Joaquin Sorolla Y Bastida Paseo a orillas del mar (o Paseo por la playa), 1909. |
Joaquín Sorolla Bastida
(Valencia 1863 – Cercedilla 1923) non fu un artista “maledetto”, come siamo
ormai abituati a pensare leggendo le biografie dei più grandi artisti degli
ultimi secoli (ci sono stati girovaghi alla perenne ricerca di qualcosa, i
tormentati, gli estatici, i delinquenti, gli assassini, i folli, gli
autolesionisti, i visionari, i deliranti, gli estetizzanti, chi ricercava
l’essenza, chi negava ogni essenza e mostrava i molteplici volti del reale).
Sposò la donna che amava e la amò
riamato per tutta la vita, ebbe degli splendidi figli, fu circondato e stimato
da molti amici e colleghi che arricchirono i suoi giorni, conobbe il successo
molto precocemente e da allora fu un crescendo di riconoscimenti nazionali e
internazionali, ne ricavò un certo benessere economico e una certa agiatezza di
vita, ebbe incarichi di prestigio, girò in Inghilterra, in Francia, in Italia e
in Portogallo, ma amò profondamente la sua Spagna e in particolare l’Andalusia.
Si può dire che ebbe una vita felice,
come capita a pochi uomini, e che non conobbe sentimenti forti come la rabbia
impotente, la disperazione, il vuoto, la tristezza profonda, l’orrore, ... non
ho visto niente di tutto questo impresso nelle sue tele quando sono andato a
vederle, la primavera scorsa, a Ferrara al Palazzo
dei Diamanti.
Mi è sembrato di cogliere,
piuttosto, nella sua pennellata scorrevole e sicura, nel gioco di luci e di
colori che baluginava (lampeggiava) in quei dipinti, nelle rappresentazioni del
paesaggio iberico, nei suoi giardini, nelle sue architetture
cristiano-moresche, negli uomini che rappresentava e nelle loro opere e
fatiche, di una bellezza e di una forza struggenti, come se una lieve
malinconia velasse il tutto, come il velo di Maya altera l’esatta
percezione della realtà in Arthur Shopenhauer e nelle Upanishad
da cui egli ricavò il concetto.
Precocemente sensibilizzato alla perdita delle persone (rimase orfano
quando aveva due anni di età), era affascinato dalla bellezza che lo
circondava, ma temeva che fosse effimera, che gli istanti indimenticabili della
vita sarebbero trascorsi irreversibilmente, e tentò magistralmente di fermare
tanta bellezza sulle sue tele, trasformando la grazia, il movimento e i colori
in guizzi vividi di luce, che facessero rivivere ciò che amava.
Joaquín Sorolla, Chicos en la playa, Museo del Prado, 1910. |
Joaquín Sorolla, Chicos en la playa, Museo del Prado, 1910 (particular). |
Un mio collega, Miguel Angel
Gonzales Torres, nato nella stessa terra solare di Joaquín Sorolla, nel
Congresso Internazionale di Psicoanalisi tenutosi a Roma nel maggio del 2006,
utilizzò due esempi per introdurre il suo concetto di tempo in relazione al
processo psicoanalitico; io adesso userò i suoi stessi esempi per parlare della
caducità, perché anch’essa è legata al concetto di tempo, così come lo è il
processo psicoanalitico: con la differenza che la caducità è Penelope che disfa
la tela, mentre il processo analitico è Penelope che tesse la tela.
« I've seen things you people
wouldn't believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched
c-beams glitter in the dark near the Tannhauser Gate. All those... moments will
be lost... in time, like tears... in rain. Time to die ».
(Roy Batty, dal film Blade Runner
di Ridley Scott, 1982).
« Io ne ho viste cose
che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al
largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino
alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come
lacrime nella pioggia. È tempo di morire ».
Joaquín Sorolla y Bastida, Ayamonte, pesca del atún (1919). |
Queste, citate da Miguel Angel,
sono le ultime parole di Roy Batty, un replicante che porta con sé una data di
scadenza, di distruzione (come ciascuno di noi, del resto), che si è battuto
con altri replicanti per posticiparla, e questa battaglia li vede tutti sconfitti.
Non si rammarica della sua fine, che prima o poi sarebbe arrivata e ora che
sono morti tutti i suoi compagni, e anche Pris, la sua amata, non vive più e
con loro è andata via gran parte della motivazione a prolungare la sua
esistenza, si rammarica piuttosto per il fatto che di lui (di loro), dei loro
momenti, non rimarrà nulla, il loro ricordo si perderà come lacrime nella
pioggia.
