mercoledì 20 agosto 2014

UN GRAFFIO IN TESTA 3




"Abìtuati ad ascoltare attentamente ciò che gli altri dicono, e cerca di penetrare il più possibile nell’animo di chi ti parla."
(Marco Aurelio, Pensieri).




"Bisogno di innamorarsi. Certe cose le senti venire, non è che ti innamori perché ti innamori, ti innamori perché in quel periodo avevi un disperato bisogno di innamorarti. Nei periodi in cui senti la voglia di innamorarti devi stare attento a dove metti piede: come aver bevuto un filtro, di quelli che ti innamorerai del primo essere che incontri. Potrebbe essere un ornitorinco."
(Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, 5 GEBURAH, 36, Bompiani, Milano, 1988, p. 246).




“Perché Io sono la prima e l’ultima. Io sono l’onorata e la disprezzata. Io sono la prostituta e la santa. Io sono la sposa e la vergine. Io sono la madre e la figlia. Io sono le membra di mia madre. Io sono la sterile e molti sono i miei figli. Io sono colei il cui matrimonio è grande, eppure Io non ho marito. Io sono la levatrice e colei che non partorisce. Io sono il conforto dei miei dolori del parto. Io sono la sposa e lo sposo, ed è mio marito che mi generò. Io sono la madre di mio padre e la sorella di mio marito ed egli è la mia progenie. Io sono la schiava di lui, il quale mi istruì. Io sono il sovrano della mia progenie. Ma egli è colui il quale mi generò prima del tempo, nel giorno della nascita. Ed egli è la mia progenie, a suo tempo, e il mio potere proviene da lui. Io sono l’appoggio del suo potere nella sua giovinezza, ed egli il sostegno della mia vecchiaia. E qualsiasi cosa egli voglia, mi succede. Io sono il silenzio che è incomprensibile, e l’idea il cui ricordo è costante. Io sono la voce il cui suono è multiforme e la parola la cui apparizione è molteplice. Io sono la pronuncia del mio nome. Perché, voi che mi odiate, mi amate, ed odiate quelli che mi amano? Voi che mi rinnegate, mi riconoscete, e voi che mi riconoscete, mi rifiutate. Voi che dite la verità su di me, mentite su di me, e voi che avete mentito su di me, dite la verità. Voi che mi conoscete, ignoratemi, e quelli che non mi hanno conosciuta, lasciate che mi conoscano. Perché Io sono il sapere e l’ignoranza. Io sono la vergogna e l’impudenza. Io sono la svergognata; Io sono colei che si vergogna. Io sono la forza e la paura. Io sono la guerra e la pace. Prestatemi attenzione. Io sono la disonorata e la grande”.
(Frammento da I Codici di Nag Hammadi, 6, 2).




“È la linea estrema della più alta delle risacche che si protrae lontano, senza fine sulla costa. Così ti ha portato a me la tempesta della vita, mio vanto, e così ti raffigurerò” (Boris Pasternak, Il dottor Živago, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 365).




"Ho messo mi piace alla tua ultima foto perché nonostante tu sia in perizoma, si nota chiaramente la tua passione per la filosofia rinascimentale."




“La notte porta scompiglio”. (Garbo, La dodicesima notte, Shakespeare Edition, Stratford-upon-Avon, 2045).



Subito dopo aver conseguito la laurea Ermengarda (così intendo chiamare da adesso in poi questa donna) si presentò nello studio del mio amico Liutprando chiedendogli se poteva fare il tirocinio presso di lui; abilitatasi alla professione aprì a sua volta bottega e iniziò a vivere di lavori che le inviava il mio amico e altri professionisti già affermati.
Qualche anno fa Liutprando venne contattato da una grossa impresa israeliana che aveva vinto degli appalti in Italia per un lavoro di una certa rilevanza, avendo necessità di professionisti in gamba e fidati Liutprando chiese la collaborazione ad alcuni colleghi, fra i quali Ermengarda, per tutti, soprattutto per i più giovani, questo incarico era molto prestigioso e rappresentava una grande opportunità professionale ed economica.
Tutto andava a meraviglia, ma a volte la vita non finisce di sorprenderti, può accadere che ti riservi una serie di sciagure una di fila all’altra, senza darti nemmeno il tempo per riaverti e respirare, e può anche accadere che ti colmi di doni uno di fila all’altro, senza che la catena positiva sembri avere mai fine.
Ad una cena di lavoro, in cui era presente per intero il gotha della Società, la proprietà, i funzionari, i professionisti e le maestranze principali accadde che il proprietario unico dell’Azienda, che chiameremo Desiderio, israeliano, notò per la prima volta Ermengarda e iniziò a farle una corte discreta.
Non è che non l’avesse mai vista, nell’ambito del lavoro chissà quante altre volte aveva avuto a che fare con lei, ma è come non si fosse mai accorto di lei, come se quella sera la guardasse per la prima volta e con occhi diversi, come se solo adesso vedesse quanto fosse bella, raffinata, piacevole, come se avesse risvegliato improvvisamente in lui qualcosa.




