Da steh ich auf dem Hügel, und
schau umher,
Wie alles auflebt, alles empor
sich dehnt,
Und Hain und Flur, und Tal, und
Hügel
Jauchzet im herrlichen
Morgenstrahle.
O diese Nacht - da bebtet ihr,
Schöpfungen!
Da weckten nahe Donner die
Schlummernde,
Da schreckten im Gefilde grause
Zackichte Blitze die stille
Schatten.
Jetzt jauchzt die Erde, feiert im
Perlenschmuck
Den Sieg des Tages über das Graun
der Nacht -
Doch freut sich meine Seele
schöner;
Denn sie besiegt der Vernichtung
Grauen...
(FRIEDRICH HÖLDERLIN, Unsterblichkeit
der Seele).
Dalla vetta del colle intorno
guardo
Come tutto riviva e all’alto
tenda;
E bosco e campo e valle e colle
Esultino nello splendor del
mattino.
Oh! questa notte come sussultavi,
Universo! Scotevano i vicini
Tuoni quel sonno tuo, guizzanti
Baleni atterrendo l’ombre mute.
Imperlata, la terra ora festeggia
Il giorno vittorioso sull’orrore
Notturno; ma più bella ride
L’anima mia su l’orror di
morte...
(FRIEDRICH HÖLDERLIN, L’immortalità
dell’anima, in D. Valeri, Lirici tedeschi, Milano, Mondadori, 1959).
Il primo a disquisire sulla beltà
dell’anima fu Plotino nelle Enneadi, l’anima bella è quella che
coltiva la virtù, si eleva al di sopra del mondo sensibile e raggiunge l’Uno
attraversando il mondo dell’Intelletto e delle Idee; l’anima brutta è quella
che persegue il vizio, rimane impastoiata dalle passioni, intrappolata nella
carne e nella materia.
Questo percorso dalla materia
all’assoluto (che Plotino chiama Uno) è una sorta di askēsis, che però non va intesa in senso cristiano come rinuncia al
peccato, pentimenti e penitenze, ma come una sorta di distacco radicale (afáiresis, e áfele pánta, distaccati da tutto è l’esortazione del filosofo ai
suoi discepoli), in cui il soggetto si distanzia dalla sua azione, per
permettere che essa avvenga, in cui cioè il soggetto che agisce si situi tutto
nel suo gesto, che non è un annullarsi del soggetto stesso ma il produrre la
sua verità, perché solo perdendosi si può ritrovare se stesso e solo agendo
produce davvero ciò che è.
I greci antichi avevano un
concetto di virtù inteso come aretè (ἀρετή),
eccellenza, cioè il fare o l’essere tutto ciò che è possibile nel miglior modo
possibile, l’aspirare alla perfezione a cui un uomo può aspirare senza
oltrepassare i neri cancelli dell’hybris
(ὕβϱις), della tracotanza che spingono a superare i confini della natura e
della necessità, oltre i quali tutto si tramuta in sventura.
La virtù per eccellenza era per i
greci antichi la sofrosýne, la
temperanza, esercitata la quale l’uomo diventa padrone di se stesso, questa
virtù rappresenta il morso, le redini e le briglie stesse del percorso che può
condurre l’anima stessa al suo principio, quel percorso che Plotino esplicita
in questo modo:
"Come si può vedere la
bellezza dell'anima buona? Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora
interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella.
Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella
immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica
ciò che è fosco e rendilo brillante e non smettere di scolpire la tua propria
statua interiore, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e
non veda la temperanza sedere su un trono sacro. [...] Se tu sei diventato
completamente una luce vera, non una luce di grandezza o di forma misurabile
che può diminuire o aumentare indefinitamente, ma una luce del tutto senza
misura, perché superiore a ogni misura e a ogni qualità; se ti vedi in questo
modo, tu sei diventato ormai una potenza veggente e puoi confidare in te
stesso. Anche rimanendo quaggiù tu sei salito né più hai bisogno di chi ti
guidi; fissa lo sguardo e guarda: questo soltanto è l'occhio che vede la grande
bellezza. Ma se tu vieni a contemplare lordo di cattiveria e non ancora purificato
oppure debole, per la tua poca forza non puoi guardare gli oggetti assai
brillanti e non vedi nulla, anche se ti sia posto innanzi un oggetto che può
essere veduto. È necessario, infatti, che l'occhio si faccia uguale e simile
all'oggetto per accostarsi a contemplarlo. L'occhio non vedrebbe mai il sole se
non fosse già simile al sole, né un'anima vedrebbe il bello se non fosse bella.