Joaquín Sorolla y Bastida, Entre naranjos, 1907. |
Il poeta, scrittore e filosofo spagnolo Miguel de Unamuno
ci lasciò in versi le sue riflessioni circa la caducità delle cose e della vita
stessa:
“Dormir nella memoria
dell’oblio
dell’oblio della
memoria,
e come nel materno
utero mi perdo
e li perduto non
nasco.
Benedetto avvenire
mio trascorso
domani eterno ieri;
tu, ogni cosa che fu
in eterno assolta,
mia madre e figlia e
sposa”.
“ ... E quando al
tramontare,
il sole accenderà
l’oro secolare che ti ricama,
col tuo linguaggio di
messaggera dell’eterno,
racconta che sono
esistito”.
(Miguel de Unamuno
y Jugo, (1907), Poesie scelte, Passigli, Firenze, 2006)
Joaquín Sorolla y Bastida, El baño del caballo, Museo Sorolla, 1909. |
Nella prima poesia è l’amore per
la sua donna a mantenere memoria di lui o a far si che memoria e oblio gli
siano indifferenti, come il nascere o il non nascere; nella seconda affida alla
sua città, Salamanca, di testimoniare la sua esistenza, di fare in modo che il
suo passaggio terreno non declini nell'oblio.
Questo senso di transitorietà (la
vergänglickeit freudiana) ha una letteratura sterminata (quasi quanto
quella dell’amore) fin dall’antichità, fin dai primi segni tracciati dall’uomo
sulla parete con una lastra di selce c’è quest’angoscia del tempo che passa,
della modificazione di tutte le cose, dell’affanno nel trattenerle nella loro
forma originaria, di eternizzarle rappresentandole, narrandole, in modo che
rimangano anche quando non ci sono più.
Joaquín Sorolla y Bastida, Cosiendo la vela, 1896. |
L’aedo Mimnermo canta
versi che più tardi ispireranno Ungaretti, Giacosa e Giuliano
Sangiorgi (per Malika
Ayane):
«Noi siamo come le
foglie, che la bella stagione
di primavera genera,
quando del sole ai raggi
crescono: brevi
istanti, come foglie, godiamo
di giovinezza il
fiore, né dagli dei sappiamo
il bene e il male. Intorno stanno le nere dee:
reca l’una la sorte
della triste vecchiezza,
l’altra di morte.
Tanto dura di giovinezza
il frutto quanto la
terra spande la luce il sole.
Ma, quando questa
breve stagione è dileguata,
allora, anzi che
vivere, è più dolce morire».
(fr.2 Diehl, Lirici
greci, Garzanti, Milano, 1976, p. 5).
Joaquín Sorolla y Bastida, El patio de Comares. La Alhambra de Granada. Óleo sobre lienzo, Museo Sorolla, Madrid, 1917. |
“ ... è più dolce morire” dice
Mimnermo, è molto prossimo al sofocleo áriston me phynai (meglio non essere mai nati) (Edipo a Colono, 1225) e, prima di lui ai
versi di Bacchilide “Breve
è la vita umana, e la speranza è la sua rovina. Non essere mai nato: questo per
l’uomo sarebbe la ventura delle venture, non esistere, non vedere il sole”.
Molta fortuna ha avuto nella storia della cultura
occidentale il “carpe diem” di Orazio, che alcuni traducono con “cogli
l’attimo”, a cui io preferisco “ruba un giorno”, inteso come vivi il giorno
presente, strappa il tuo giorno alle cose che semplicemente si susseguono, che
accadono, e fallo tuo, prendilo, strappalo all’indeterminatezza, alle cose che non ritieni
siano in tuo potere, perché il futuro è indecifrabile, indeterminato. Smetti di
sperare nel domani, perché il domani non è certo sia migliore di oggi, esso
sarà esattamente come oggi ... ou pire (o peggio, aggiungerà Jacques Lacan,
come al solito giocando sulla parola e sui suoi infiniti significati, a partire
dal J’vous en prie ... la prego ... J’vous en pire ... la
spregio, la peggio, lapeggio; oppure, ... ou pire ... o peggio ... Ça
s’oupire ... s’ospira, s’opeggia).