Alcuni uomini funzionano a compartimenti stagni, il lavoro è lavoro e la vita privata è vita privata, non mischierebbero mai le faccende dell’uno con le faccende dell’altra, quando lavorano si chiudono fuori dalla porta dell’ufficio, dello studio, la vita privata, la famiglia, gli affetti, e quando tornano a casa appendono al chiodo fuori dalla porta la loro divisa e i loro titoli professionali, con tutti i problemi annessi e connessi, che rinviano alle ore d’ufficio.
Queste persone attingono la ripartizione della loro giornata e delle loro attività alla cultura degli antichi romani, che amavano vivere nell’otium, e, se potevano, delegavano agli schiavi e ai loro clientes molte delle attività noiose o faticose seppur necessarie, e che uscivano a malincuore dalla beatitudine dei loro otia quando proprio non potevano farne a meno, negandoli (nego-otia).
Altri uomini, invece, fanno confusione fra pubblico e privato, fra affetti e lavoro, fra otium e negotium, e non è raro che cerchino di attingere o di riversare sentimenti nel loro ambiente di lavoro e di imprimere dinamiche tipiche del mondo lavorativo ai loro sentimenti.
È certamente impressionante notare quante storie d’amore nascano nell’ambiente in cui lavoriamo, e non si tratta soltanto del fatto che passiamo così tanto tempo fra le mura dei nostri studi, dei nostri uffici, a stretto contatto con clienti e colleghi, che pare inevitabile che anche gli affetti sorgano dal medesimo ambiente … non scrisse forse quel grande poeta che fu Giacomo Leopardi che la ginestra è un fiore stupendo che nasce sulle pendici dei vulcani, dove non c’è più vegetazione, dove sembra non poter crescere nient’altro … e non ho visto io stesso sulle pendici dell’Etna, dove la vegetazione si rarefà fino ad annullarsi, quelle macchie di giallo intenso in mezzo al grigio antracite e al nero basalto?




No, non si tratta di un caso, come la ginestra è un fiore che è fuoco, e del fuoco ha il profumo, così ciò che nasce in fucine, fra cattedre e banchi, fra i tasti di un calcolatore, nei meandri di un social network, fra le grige pareti di uno studio notarile, fra gli scaffali di una biblioteca, fra i faldoni di un commercialista, fra gli scranni di un giudice, e fra le toghe di avvocati, fra l’ufficio di un ragioniere o fra le figure solide di un geometra, …, segue più le regole della consuetudine, dell’arte e non quelle del cuore.
E ci si ritrova amanti come prima si era colleghi, e si è colleghi come si fosse amanti, con lo stesso zelo, con la stessa foga, con la stessa passione, con la stessa disperazione, perché un rapporto siffatto può darti le stesse soddisfazioni di un successo lavorativo, non certamente quelle dell’amore.
Desiderio guardava Ermengarda e finalmente la vedeva, non come professionista, non come dipendente, e nemmeno come oggetto più o meno bello, più o meno gradevole, più o meno piacevole con la quale gratificare le sue voglie … la vedeva come “persona”, come altro da sé, con una sua volontà, con una sua indipendenza, con sentimenti propri che chissà a chi erano indirizzati, con un cuore pulsante autonomamente che non è detto si sarebbe armonizzato col suo.
E quando vedi qualcuno con questi occhi, quando pensi che niente di ciò che sei, di ciò che rappresenti, del tuo potere, del tuo prestigio, dei tuoi titoli, possa davvero influenzare ciò che vorresti influenzare, allora ti senti davvero disarmato e non ti resta che rinunciare ai tuoi desideri o cercare di conquistare questa persona, in una parola: sedurla.