Ognuno diventi dunque anzitutto deiforme e bello, se vuole contemplare Dio e la
Bellezza" (Enneadi I, 6, 9).
Secoli di barbarie cancelleranno
quasi del tutto quest’esperienza sapienziale, insieme alla saggezza antica
greca e latina, monaci copisti e amanuensi trascriveranno quasi senza capire le
parole dell’alfabeto greco e latino degli antichi filosofi, e anche quando lo
capiranno, la divulgazione di questo pensiero dev’essere vagliata dai padri
della chiesa e non travalica mai una ristretta cerchia di sapienti, tutti o
quasi chierici.
Dobbiamo aspettare l’umanesimo di
Coluccio Salutati, di Poggio Bracciolini, di Lorenzo Valla, del Poliziano, di Francesco
ed Ermolao Barbaro, di Leon Battista Alberti, di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola, …, che tradussero
in volgare i dialoghi platonici, le opere di Aristotele, Esiodo, Ovidio, l’immensa ricchezza antica
degli alessandrini, di Seneca, Stazio, Lucano, Marziale, Virgilio …
A Padova i filosofi aristotelici
si riunivano nel Palazzo del Bo’,
attuale sede storica dell’università che è superata solo da quella di Bologna
di pochi anni per antichità, a Firenze i neo-platonici tenevano corte presso
gli Orti Oricellari, dove si
riunivano filosofi, retori, umanisti e artisti vari sotto il patrocinio dei Medici, signori di quella città.
Le pubbliche letture dei dialoghi
platonici e delle opere di Plotino,
di Porfirio, Clemente, Origene, Giamblico, Proclo, Dionigi l’Areopagita,
Boezio, …, e gli scavi in cui
venivano rinvenute statue greche e romane che sfioravano la perfezione delle
forme, instillarono negli artisti del 400 e del 500 una spasmodica ricerca del
bello, che era in definitiva l’unica “idea” visibile impressa nella materia, il
simbolo stesso del bene.
Osservate le donne e le madonne
dei pittori fiorentini o di quelli che ebbero rapporti con Firenze per
comprendere questa gara alla bellezza, alla soavità, alla grazia del gesto e
della posa, questa gara a rincorrere la perfezione che era in atto fra le
botteghe dei pittori, degli scultori e degli architetti.
Pochi esempi per tutti fra i più
emblematici la Città Ideale, di autore sconosciuto, i disegni di Gian Battista Alberti, le madonne di Raffaello Sanzio, le dame di Leonardo da Vinci, prima fra tutte Monna Lisa del Giocondo, e le donne
aggraziate che andava dipingendo il Botticelli:
La Nascita di Venere, La Primavera e Il Ritratto di Simonetta Vespucci.
Simonetta Cattaneo Vespucci, denominata la Sans Par (senza paragoni), era una giovane ligure della nobile
famiglia dei Cattaneo della Volta di
Genova, sposata ad un Vespucci
fiorentino, lontano parente dell’Amerigo
che legò per sempre il suo nome alla scoperta del nuovo continente, ed era
considerata la donna più bella vivente; Botticelli
la dipinse ovunque: suo il volto
della Venere, suo quello della Primavera, suo l’ovale del viso e suoi i
capelli in tante altre tele.
Dicono che ben presto divenne
l’amante di Giuliano de Medici (e
chi avrebbe potuto ignorare le attenzioni di un Medici nel periodo in cui i
Medici erano i signori di Firenze e i banchieri del papa), il quale in un
torneo cavalleresco svoltosi in Piazza Santa Croce nel 1475, in cui Simonetta
era la regina, vinse un suo ritratto messo in palio da lei stessa.
Luigi Pulci, sempre in quegli anni, le dedicò qualche lezioso
sonetto e Lorenzo de Medici la
celebro nelle sue Selve d’Amore e, in
occasione della sua morte precoce a soli 23 anni (di tisi o di peste) le dedicò
un sonetto che inizia con: “O chiara
stella che co’ raggi tuoi …”.