Joaquín Sorolla y Bastida, Rompeolas San Sebastian, 1917-18. |
“Dum loquimur fugerit
invida aetas :
carpe diem,
quam minimum credula
postero”
“Mentre stiamo
parlando,
il tempo invidioso
sarà già fuggito:
ruba un giorno,
confidando il meno
possibile nel domani”
(Orazio, Odi,
I, 11, 7-8).
Joaquín Sorolla y Bastida, La vuelta de la pesca, Óleo sobre lienzo, Musée d'Orsay, Paris, 1894. |
Attraversando la cupezza medioevale e l’aggrapparsi al
divino come unica luce, fino ai bagliori rinascimentali dove luci ed ombre si
dividono equamente la scena come in questi versi:
“Quant’è bella
giovinezza,
che si fugge
tuttavia!
Chi vuol esser lieto,
sia:
del doman non v’è
certezza”.
(Lorenzo ‘de
Medici, Canzona di Bacco e di Arianna, in Canti carnascialeschi).
Joaquín Sorolla y Bastida, Maria pintando en El Pardo, Colección particular, 1907. |
O in questi, di poco posteriori:
«Non sia mai ch’io ponga impedimenti
All’unione di due anime fedeli; Amore non è amore
Se muta quando scopre un mutamento
O tende a svanire quando l’altro s’allontana.
All’unione di due anime fedeli; Amore non è amore
Se muta quando scopre un mutamento
O tende a svanire quando l’altro s’allontana.
Oh no! Amore è un
faro sempre fisso
Che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
È la stella che guida di ogni barca,
Il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
È la stella che guida di ogni barca,
Il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.
Amore non è soggetto
al Tempo, pur se rosee labbra
E gote dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
E gote dovran cadere sotto la sua curva lama;
Amore non muta in poche ore o settimane,
Ma impavido resiste
al giorno estremo del giudizio;
Se questo è un errore e mi sarà provato,
Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato».
Se questo è un errore e mi sarà provato,
Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato».
(William Shakespeare, Sonetto 116).
Joaquín Sorolla y Bastida, Retrato de Benito Pérez Galdós, Casa-Museo Pérez Galdós, Grand Canary, Spain, 1894. |
Nella terza decade della sua vita
Michel de Montaigne iniziò ad immalinconirsi, talvolta in occasione di
una festa, di un convivio, di qualche occasione festiva se ne stava assorto in
disparte e si estraniava da tutto; chi lo conosceva non lo riconosceva, era
solito piuttosto partecipare attivamente alle discussioni e non si lasciava
sfuggire occasione per corteggiare una bella donna.
Il tema intorno a cui vorticavano
i suoi pensieri era quello della morte, nelle letture che faceva dei filosofi
classici l’argomento era trattato ampiamente: Plutarco, Seneca,
..., concepivano il loro pensiero come una preparazione alla morte, Cicerone
aveva scritto che: “Filosofare è imparare a morire”. Ma non c’erano solo i
libri a creare nella sua mente la persistenza in memoria della morte, nel 1563
(quando egli aveva trent’anni) morì il suo amico più caro, Étienne de la
Boétie, di peste e, nonostante il pericolo di esserne contagiato Michel
volle assisterlo fino alla fine. Cinque anni dopo, nel 1568, morì suo padre,
forse a causa delle complicazioni in seguito ad un attacco di calcoli renali
(malattia di cui soffriva lo stesso Michel).
Nella primavera del 1569 perse il
fratello minore Arnaud de Saint-Martin in una maniera assurda, stava
giocando al jeu de paume, un gioco simile al tennis, quando fu colpito
alla testa dalla pallina; inizialmente non sembrò riportarne traumi, ma qualche
ora dopo perse conoscenza e la vita stessa, forse in seguito ad un embolo o ad
una emorragia cerebrale. L’anno successivo, nel 1570 gli muore la figlia
primogenita di soli due mesi di vita e anche in seguito, di sei figlie che ebbe
con la moglie Françoise de La Cassaigne, solo una, Léonor,
sopravvisse.
Senza contare che tutto intorno a lui, in Francia si stava svolgendo la
carneficina più assurda della storia (se mai ci sia una carneficina sensata),
una guerra civile di enormi proporzioni che dilagava in tutta l’Europa, fra
cattolici e protestanti, di cui gli storici faticano a trovare delle
motivazioni e a cercare di comprendere come fu possibile un simile
incredibile macello.
