mercoledì 21 novembre 2012

CADUCITÀ (VERGÄNGLICHKEIT) 2

Joaquin Sorolla Y Bastida Paseo a orillas del mar (o Paseo por la playa), 1909.    

 
Joaquín Sorolla Bastida (Valencia 1863 – Cercedilla 1923) non fu un artista “maledetto”, come siamo ormai abituati a pensare leggendo le biografie dei più grandi artisti degli ultimi secoli (ci sono stati girovaghi alla perenne ricerca di qualcosa, i tormentati, gli estatici, i delinquenti, gli assassini, i folli, gli autolesionisti, i visionari, i deliranti, gli estetizzanti, chi ricercava l’essenza, chi negava ogni essenza e mostrava i molteplici volti del reale).
Sposò la donna che amava e la amò riamato per tutta la vita, ebbe degli splendidi figli, fu circondato e stimato da molti amici e colleghi che arricchirono i suoi giorni, conobbe il successo molto precocemente e da allora fu un crescendo di riconoscimenti nazionali e internazionali, ne ricavò un certo benessere economico e una certa agiatezza di vita, ebbe incarichi di prestigio, girò in Inghilterra, in Francia, in Italia e in Portogallo, ma amò profondamente la sua Spagna e in particolare l’Andalusia.
Si può dire che ebbe una vita felice, come capita a pochi uomini, e che non conobbe sentimenti forti come la rabbia impotente, la disperazione, il vuoto, la tristezza profonda, l’orrore, ... non ho visto niente di tutto questo impresso nelle sue tele quando sono andato a vederle, la primavera scorsa, a Ferrara al Palazzo dei Diamanti.
Mi è sembrato di cogliere, piuttosto, nella sua pennellata scorrevole e sicura, nel gioco di luci e di colori che baluginava (lampeggiava) in quei dipinti, nelle rappresentazioni del paesaggio iberico, nei suoi giardini, nelle sue architetture cristiano-moresche, negli uomini che rappresentava e nelle loro opere e fatiche, di una bellezza e di una forza struggenti, come se una lieve malinconia velasse il tutto, come il velo di Maya altera l’esatta percezione della realtà in Arthur Shopenhauer e nelle Upanishad da cui egli ricavò il concetto.
Precocemente sensibilizzato alla perdita delle persone (rimase orfano quando aveva due anni di età), era affascinato dalla bellezza che lo circondava, ma temeva che fosse effimera, che gli istanti indimenticabili della vita sarebbero trascorsi irreversibilmente, e tentò magistralmente di fermare tanta bellezza sulle sue tele, trasformando la grazia, il movimento e i colori in guizzi vividi di luce, che facessero rivivere ciò che amava. 

Joaquín Sorolla, Chicos en la playa, Museo del Prado, 1910.

Joaquín Sorolla, Chicos en la playa, Museo del Prado, 1910 (particular).

 
Un mio collega, Miguel Angel Gonzales Torres, nato nella stessa terra solare di Joaquín Sorolla, nel Congresso Internazionale di Psicoanalisi tenutosi a Roma nel maggio del 2006, utilizzò due esempi per introdurre il suo concetto di tempo in relazione al processo psicoanalitico; io adesso userò i suoi stessi esempi per parlare della caducità, perché anch’essa è legata al concetto di tempo, così come lo è il processo psicoanalitico: con la differenza che la caducità è Penelope che disfa la tela, mentre il processo analitico è Penelope che tesse la tela.

 « I've seen things you people wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those... moments will be lost... in time, like tears... in rain. Time to die ».
(Roy Batty, dal film Blade Runner di Ridley Scott, 1982).

« Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire ».

Joaquín Sorolla y Bastida, Ayamonte, pesca del atún (1919).


Queste, citate da Miguel Angel, sono le ultime parole di Roy Batty, un replicante che porta con sé una data di scadenza, di distruzione (come ciascuno di noi, del resto), che si è battuto con altri replicanti per posticiparla, e questa battaglia li vede tutti sconfitti. Non si rammarica della sua fine, che prima o poi sarebbe arrivata e ora che sono morti tutti i suoi compagni, e anche Pris, la sua amata, non vive più e con loro è andata via gran parte della motivazione a prolungare la sua esistenza, si rammarica piuttosto per il fatto che di lui (di loro), dei loro momenti, non rimarrà nulla, il loro ricordo si perderà come lacrime nella pioggia.


Joaquín Sorolla y Bastida, Entre naranjos, 1907.

