramona (la Ferilli), il fatto di non aver approfittato di quella donna strepitosa, dal fisico debordante, sodo, un involucro di carne seducente ed invitante sotto ogni punto di vista, disteso nel tuo letto, disponibile, e di essere più attento alla vicenda umana di questa donna, ammalata gravemente e che spende per curarsi tutto ciò che guadagna come spogliarellista.
Non gli perdonano il suo pianto al funerale del giovane schizofrenico morto, in un mondo in cui la follia che toglie il disturbo da sé, senza clamori, è una benedizione più che qualcosa di cui rammaricarsi, persino la madre adesso si sente libera di dedicarsi a ciò che le era sempre piaciuto fare e che non aveva potuto a causa di questo figlio poco equilibrato.  
Non gli perdonano, soprattutto, questa ricerca affannosa della grande bellezza, di cui nessuno sa più cosa farsene e che nessuno sa più cos’è, a giudicare di come oggi viene offerta alla vista la “Gioconda” al Louvre di Parigi: il successo si fonda sul successo, ci sono molte persone che sono famose per ché sono famose, che sono scrittori perché scrivono, che sono fenomeni mediatici, dettati da un passaggio in tv, che esistono perché appaiono … altro che messaggio universale da condividere con l’umanità, altro che ideali artistici, altro che grande bellezza, altro che … my heart's in the Highlands … il cuore oggi è solo una pompa idraulica.

2 commenti:

  1. Nell'era della "comunicazione estrema" non è sopportabile nulla che non sia comunicabile. La bellezza nei suoi aspetti più intimi conserva qualcosa di incomunicabile che la mette fuori dal mondo attuale e se un tempo quel mondo era lo scrigno più intimo di ognuno oggi lo scrigno è utile solo se qualcuno lo ammira, se può essere "comunicato". Joe è un dinosauro che assiste alla propria estinzione vestendo il cinismo necessario alla sopravvivenza in un contesto in cui l'incomunicabilità della bellezza ne decreta l'inesistenza. Joe ha la sensibilità per coglierla ma non più la forza o la voglia di comunicarla. Resta la fessa e quanto è facilmente trasmissibile, le banalità cui anche lui si concede in un clima di generale decadimento.
    A me il film è piaciuto e mi è piaciuta molto la sua citazione traslata di Roma di Fellini che rappresentava una Roma lenta che non si cura dei millenni. Le scene lunghissime di quel film con i prelati in sfilata fanno da contraltare alle lunghissime scene di Sorrentino con balli sfrenati. Sullo sfondo c'è sempre Roma, incurante dei millenni.

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  2. Nell’era della comunicazione estrema la cosa più difficile è proprio comunicare … e forse siamo proprio nell’era della comunicazione proprio perché abbiamo perso il senso del comunicare. In un certo senso sono d’accordo con te, la bellezza (e non solo lei) nei suoi aspetti più intimi è incomunicabile, ma tutto ciò che è intimo difficilmente passa così com’è ed è facilmente trasmissibile. Nello stesso tempo niente come la bellezza si manifesta così immediatamente e direttamente all’interlocutore, mentre l’intelligenza stenta a mostrarsi con altrettanta chiarezza e si manifesta piuttosto come un balbuziente che volesse discettare di filosofia. Tovo molto bella, addirittura poetica, la seconda parte del tuo commento. Il film è piaciuto molto anche a me, tanto che dopo averti letto ho scritto quanto l’abbia apprezzato, perché mi dava l’idea che non si capisse quando mi sono lanciato a descrivere come non abbia notato molto entusiasmo in sala … alcuni sono usciti prima della fina.
    Ciao

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