Alla ricerca dell’assoluto, della
perfezione e dell’anima bella di questo straordinario periodo, seguirono secoli
predominati dalla malinconia, già preannunciata dai pittori del tardo
manierismo e dalle opere del Tasso e
dell’Ariosto, che rendeva tutto
irreale, onirico e vagamente irraggiungibile nel mondo reale, e di frenesia in
cui si pensava di poter fare tutto con l’uso dell’intelletto, e in cui la
ragione prese il posto dei valori religiosi e laici dei secoli precedenti.
Il tema dell’anima bella viene ripreso da Jean Jacques Rousseau ne La nuova Eloisa, e da Friedrich Heinrich Jacobi nel suo Epistolario di Allwill e Woldemar in cui
egli parla del “principio conciliativo dell’anima bella, luogo superiore della
misura, rinvenimento di una più alta armonia tra sensi e ragione”.
Ma trova miglior fortuna dopo che Friedrich Schiller ne parla nel suo saggio Sulla grazia e sulla dignità; secondo il poeta “Un’anima bella non ha altro merito che quello di esistere. Con facilità, come se l’istinto agisse per lei, esegue i doveri più penosi per l’umanità, e il sacrificio più eroico, che essa strappa all’istinto naturale, appare come libero effetto di quel medesimo istinto”.
L’anima bella è, cioè, quella che
supera l’antitesi kantiana fra l’inclinazione sensibile (l’istinto) e il dovere
morale ed è capace di perseguire il bene e il dovere naturalmente e
spontaneamente, sollecitata a ciò dall’elevazione alla bellezza e alla grazia.
Goethe dedicò all’ anima bella il sesto libro delle Esperienze di Wilhelm Meister, dove a
proposito di essa dice: “Io non mi ricordo di nessun comando, niente mi appare
in figura di legge; è un impulso che mi conduce e mi guida sempre giusto; io
seguo liberamente le mie disposizioni e so così poco di limitazione come di
pentimento”.
Ma è con Georg Wilhelm Friedrich Hegel che il concetto di anima bella
acquisterà tutta la sua maestosità, in questa figura dialettica è avvenuto il
passaggio dalla “Ragione” allo “Spirito”, siamo anzi in una fase avanzata del
movimento dello Spirito quando questi dopo essersi estraniato da sé riacquista la certezza di sé: siamo, in poche
parole e usando la definizione hegeliana, in presenza di un “Sé che sa se
stesso come essenza”.
La coscienza ora sa di far parte
dell’Assoluto, di essere un frammento di eternità cristallizzatosi per un breve
istante che sta per rientrare nel principio che l’ha generata; e padroneggia in
maniera eccellente la formazione del Concetto (Begriff), che è una modalità peculiare che ha la coscienza di
“pensare l’antitesi all’interno della stessa tesi”.
Ora la Coscienza è pronta per
affrontare il problema morale, ma il suo punto di partenza sono principi
universali ancora privi di contenuto (perché a dare un contenuto all’esperienza
morale sono solo il fare e l’operare concretamente: in altre parole puoi
scoprire ciò che è bene e ciò che è male solo facendo qualcosa di concreto e
constatandone le conseguenze, puoi scoprire ciò che è giusto e ciò che è
sbagliato solo dagli effetti del tuo fare, perché la morale non si giudica dai
principi, ma dai risultati concreti e dal rapporto con gli altri, perché bene e
male, giusto o sbagliato non possono prescindere dal giudizio altrui e sono
sempre rivolti all’eterno) e il senso del dovere (perché non avendo ancora
operato nulla, non possiamo trarre la ricompensa della nostra moralità dal
giudizio altrui o dagli effetti di ciò che facciamo, ma dal fatto che
l’universalità stessa del principio ci costringe a fare, ad adeguarci:
l’universalità è prescrittiva).
In sostanza, la Coscienza in
questa fase prende le mosse dal principio kantiano del “Cielo stellato sopra di
me e la legge morale dentro di me”, che chiude la Critica della Ragion Pratica consegnando la morale umana ad un
imperativo categorico che dovrebbe obbligare l’uomo ad essere migliore e alla
disperazione perché non esiste alcun garante per quell’imperativo, per cui
diventa un obbligo senza che esista qualcuno che ti obbliga; e tracciando così
un solco profondo fra la “ragion pura” e la “ragion pratica”, fra il pensare e
il fare, che inutilmente Kant cercherà di colmare scrivendo una Critica del Giudizio.