Joaquín Sorolla y Bastida, Las tres velas, Private Collection, 1903. |
Sensibilizzato da tutto questo la
morte teneva campo stabile nella sua mente, tanto che egli scrisse nei suoi Essays:
“Quando ci passano davanti agli occhi questi esempi tanto frequenti e tanto
consueti, com’è possibile che ci si possa liberare del pensiero della morte e
che a ogni istante non ci sembri che essa ci tenga per il collo?” (Michel de
Montaigne, Saggi, I, 20, p. 108).
E ancora:
“A ogni istante rappresentiamola
alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti. All’inciampar d’un
cavallo, al cader d’una tegola, alla minima puntura di spilla, mettiamoci
immediatamente a rimurginare: «Ebbene, quand’anche fosse la morte medesima?». (ibid., I, 20, p. 109-110).
Joaquín Sorolla y Bastida, Mi mujer y mis hijas en el jardín, Óleo sobre lienzo, Colección Masaveu, Oviedo, 1910. |
A liberarsi di questa che avrebbe
dovuto essere un esercizio spirituale teso a familiarizzarsi con la propria
morte, tanto che la immaginava in ogni dettaglio, persino il suo funerale e la
distribuzione dei suoi beni ai suoi eredi e alla servitù, mentre era sempre di
più un’ossessione, fu proprio un brutto incidente a cavallo che gli occorse.
A Montaigne piaceva cavalcare, ed
ogni occasione era per lui buona per prendere il cavallo e inseguire al galoppo
i propri pensieri o lasciarseli alle spalle, nonostante i pericoli anche
all’interno della sua tenuta, fossero tutt’altro che occasionali, bande armate
e semplici predoni bivaccavano nei dintorni (ed ovunque in tutta la Francia),
pronti ad assalire chiunque passasse.
Ma il pericolo non venne da un
agguato o da una rapina, che erano tutt’altro che infrequenti, venne piuttosto
da uno dei suoi servi dietro di lui, un omone alto e grosso che cavalcava un
grosso stallone che, improvvisamente mentre erano tutti al passo e il suo padrone
era davanti a lui lungo il sentiero, si lanciò in un galoppo sfrenato.
Joaquín Sorolla y Bastida, Retrato de Maria mirando los peces, Sotheby's, 1907. |
Probabilmente il cavallo di
Montaigne dovette spaventarsi a quelle grida e si spaventò ancora di più quando
lo stallone e l’enorme servo gli piombarono addosso (sarà stato un calcolo
errato dello spazio a disposizione sul sentiero, che in realtà era stretto) e
lo abbatterono a terra facendo letteralmente volare in aria il suo cavaliere
per poi ripiombare come morto sul terreno qualche passo più in là.
Joaquín Sorolla y Bastida, Saltando a la comba. La granja, Museo del Prado, Madrid, 1907. |
Montaigne perse conoscenza, poi sembrò
riprendersi, ma era in uno stato di coscienza alterato, vomitava sangue e
perdeva conoscenza continuamente; dai suoi ricordi emerge la sensazione di
essere sul punto di perdere la vita, ad un certo punto rifiutò ogni cura certo
che sarebbe morto immancabilmente da li a qualche istante. Nelle sue memorie
parla di un senso di felicità, di liberazione, di “assaporare” la morte ...
assaporare nel vero senso della parola, come fa un bambino quando si porta in
bocca un oggetto sconosciuto, stava “assaggiando” la morte.
Joaquín Sorolla y Bastida, Niña en la playa, 1910, Christie's Images. |
Da quell’esperienza egli ne uscì
completamente guarito dalla sua ossessione per la morte, da allora in poi la
rispettava ma non la temeva e non se ne curava più di tanto; la morte poteva
essere tutt’al più un istante di sofferenza che non merita i nostri
struggimenti, le nostre paure e le nostre ansie. Di essa scrisse più tardi:
“Se non sapete morire, non
preoccupatevene; la natura vi istruirà sul momento, in modo completo e
sufficiente; essa compirà a puntino questa operazione per voi; non datevene voi
la briga”. (ibid., III, 12, p.
1405).
Joaquín Sorolla y Bastida, Barcas varadas en la playa. Valencia, 1915. |
Da allora in poi non si preoccupò
più di come morire, ma di come vivere e, strano a concepirsi per noi moderni,
sosteneva che bisognava infondere un po’ della dolcezza della morte alla
propria vita, perché le trasmettesse un po’ di leggerezza e di superficialità
... sarà strano, ma io questo concetto lo capisco perfettamente.
[To be continued ...].