 
Il poeta, scrittore e filosofo spagnolo Miguel de Unamuno ci lasciò in versi le sue riflessioni circa la caducità delle cose e della vita stessa:

Dormir nella memoria dell’oblio
dell’oblio della memoria,
e come nel materno utero mi perdo
e li perduto non nasco.
Benedetto avvenire mio trascorso
domani eterno ieri;
tu, ogni cosa che fu in eterno assolta,
mia madre e figlia e sposa”.

“ ... E quando al tramontare,
il sole accenderà l’oro secolare che ti ricama,
col tuo linguaggio di messaggera dell’eterno,
racconta che sono esistito”.

(Miguel de Unamuno y Jugo, (1907), Poesie scelte, Passigli, Firenze, 2006)

Joaquín Sorolla y Bastida, El baño del caballo, Museo Sorolla, 1909.

 
Nella prima poesia è l’amore per la sua donna a mantenere memoria di lui o a far si che memoria e oblio gli siano indifferenti, come il nascere o il non nascere; nella seconda affida alla sua città, Salamanca, di testimoniare la sua esistenza, di fare in modo che il suo passaggio terreno non declini nell'oblio.
Questo senso di transitorietà (la vergänglickeit freudiana) ha una letteratura sterminata (quasi quanto quella dell’amore) fin dall’antichità, fin dai primi segni tracciati dall’uomo sulla parete con una lastra di selce c’è quest’angoscia del tempo che passa, della modificazione di tutte le cose, dell’affanno nel trattenerle nella loro forma originaria, di eternizzarle rappresentandole, narrandole, in modo che rimangano anche quando non ci sono più.

Joaquín Sorolla y Bastida, Cosiendo la vela, 1896.

 
L’aedo Mimnermo canta versi che più tardi ispireranno Ungaretti, Giacosa e Giuliano Sangiorgi (per Malika Ayane):

«Noi siamo come le foglie, che la bella stagione
di primavera genera, quando del sole ai raggi
crescono: brevi istanti, come foglie, godiamo
di giovinezza il fiore, né dagli dei sappiamo
il bene e il male. Intorno stanno le nere dee:
reca l’una la sorte della triste vecchiezza,
l’altra di morte. Tanto dura di giovinezza
il frutto quanto la terra spande la luce il sole.
Ma, quando questa breve stagione è dileguata,
allora, anzi che vivere, è più dolce morire».
(fr.2 Diehl, Lirici greci, Garzanti, Milano, 1976, p. 5).


Joaquín Sorolla y Bastida, El patio de Comares. La Alhambra de Granada. Óleo sobre lienzo, Museo Sorolla, Madrid, 1917.
 
“ ... è più dolce morire” dice Mimnermo, è molto prossimo al sofocleo áriston me phynai (meglio non essere mai nati) (Edipo a Colono, 1225) e, prima di lui ai versi di Bacchilide “Breve è la vita umana, e la speranza è la sua rovina. Non essere mai nato: questo per l’uomo sarebbe la ventura delle venture, non esistere, non vedere il sole”.
Molta fortuna ha avuto nella storia della cultura occidentale il “carpe diem” di Orazio, che alcuni traducono con “cogli l’attimo”, a cui io preferisco “ruba un giorno”, inteso come vivi il giorno presente, strappa il tuo giorno alle cose che semplicemente si susseguono, che accadono, e fallo tuo, prendilo, strappalo all’indeterminatezza, alle cose che non ritieni siano in tuo potere, perché il futuro è indecifrabile, indeterminato. Smetti di sperare nel domani, perché il domani non è certo sia migliore di oggi, esso sarà esattamente come oggi ... ou pire (o peggio, aggiungerà Jacques Lacan, come al solito giocando sulla parola e sui suoi infiniti significati, a partire dal J’vous en prie ... la prego ... J’vous en pire ... la spregio, la peggio, lapeggio; oppure, ... ou pire ... o peggio ... Ça s’oupire ... s’ospira, s’opeggia).


Joaquín Sorolla y Bastida,  Rompeolas San Sebastian, 1917-18.

 
Dum loquimur fugerit
invida aetas : carpe diem,
quam minimum credula postero

Mentre stiamo parlando,
il tempo invidioso sarà già fuggito:
ruba un giorno,
confidando il meno possibile nel domani
(Orazio, Odi, I, 11, 7-8).

Joaquín Sorolla y Bastida, La vuelta de la pesca, Óleo sobre lienzo, Musée d'Orsay,  Paris, 1894.