Questa Coscienza Hegel la chiama
“Anima Bella”, che è tutta presa dalla purezza assolta dei suoi principi,
paragonabili alla radiosità cristallina dal diamante Ko-i-noor che impreziosisce la corona inglese, e nella quale non
esiste conflitto perché le contraddizioni sono annullate al loro interno e la
negazione è inesistente.
Protetta nel castello della sua
purezza e della sua assolutezza e innamorata della propria sfera morale e della
sua stessa virtù, l’anima bella teme di sporcare l’orlo della sua candida veste
etica agendo concretamente questi principi nella realtà, per cui è restìa ad
esercitare il bene e preferisce giudicare che agire.
Con le stesse parole di Hegel:
“Al Sé manca qui la forza dell’esteriorizzazione, la forza di farsi cosa e di
sopportare l’essere. La coscienza vive nell’angoscia di contaminare con l’azione
lo splendore del proprio Interno; e, per conservare la purezza del suo cuore,
fugge il contatto con la realtà e persiste nell’ostinata impotenza che le
impedisce di rinunciare al proprio Sé inerpicandosi fino all’astrazione ultima
e di darsi sostanzialità, che le impedisce cioè di trasformare il suo pensiero
in essere e di affidarsi alla differenza assoluta. L’oggetto vacuo generato
dalla coscienza stessa la riempie perciò solo con la consapevolezza della
vacuità. La sua attività è il sospiro struggente che, nel suo divenire oggetto
privo di essenza, non fa che smarrirsi, e che al di là di questo smarrimento
ricade presso sé trovandosi soltanto come smarrito. In questa purezza
trasparente dei suoi momenti, divenuta ormai, come si è soliti chiamarla,
un’anima bella infelice, essa va affievolendosi entro se stessa e svanisce come
nebbia informe che si dissolve nell’aria” (Fenomenologia
dello Spirito, p.873-875).
L’Anima Bella, per uscire da
questo mondo di impotenza, di rigidità del giudizio morale, di essere
prigioniera del proprio orgoglio, ostaggio della propria virtù, preda
dell’ipocrisia (che cerca di conciliare l’essere e l’apparire), deve
attraversare il male, deve rinunciare alla perfezione dei principi assoluti e
dare contenuti concretamente praticabili alla propria azione morale, deve
abbandonare la sua posizione giudicante, che è in realtà il Cerbero più feroce
contro il proprio agire prima che verso l’agire altrui, perché paralizza ogni
nostra iniziativa e ogni nostra azione.
Deve perseguire, piuttosto, il
perdono e la via della riconciliazione: “il Si della conciliazione, in cui i
due Io si spogliano della loro esistenza opposta, è l’esistenza dell’Io esteso
fino alla dualità, Io che con ciò resta uguale a sé e che ha la certezza di se
stesso nella sua esteriorizzazione perfetta e nel suo contrario: il Si è Dio
manifestantesi in mezzo a questi Io che si sanno come il sapere puro”. (Ibid. p. 893).
La Coscienza che agisce nel reale
diventa immediatamente coscienza cattiva, la coscienza agente diventa per ciò
stesso il Male e si contrappone alla Coscienza universale assoluta, per la sia
singolarità e la sua arbitrarietà; invece: “La coscienza del dovere si è ben
conservata nella purezza perché non agisce; essa è l’ipocrisia che vuole si
prenda il giudizio per atto reale e che, invece di dar prova della sua
rettitudine mediante l’azione, la esibisce proclamando le proprie eccellenti
disposizioni” (Ibid. p. 881).
La Coscienza è spinta ad agire
proprio dal suo senso del dovere, perché “…senza l’atto, il dovere non ha alcun
significato” (Ibid. p. 881), ma
soprattutto è spinta ad agire perché la coscienza universale è irreale e
indeterminata, priva cioè di contenuto, solo agendo nel reale il Sé può
determinarsi e reificarsi, ma per non perdere la sua natura deve riconciliare
l’esperienza reale con la sua essenza, il suo principio universale.
In altre parole l’universalità
necessita del suo contrario, cioè della singolarità, per appropriarsi veramente
di sé, in positivo, non in astratto, in negativo e senza determinazione alcuna,
come accadeva in principio; solo così l’Anima Bella diventa lo Spirito
Assoluto, cioè una singolarità assoluta.
