«Esseri della durata
d'un giorno. Che cosa siamo? Che cosa non siamo?
Sogno d' un'ombra
l'uomo: ma quando un bagliore divino ci giunga
fulgido risplende
sugli uomini il lume e dolce è la vita».
(Pindaro, Pitica
VIII, vv. 95-97).
Epámeroi (esseri che durano un
sol giorno) scrive Pindaro, questo siamo noi esseri umani, sottesi fra l’alba
della nascita e il tramonto della morte, in un destino ineludibile e
inesorabile; difficile dire cos’è l’uomo e cosa non è con la stessa sicurezza
di Parmenide quando proclama che l’essere è e il non essere non è (28 B 6, 1-2)
o di Protagora che vede l’uomo come misura di tutte le cose, di quelle che sono
per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono (80 B 1).
Effimeri, di breve durata, impalpabili,
illusori, senza speranza, della stessa consistenza del sogno, del delirio o delle
paraeidolie, come quegli insetti (gli efemeri) classificati da Aristotele nella
sua Historia animalium che a suo parere vivevano un solo giorno.
Come si fa a dire cos’è e cosa
non è l’uomo, cosa sono e cosa non sono le cose, se tutti quanti uomini e cose
oggi sono ieri non erano ancora e domani non saranno altro che polvere? Sogno
di un’ombra allora siamo, doppiamente inconsistenti, sia come sogno, sia come
ombra, ma basta soltanto che il bagliore divino risplenda fulgido su di noi
perché il nostro destino ci sia chiaro e dolce sia il nostro vivere.
Ma questo bagliore, divino o meno
che lo si concepisca, è la consapevolezza stessa del nostro destino di nascita
e di morte, del sorgere e tramontare, una consapevolezza che porta con sé
l’angoscia esistenziale di Kierkegaard e di Heidegger e non certo la dolcezza del vivere; la
vita ci si addolcisce non tanto per il sapere, ma per il saper fare o per il
saper raccontare … questa è veramente la scintilla divina: il gesto dell’uomo e
la sua poesia, in contrasto alla sua finitezza e alla caducità di tutte le
cose.
Solo ciò che facciamo o la
narrazione poetica di ciò che siamo e di ciò che proviamo può infrangere
l’oblio del tempo e dispiegare la sua lunga ala sull’eternità; Pindaro, ad
esempio, è giunto fino a noi e le sue parole ci parlano ancora, e ancora ci
suscitano emozioni e fanno sorgere in noi numerosi interrogativi.
Non si può scappare dalla ruota
eterna di un destino di morte individuale se non producendo cose degne di
essere ricordate, meritevoli di menzione, che sopravvivano alle nostre spoglie
mortali e che dialoghino incessantemente con chi verrà dopo di noi; non c’è
altro senso alla vita se non quello di prendere consapevolezza di essere solo
il sogno di un’ombra e inserirsi in un dialogo incessante con i nostri simili
che è natura che si fa cultura.
Alfeo ci invita ad affrettarci,
ad anticipare questo simposio, questo banchetto culturale, di non attendere le
ombre della sera per libare e addolcire le nostre labbra col sacro nettare:
«Beviamo, perché
aspettare le lucerne? Un dito è il giorno» (Fr. 346, v. 1).
Dáktylos (δάκτυλος) améra, un
dito (dattilo) il giorno, circa 7-8 centimetri, ma il dáktylos è anche il piede
della poesia greca e latina ed è nello stesso tempo forma poetica e ritmo
(discendente, in questo caso, contrariamente all’anapesto che è invece
ascendente) e indica una scansione temporale forse scandita dalle dita che
battono la sillaba lunga e le due brevi che caratterizzano questo piede.
Quasi mezzo secolo dopo è Catullo
a reiterare l’invito di Alfeo:
«Nobis cum semel
occidit brevis lux,
nox est perpetua una
dormienda».
(Liber V, vv. 5-6).
“Ma quando muore il
nostro breve giorno,
una notte infinita
dormiremo”.
(Traduzione di
Salvatore Quasimodo).
Quasimodo traduce da par suo, da
poeta, sembra quasi di rievocare i suoi versi più famosi:
«Ognuno sta solo sul
cuore della terra
Trafitto da un raggio
di sole:
ed è subito sera».
(Acque e terre,
1930).
Lux e nox sono in netta
contrapposizione, in antitesi, così come sono in antitesi la brevità del giorno
e l’infinità della notte, ciò che Quasimodo traduce poeticamente con un futuro
(dormiremo) è in realtà un gerundivo (dormienda) che implica l’inesorabilità di
una costrizione, di un sonno obbligato “da la quale nullu homo vivente po’
skappare”, avrebbe aggiunto Francesco d’Assisi.