 
Attraversando la cupezza medioevale e l’aggrapparsi al divino come unica luce, fino ai bagliori rinascimentali dove luci ed ombre si dividono equamente la scena come in questi versi:


Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
del doman non v’è
certezza”.
(Lorenzo ‘de Medici, Canzona di Bacco e di Arianna, in Canti carnascialeschi).

Joaquín Sorolla y Bastida, Maria pintando en El Pardo, Colección particular, 1907.

 
O in questi, di poco posteriori:

«Non sia mai ch’io ponga impedimenti
All’unione di due anime fedeli; Amore non è amore
Se muta quando scopre un mutamento
O tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un faro sempre fisso
Che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
È la stella che guida di ogni barca,
Il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra
E gote dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
Ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio;
Se questo è un errore e mi sarà provato,
Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato
».
(William Shakespeare, Sonetto 116).

Joaquín Sorolla y Bastida, Retrato de Benito Pérez Galdós,  Casa-Museo Pérez Galdós, Grand Canary, Spain, 1894.

 
Nella terza decade della sua vita Michel de Montaigne iniziò ad immalinconirsi, talvolta in occasione di una festa, di un convivio, di qualche occasione festiva se ne stava assorto in disparte e si estraniava da tutto; chi lo conosceva non lo riconosceva, era solito piuttosto partecipare attivamente alle discussioni e non si lasciava sfuggire occasione per corteggiare una bella donna.
Il tema intorno a cui vorticavano i suoi pensieri era quello della morte, nelle letture che faceva dei filosofi classici l’argomento era trattato ampiamente: Plutarco, Seneca, ..., concepivano il loro pensiero come una preparazione alla morte, Cicerone aveva scritto che: “Filosofare è imparare a morire”. Ma non c’erano solo i libri a creare nella sua mente la persistenza in memoria della morte, nel 1563 (quando egli aveva trent’anni) morì il suo amico più caro, Étienne de la Boétie, di peste e, nonostante il pericolo di esserne contagiato Michel volle assisterlo fino alla fine. Cinque anni dopo, nel 1568, morì suo padre, forse a causa delle complicazioni in seguito ad un attacco di calcoli renali (malattia di cui soffriva lo stesso Michel).
Nella primavera del 1569 perse il fratello minore Arnaud de Saint-Martin in una maniera assurda, stava giocando al jeu de paume, un gioco simile al tennis, quando fu colpito alla testa dalla pallina; inizialmente non sembrò riportarne traumi, ma qualche ora dopo perse conoscenza e la vita stessa, forse in seguito ad un embolo o ad una emorragia cerebrale. L’anno successivo, nel 1570 gli muore la figlia primogenita di soli due mesi di vita e anche in seguito, di sei figlie che ebbe con la moglie Françoise de La Cassaigne, solo una, Léonor, sopravvisse.
Senza contare che tutto intorno a lui, in Francia si stava svolgendo la carneficina più assurda della storia (se mai ci sia una carneficina sensata), una guerra civile di enormi proporzioni che dilagava in tutta l’Europa, fra cattolici e protestanti, di cui gli storici faticano a trovare delle motivazioni e a cercare di comprendere come fu possibile un simile incredibile macello.

Joaquín Sorolla y Bastida, Las tres velas, Private Collection, 1903.

 
Sensibilizzato da tutto questo la morte teneva campo stabile nella sua mente, tanto che egli scrisse nei suoi Essays: “Quando ci passano davanti agli occhi questi esempi tanto frequenti e tanto consueti, com’è possibile che ci si possa liberare del pensiero della morte e che a ogni istante non ci sembri che essa ci tenga per il collo?” (Michel de Montaigne, Saggi, I, 20, p. 108).

E ancora:

“A ogni istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti. All’inciampar d’un cavallo, al cader d’una tegola, alla minima puntura di spilla, mettiamoci immediatamente a rimurginare: «Ebbene, quand’anche fosse la morte medesima?». (ibid., I, 20, p. 109-110).

Joaquín Sorolla y Bastida, Mi mujer y mis hijas en el jardín, Óleo sobre lienzo, Colección Masaveu, Oviedo, 1910.