Che non vuol dire, come comunemente si crede, condurre a sé, ma più precisamente “sviare”, portare fuori dalla retta via, appartarsi in qualche angolo nascosto, perché il termine deriva dal suo antecedente latino sed-ducere, in cui il “sed” è una congiunzione con valore avversativo che, a seconda dei casi, possiamo tradurre con un ma o, come in questo caso, con un “a parte” … ecco perché ogni volta che penso alla seduzione il mio cuore intona spontaneamente le note e la mia mente pronuncia le parole della canzone cantata da Gino Bechi o da Claudio Villa: “Vieni, c'è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu? Vieni, è la strada del cuore, dove nasce l'amore che non muore mai più”.
Fu così che sulla scrivania di mogano di Ermengarda cominciarono a spuntare miracolosamente delle rose a stelo lungo, non rosse per carità, troppo audaci, ma dai colori che più si intonavano al suo vestito e al suo stato d’animo, fu così che Desiderio la faceva chiamare molto più spesso di quanto avesse mai fatto prima … e sempre da sola; fu così che lei sentì pronunciare qualche invito da quest’uomo che sembrava tutto preso dal lavoro, a prendere un caffè insieme, a pranzare insieme con un tramezzino nella pausa pranzo, fino a dei veri e propri inviti a cena non più giustificabili col fatto di lavorare nello stesso posto.
Lui si mostrava sempre più attratto da lei e lei non rifiutava mai un suo invito, accettato sempre con piacere e con un sorriso anzi, non soltanto sembrava gradire, ma incoraggiava le sue avanches e pareva battere lo stesso tempo che batteva lui sul rullante dell’amore.
Fu così che quest’uomo austero, sposato, con figli adulti, di almeno 25 anni più vecchio di lei, una sera nel suo appartamento che usava quando veniva in Italia, in cui aveva invitato lei a chiudere una serata dopo una cena, le si avvicinò come non aveva mai fatto, le prese la mano e … le dichiarò di amarla.
So che sarete sconcertati, solo un israeliano e per giunta di una certa età poteva dichiarare il suo amore ad una donna, noi italiani non siamo abituati a queste cose anzi, tutto ciò che è “dichiarare” ci è estraneo, e non solo dichiarare il nostro amore, ma anche dichiarare i nostri redditi … noi italiani preferiamo agire, preferiamo evadere (le tasse … e non solo quelle), preferiamo mezzi più spicci del tipo “o la va o la spacca!”, e non è un caso se siamo il popolo che ha inventato, e che ancora esercita, la “mano morta”.




Si, quella manina che … non si sa perché, non si sa cos’è, non si sa com’è … tende a scivolare (nostro malgrado, beninteso) verso le curve di una donna; anni fa, e sono parecchi ormai, la mia amica Irma veniva ciclicamente a lamentarsi con me affranta riguardo alla frequenza con cui alcune manine scivolavano molto velocemente verso il suo ginocchio sinistro … e le più audaci si facevano pure un giro coscia.
I fatti stavano in questi termini, Irma (la chiamo così per assonanza con Irma la dolce, perché è in realtà una donna molto dolce che nasconde la sua dolcezza dietro un cipiglio battagliero assai, come se essere dolci fosse un difetto o una debolezza) è una bella donna, anche adesso che ha la mia età e una bella figlia che le somiglia molto, ha lunghi capelli castani, molto mossi, un viso graziosissimo, un fisico da urlo con più curve di Daytona o di Indianapolis e delle cosce lunghe e sode come quelle di Atalanta.
Ma non è finita qui, anche adesso veste in maniera sexy, ma allora indossava minigonne e vestitini mozzafiato, che a guardarla ti si bloccava la circolazione arteriosa per qualche minuto, ti surriscaldava tutti i circuiti e diventavi anche tu come Goldrake che: “ … si trasforma in un razzo missile con circuiti di mille valvole tra le stelle sprinta e va mangia libri di cibernetica insalate di matematica e a giocar su Marte va lui respira nell'aria cosmica è un miracolo di elettronica ma un cuore umano ha […] raggi laser che sembran fulmini è protetto da scudi termici sentinella lui ci va quando schiaccia un pulsante magico lui diventa un ipergalattico lotta per l'umanità …”. 




Ebbene, non lo crederete, ma a questa ragazza così sobria capitava spesso (quasi sempre) che quando andava alle cene con i colleghi, al ritorno il tizio a cui aveva chiesto di accompagnarla visto che pur avendo la patente non guidava e non aveva neanche la macchina, si sentisse quasi in dovere di farle scivolare la manina sul ginocchio proprio quando si fermava sotto casa di lei.
Ma tutti poi, dallo scapolo scanzonato all’ammogliato con prole, dal bravo ragazzo al pessimo soggetto, dal giovane al vecchio catabasima (dal greco katábasis, discesa negli inferi), la manina scattava inesorabile subito dopo aver scalato la marcia e aver azionato il freno a mano); e lei ci si dannava per questo, all’inizio ci si incazzava, poi toglieva loro la mano dal suo ginocchio senza alcun risentimento, con un fare quasi meccanico (come voleva apparire la manina dei suoi accompagnatori), come se si trattasse del disbrigo di una faccenda burocratica.
Certo, nessuno adesso riconoscerebbe nel professor Tal de Tali, nel primario Caio e nel capo dipartimento Sempronio, Joe Fogliadifico e Slim Manolesta, anche se almeno in alcuni casi il vizietto si è conservato intatto e qualcuno di loro è finito sui giornali per molestie e qualcun altro è finito in tribunale per un procedimento di separazione intentato dalla moglie dopo la 25ª infermiera che si portavano a letto.
Il maschio della specie umana è, purtroppo, un essere primitivo, molto più primitivo della femmina della sua specie, più che cercare di scoprire discretamente se la donna che le piace è interessata a lui, magari per disperazione visto che i segnali delle donne in questo senso non sono mai chiari, mai inequivocabili, mai semplici ed elementari come l’uomo a cui sono diretti, allora preferisce fare affidamento su altri segnali come ad esempio: “Se ha chiesto a me di accompagnarla, se sale in macchina da sola con me, se mette la minigonna … allora ci sta!”.