Giacomo Leopardi cita questi
versi di Pindaro nello Zibaldone, accomunato da un simile profondo sentire
all’antico poeta lirico greco; ma, se Pindaro attendeva dagli dei quel bagliore
che illumini la vita degli uomini e renda dolce la vita, Leopardi crede di
averlo trovato proprio in Pindaro, nella poesia "tutta vestita a
festa" e in tutto il pensiero antico, in cui gli uomini erano tanto vicini
agli dei da partecipare anche loro della divinità, in cui le parole poetiche
erano testimonianza della verità e il vero e il falso erano la stessa cosa e si
diceva il vero attraverso cose false e incredibili (il mito).
Ed è addirittura prodigioso il
dialogo fra il pastore errante e la luna, un dialogo in cui il silenzio della
luna, il sospetto della sua indifferenza, tutta assorta nella sua immortalità e
nella sua ciclica rivoluzione, ripropongono con dilagante angoscia, il carico
delle domande esistenziali che il pastore le pone e si pone e il senso infinito
di solitudine che prova:
«Ma perché dare al sole, / perché
reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura,
perché da noi si dura? / Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu
mortal non sei, / e forse del mio dir poco ti cale. / Pur tu, solinga, eterna
peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver terreno, / il
patir nostro, il sospirar, che sia; / che sia questo morir, questo supremo /
scolorar del sembiante, / e perire della terra, e venir meno / ad ogni usata,
amante compagnia. / E tu certo comprendi / il perché delle cose, e vedi il
frutto / del mattin, della sera, / del tacito, infinito andar del tempo. / Tu
sai, tu certo, a qual suo dolce amore / rida la primavera, / a chi giovi
l’ardore, e che procacci / il verno co’ suoi ghiacci. / Mille cose sai tu,
mille discopri, / che son celate al semplice pastore. / Spesso quand’io ti miro
/ star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel
confina; / ovver con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e
quando miro in ciel arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante
facelle? / che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dir
questa / solitudine immensa? Ed io che sono?».
(Giacomo Leopardi, Canto notturno
di un pastore errante dell’Asia, vv. 52 ss.).
Il pastore errante chiede alla
luna, ad essa solleva con angoscia le mani, ad essa pone le sue domande, come
Amleto pone il suo dubbio assoluto e radicale al teschio di Yorick dissepolto
dalla fossa comune, a chi non potrà rispondere, a chi la morte o la distanza
siderale fanno si che non possa esserci replica, come gli antichi chiedevano
alle stelle di far luce sul proprio destino, a chi non può far altro che
rimandarti amplificata l’eco della tua angoscia.
Del resto, come era ben chiaro
fin dagli albori della nostra civiltà:
«… molte sono le cose inquietanti
[deinà], ma nessuna è più inquietante [deinóteros] dell'uomo …». (Sofocle, Antigone, vv.
332-333).
Nessun fenomeno naturale, per
quanto prodigioso, può scatenare l’inquietudine, l’angoscia, quel senso fra il
portentoso e il terribile, come esercito schierato in battaglia, che dilagano solo
quando l’uomo con le sue technaí (la
navigazione, l'agricoltura, l'allevamento degli animali domestici e il dominio
su quelli selvatici, il linguaggio, le conquiste civili, la medicina e le
leggi) dimentica i suoi limiti e il suo destino e travalica l’ordine immutabile
della natura garantito dalla necessità.
Questa grande inquietudine sale
dal coro dell’Antigone di Sofocle e ammonisce l’uomo di tenere entro i limiti la
sua hýbris, la sua tracotanza, il suo
voler essere simile agli dei immortali, quando basta un soffio appena perché di
tutta la sua superbia, del suo orgoglio e della sua arroganza non rimanga altro
che polvere.
Traduco il termine δέιυα [deinà]
con “inquietante” invece che con "prodigioso" o con “meraviglioso”, “portentoso”,
“stupendo”, “mirabile”, o “misterioso”, …, come leggo in molte traduzioni
correnti; del resto questo aggettivo viene utilizzato quasi esclusivamente per
esprimere qualcosa di tremendo, di terribile e che nello stesso tempo incute
rispetto e timore, come ad esempio un esercito schierato in battaglia o un
guerriero invincibile nella sua scintillante armatura e quasi mai per esprimere
lo stupore, la meraviglia, come di fronte ad un qualche evento naturale o alla
bellezza artistica prodotta dall’uomo.