Delle figure della dialettica
contenute nella Fenomenologia dello
Spirito, attraverso le quali Hegel incarna il passaggio dell’Assoluto nei
tre momenti in cui è in Sé, si estrania da Sé e rientra in Sé pienamente e
assolutamente cosciente di sé, solo quella del Servo e del Padrone sopravvive
fino ad oggi, ampiamente commentata da Marx,
Heidegger, Kojève, Hyppolite, Sartre e da tanti altri.
Questo è accaduto perché questa
figura fissa il momento del sorgere primevo dell’autocoscienza e interpreta i
rapporti di predominio e di sudditanza fra persone, gruppi, classi sociali e
popoli; della grande architettura sistematica del pensiero di Hegel rimane per
il resto ben poco, l’esistenzialismo ci ha insegnato a partire dall’uomo per
pensare, non da entità assolute ed eterne, e che ogni cristallizzazione di
percorsi esistenziali si rivela fatalmente storicamente e culturalmente fondata.
Oggi l’epiteto di Anima Bella
sopravvive ancora non più come figura dialettica, ma come tipologia umana, e
non è più legata tanto alla “virtù” (altro concetto ormai obsoleto), perché
quando noi moderni pensiamo alla virtù non troviamo più niente che vi
corrisponda nel nostro ordine del reale e in quello del pensiero e dobbiamo far
riferimento al pensiero antico, dove si manifestava con esempi eclatanti, o
alla morale del XIX° secolo, con fruscii di sete e crinoline o nelle pagine dei
grandi romanzi.
Se sentiamo dire di qualcuno, al
presente, che è un’anima bella, in mancanza di senso della virtù, riteniamo che
chi si esprime così voglia intendere la persona di cui parla come un’anima
candida, un ingenuo, uno sprovveduto, un semplice; ma in passato non era
affatto così, l’Anima Bella non era affatto un sempliciotto, essa poteva essere
dotata della più fine intelligenza, della più ardita scaltrezza e di una
perfidia e di una ferocia senza pari.
Mi vengono in mente come esempi
di anime belle alcune persone che ho conosciuto e che conosco, ma l’esempio più
emblematico ed eclatante dovrò prenderlo in prestito dalla letteratura di due
secoli fa, ed è la figura di Katerina
Ivanovna, ne I fratelli Karamazov.
Fëdor Dostoevskij ha presentato nei suoi romanzi esempi di varia
umanità, molti dei quali tipi poco edificanti, ci sono lussuriosi, persone che
godono nell’essere umiliate e nel rotolarsi nel fango, tronfi palloni gonfiati,
sgualdrine, patricidi, uomini abietti, giocatori, inguaribili sognatori,
idioti, psicopatici, narcisisti, assassini, …, ma con nessuno di loro ha mai
infierito con la crudeltà con cui lo fa con Katerina Ivanovna.
Con tutte queste persone, persino
quelli che sarebbero considerati dei mostri, dei rifiuti dell’umanità,
Dostoevskij ci mostra la complessità umana, e anche l’essere più spregevole
viene dipinto con qualche calore, con una certa simpatia e con qualche nota di
umanità.
In Delitto e Castigo entro le prime cento pagine il narratore russo fa
si che il protagonista, Rodion Romanovič
Raskol'nikov, si procuri un’accetta e uccida barbaramente Alena Ivanovna, una povera vecchia che
aveva la colpa di essere un’usuraia e la sorella di lei, Lizaveta, una povera donna che aveva la colpa di essere andata in
visita dalla sorella.
Credete che si possa scrivere un
romanzo il cui protagonista è un feroce assassino che uccide a sangue freddo?
Credete che si possa congegnare la trama di un romanzo facendola ruotare tutta
intorno ad un’accetta che si abbatte in maniera devastante su due inermi corpi
umani in un delitto che ha la motivazione delirante dell’assassino di ritenersi
un uomo superiore e in quanto tale al di sopra della legge e dal giudizio
morale in vigore fra gli uomini?
Eppure Dostoevskij lo scrive, e ci affascina fin dalle prima pagine, quando ci descrive con quanta accortezza Raskol'nikov lega l’accetta con delle strisce di stoffa ricavate da una vecchia camicia lacerata e cucite a filo all’interno del suo logoro pastrano, perché non dovesse portarla in mano e non fosse visibile, ma fosse anche facilmente estraibile nel momento fatale.