 
A liberarsi di questa che avrebbe dovuto essere un esercizio spirituale teso a familiarizzarsi con la propria morte, tanto che la immaginava in ogni dettaglio, persino il suo funerale e la distribuzione dei suoi beni ai suoi eredi e alla servitù, mentre era sempre di più un’ossessione, fu proprio un brutto incidente a cavallo che gli occorse.
A Montaigne piaceva cavalcare, ed ogni occasione era per lui buona per prendere il cavallo e inseguire al galoppo i propri pensieri o lasciarseli alle spalle, nonostante i pericoli anche all’interno della sua tenuta, fossero tutt’altro che occasionali, bande armate e semplici predoni bivaccavano nei dintorni (ed ovunque in tutta la Francia), pronti ad assalire chiunque passasse.
Ma il pericolo non venne da un agguato o da una rapina, che erano tutt’altro che infrequenti, venne piuttosto da uno dei suoi servi dietro di lui, un omone alto e grosso che cavalcava un grosso stallone che, improvvisamente mentre erano tutti al passo e il suo padrone era davanti a lui lungo il sentiero, si lanciò in un galoppo sfrenato.

Joaquín Sorolla y Bastida, Retrato de Maria mirando los peces, Sotheby's, 1907.

 
Probabilmente il cavallo di Montaigne dovette spaventarsi a quelle grida e si spaventò ancora di più quando lo stallone e l’enorme servo gli piombarono addosso (sarà stato un calcolo errato dello spazio a disposizione sul sentiero, che in realtà era stretto) e lo abbatterono a terra facendo letteralmente volare in aria il suo cavaliere per poi ripiombare come morto sul terreno qualche passo più in là.

Joaquín Sorolla y Bastida, Saltando a la comba. La granja,  Museo del Prado, Madrid, 1907.
 
Montaigne perse conoscenza, poi sembrò riprendersi, ma era in uno stato di coscienza alterato, vomitava sangue e perdeva conoscenza continuamente; dai suoi ricordi emerge la sensazione di essere sul punto di perdere la vita, ad un certo punto rifiutò ogni cura certo che sarebbe morto immancabilmente da li a qualche istante. Nelle sue memorie parla di un senso di felicità, di liberazione, di “assaporare” la morte ... assaporare nel vero senso della parola, come fa un bambino quando si porta in bocca un oggetto sconosciuto, stava “assaggiando” la morte.


Joaquín Sorolla y Bastida, Niña en la playa, 1910, Christie's Images.

 
Da quell’esperienza egli ne uscì completamente guarito dalla sua ossessione per la morte, da allora in poi la rispettava ma non la temeva e non se ne curava più di tanto; la morte poteva essere tutt’al più un istante di sofferenza che non merita i nostri struggimenti, le nostre paure e le nostre ansie. Di essa scrisse più tardi:

Se non sapete morire, non preoccupatevene; la natura vi istruirà sul momento, in modo completo e sufficiente; essa compirà a puntino questa operazione per voi; non datevene voi la briga”. (ibid., III, 12, p. 1405).

Joaquín Sorolla y Bastida, Barcas varadas en la playa. Valencia,  1915.


Da allora in poi non si preoccupò più di come morire, ma di come vivere e, strano a concepirsi per noi moderni, sosteneva che bisognava infondere un po’ della dolcezza della morte alla propria vita, perché le trasmettesse un po’ di leggerezza e di superficialità ... sarà strano, ma io questo concetto lo capisco perfettamente.

[To be continued ...].



3 commenti:

  1. Caro Garbo, lascio qui un rapido commento solo per esprimere il mio apprezzamento per un post di cui ho gustato ogni parola, ogni verso, ogni immagine di un pittore che non conoscevo. Questa sera non me la sento di affrontare il tema, stasera farò un dispetto alla morte, ignorandola. Ti lascio però una canzone, non del tutto attinente, ma sicuro che susciterà qualche pensiero divertente.
    Un saluto e buon fine settimana.

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  2. Ti ringrazio, Antonio, il tuo è il primo commento di questo blog (anche se fino adesso non lo conosceva nessuno); grazie anche per la canzone.
    Ciao

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  3. Mi sento in sintonia con le tue riflessioni.
    Certamete due mesi fa avevo molta più paura della morte rispetto ad oggi.
    Sono sicura che la natura saprà assisterci in quel momento e poi,credo che come non ricordiamo il momento della nascita, anche il momento della morte sarà allo stesso modo inconsapevole. Non si sa come si farà, ma come è successo a un numero indefinibile di predecessori, succederà anche a noi, ce la faremo senz'altro.Intanto è bellissimo vivere nella bellezza dell'arte e della natura. Questo post è un bijou per i bellissimi dipinti di Joaquin Sorolla y Bastida di cui conoscevo solo l'opera " El baño del caballo", e per per come hai trattato questo argomento difficile.
    Ciao :-)

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