In questo contesto l’equivoco di
traduzione può far slittare l’intera opera di Sofocle dal senso maestoso di
tragedia che volle imprimergli l’antico autore ad una soap opera moderna;
provate a recitarla così e più che la tragedia immensa di una giovane donna che
ha appena perso tutto, famiglia, affetti, e non vuole perdere anche la sua
umanità anche a costo di perdere l’amore e la sua vita stessa, vi sembrerà Tempesta d'amore:
“Molte sono le cose
meravigliose
ma nulla e più
meraviglioso dell’uomo,
quando varca il mare
bianco di schiuma
e penetra fra i
gorghi ribollenti
sotto la sferza del
vento del sud;
e anno dopo anno
rivolge
con l’aratro trainato
dai cavalli
la più eccelsa fra
gli dei,
la terra immortale e
infaticabile.
[…]”.
(Sofocle, Antigone,
332-340).
Inquietante, dunque, è l’uomo e
il suo destino, che deve sempre misurarsi con la grande promessa che la vita
dischiude a ciascuno di noi e le infinite lacerazioni che il tempo ci infligge
togliendoci una dopo l’altra le infinite illusioni che ci creiamo: la felicità,
la gioia, la serenità, la salute e la vita stessa.
Persino il senso ci è negato e spesso
dobbiamo affrontare eventi che non ne hanno alcuno, che senso ha ad esempio per
Ettore essere chiamato a rendere conto di un uomo ucciso in un duello ne corso
di una guerra, che senso ha battersi con un eroe immortale, che senso ha sapere
di stare andando incontro alla propria morte senza scampo alcuno, che senso ha
non potersi sottrarre al proprio destino che l’ha fatto essere Ettore, l’eroe
dei troiani, che senso ha non potersi sottrarre a questa sfida contro Achille
che lo trafiggerà con la sua lancia?
Che senso ha sapere già in
partenza che egli non avrà pietà per i tuoi resti mortali, che saranno
trascinati nella polvere con la biga intorno alle mura e poi offerte in pasto
ai cani nel campo acheo, che senso ha sapere in partenza che il tuo gesto di
estremo coraggio non salverà i tuoi cari, non salverà la tua città, che cadrà
fra le fiamme per non rinascere, che non salverà la tua donna, violentata sulle
mura stesse e portata via come schiava e concubina e non salverà tuo figlio,
che verrà scaraventato giù dalle mura a fracassarsi al suolo per mano di Neottolemo, il figlio del tuo assassino?
Cosa verrà tributato ad Ettore se
non quell’ “onore di pianti” che invoca per lui il poeta?
“E tu onore di
pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e
lagrimato il sangue
per la patria
versato, e finché il Sole
risplenderà su le
sciagure umane”.
(Ugo Foscolo, I
Sepolcri, 292-295).
Ma la saggezza di Ettore, degli
eroi, dei filosofi, dei poeti antichi e moderni e dei grandi uomini di ogni
epoca è quella di non disgiungere la vita dalla morte, di essere certi in ogni
momento che il fine stesso di ogni vita sia la morte e che non si può essere
felici in vita se non attraversando e accettando l’idea della nostra morte,
come scrive Mozart a suo padre ammalato:
“ … spero come in una cosa certa
[si riferisce alla guarigione che augura al padre, che gli aveva scritto di
essere ammalato, e che poco tempo dopo morirà], benché ormai sia abituato a
temere sempre il peggio, in ogni circostanza. Poiché la morte (a ben guardare)
è l’ultimo vero fine della nostra vita, da qualche anno sono entrato in tanta
familiarità con quest’amica sincera e carissima dell’uomo, che la sua immagine
non solo non ha per me più nulla di terrificante, ma mi appare addirittura
molto tranquillizzante e consolante. E ringrazio il mio Dio di avermi concesso
la fortuna di avere l’opportunità (Lei mi capisce) di riconoscere in essa la
chiave della nostra vera felicità” (Wolfgang Amadeus Mozart, 04 aprile 1787 http://www.rodoni.ch/proscenio/cartellone/cosifantutte/letteraalpadre.html
).
È straordinario come eventi molto
dolorosi siano capaci di illuminarci all’istante, dandoci bagliori improvvisi,
per cui tutto ciò che prima era al centro della nostra vita passa in periferia,
fino all’irrilevanza e tutto ciò che era periferico balza al centro, ciò che
prima era indispensabile diventa dispensabilissimo, ciò che era dominante
diventa recessivo, ciò che era preminente diventa insignificante e ininfluente.
“Quem di diligunt, adulescens
moritur”, Chi è caro agli dèi, muore giovane. (Plauto, Bacchides, Le Bacchidi).
Non ho la lucidità né l’umore
adatto per star dietro a questo blog, mi prendo una pausa.