Tutto il seguito del romanzo
articola sempre di più la figura di questo giovane, che all’inizio sembra
alquanto piatta e insignificante, quasi letargica, tanto da accrescerne
enormemente la complessità man mano che scaviamo nella sua psiche o veniamo a
sapere qualcosa che lo riguarda o ne osserviamo il crescente tormento.
E a voi non è mai successo di
provare un impulso impetuoso di afferrare un’accetta in mano e di massacrare
qualcuno? Di abbattervi con tutta la forza che avete nel braccio sul corpo del
malcapitato dalla parte della lama per fendere, lacerare, conficcare, spezzare,
triturare, sfondare, amputare … spalle, braccia, collo, testa, gambe, torace,
faccia, cranio, mani che si tendono a difesa?
No? Che frugolini che siete … o
siete stati allevati in una campana di vetro avvolti nella bambagia, avvolti
dal rotolo da imballaggio con bolle, o siete un nuovo prototipo umano da fecondazione
in vitro privati dell’aggressività, un po’ come i mandarini senza semi, oppure
avete urgente bisogno di uno psichiatra, perché negate sistematicamente la vostra
aggressività. O, ancora, siete delle anime belle, gente per cui amore e odio si
confondono, si intrecciano, fino ad essere un’unica cosa, e potete odiare
amando ed amare odiando.
Su Katerina Ivanovna, invece,
Dostoievskij non usa nessuna pietà, niente addolcisce il suo giudizio su di
lei, egli è semplicemente spietato ogni volta che la introduce, pur non
mancando mai di sottolineare la straordinaria bellezza di questa donna, la sua
fierezza, la sua cultura, la sua raffinatezza, il suo charme, le sue buone
maniere, sembra però che tutte queste buone qualità stridano come un
marchingegno arrugginito, col suo carattere.
Lo scrittore è, infatti,
lapidario nel giudizio complessivo che ne da, la critica più feroce fra tutte è
quella che fa esprimere a Dmitrij
Karamazov, quando in replica al fratello Aleksej che era convinto che Katerina amasse più lui che il terzo
fratello Ivan, replica: “Lei ama la propria virtù e non me” (I fratelli Karamazov, p. 165).
Una donna innamorata della
propria virtù, una donna che non sa amare, un’Anima Bella paralizzata
dall’immergersi nel mondo, negli altri, nell’amore, una che prova soltanto
vaghi languori, magmatiche sensazioni, il vuoto e la noia, indecifrabili e
lucide disperazioni, mancanze, una che ciò che esprime, quando lo esprime, è
sempre teatrale, innaturale, pubblico, sempre sopra le righe e mai naturale,
mai un’emozione ben delineata, mai un sentimento ben sagomato, lucido,
concreto, palpabile, oceanico, avvolgente, coinvolgente, rotondo.
Tutto sa di tattiche, di
strategie, di calcoli, di convenienze, di pose, di recitato, enfatizzato, di
abbracci che non scaldano, di baci che non inteneriscono, di passione che non
diventa intimità, di scintilla che non si fa incendio … A quel tempo tu stavi,
sicura di te, della tua logica … guidando e parlando ininterrottamente... ed
io, che già non ti ascoltavo più, (come ipnotizzato), …seguivo gli occhi che
seguivano i colori, … i raggi elettrici della città. Chissà cos'è quel moto che
ci unisce e ci divide, …e quel parlare inutilmente delle nostre incomprensioni,
…per certi passeggeri malumori. …Amata solitudine, …isola benedetta….A quel
tempo di te, amavo il tuo pensiero logico …e quella linea perfetta del baciare,
…la simmetria delle tue carezze; …vivificato dal chiarore vibrante di sapore:
…scintilla di una mente universale. …Ero in te come un argomento del tuo amore
sillogistico, …conclusione di un ragionamento. …Ma mi piaceva essere così,
…avviluppato dai tuoi sensi artificiali. …Ora sono come fluttuante...Amata
solitudine, …isola benedetta. …Così è finita, mi stacco da te, …da solo
continuo il viaggio. …Rivedo daccapo il cielo colorato di sole, …di nuovo vivo.
The light comes over the night. I open my
eyes without you.
Non andate via, il bello deve
ancora venire …
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