E questo ragionamento è vero a prescindere dai risultati, perché non importa che tutte le volte che lui abbia provato non ha avuto il risultato sperato, (e davvero solo una donna disperata potrebbe sentirsi lusingata da un corteggiamento di questo tipo); egli, come lo “spinarello” che nella stagione degli amori attacca letteralmente tutto ciò che di rosso si presenta nel suo territorio anche se fosse un pezzo di legno e come il calabrone che continua a dare testate sul vetro perché lui il vetro non lo vede, il maschio umano pensa che se ci prova ha pur sempre una probabilità di riuscita, se non ci prova non ne ha nessuna.
Il maschio umano è un illuso, applica il calcolo statistico delle probabilità secondo cui ad esempio ogni lancio di una moneta ha il 50% di possibilità che venga fuori "croce" e dimentica che una donna non è una moneta e che con quel sistema di approccio grossolano e rudimentale è più probabile che non esca né testa, né croce, ma "schiaffo". 
Irma veniva a lamentarsi con me: “Perché capita a me e non a Simonetta?” (anch’ella auto-sprovvista, anch’ella richiedente passaggi per partecipare alle cene): “Cos’ha lei che io non ho, a parte qualche cm di gonna in più?”: “Cosa dovrei fare, non mettermi più la minigonna?”. Fino all’amara constatazione che se continuava così non sarebbe rimasto più nessuno a cui chiedere di accompagnarla!”.



Fortunatamente l’ho dissuasa dall’eliminare le minigonne dal suo guardaroba, dicendole semplicemente che l’essere bella non è solo una casualità o un dono che intender si voglia, ma comporta dei precisi doveri, se uno è bello deve mostrare la sua bellezza … il mondo è già così brutto che non possiamo privarci di quel poco di bellezza che ci viene concesso.
Un consiglio però mi sono sentito di darglielo, la volta successiva, prima che fosse il suo accompagnatore a far scivolare la manina sul suo ginocchio, all’andata e non al ritorno, fosse lei ad invitarlo a mettere la mano adesso, così lei gliela avrebbe tolta ed entrambi si sarebbero tolti in anticipo dall’imbarazzo a fine serata … le jeux sont faitsle jeux de main.
Da quella sera sbocciò una bella relazione fra Ermengarda e Desiderio e si incontravano tutte le volte che potevano, molto più spesso di prima perché lui veniva in Italia tutte le volte che poteva, per vederla, per stare con lei; stavano benissimo insieme e il sentimento era forte e reciproco, così forte che Desiderio prese una decisione fatale e irrevocabile: convocò moglie e figli e annunciò che lui amava un’altra donna e che intendeva separarsi.


venerdì 8 agosto 2014

UN GRAFFIO IN TESTA 2





“L’angoscia ci soffoca la parola. Poiché l’ente nella sua totalità si dilegua e poiché così proprio il niente ci assale, tace [schweigt] al suo cospetto ogni tentativo di dire ‘è’ [‘Ist’-Sagen]. Che nello spaesamento dell’angoscia noi si cerchi spesso di infrangere il vuoto silenzio [die leere Stille] proprio con parole dette a caso [ein wahlloses Reden], non è che la prova della presenza del niente”. (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica, Adelphi, 112; 68).



“Il nulla nulleggia” (Das nicht nichtet). (Rudolf Carnap, 1932, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, “Erkenntnis”, 2, 219-241; tr. it. in Il Neoempirismo, UTET, Torino, 1969, p. 504-532).


«Per parte mia, comincio il trattamento invitando la paziente a narrarmi tutta la storia della sua vita e della malattia, ma ciò che vengo a sapere non è ancora sufficiente ad orientarmi. Questa prima narrazione è paragonabile a un fiume non navigabile il cui corso ora è ostruito da rocce, ora deviato e impoverito da banchi di sabbia. Non posso altro che provare meraviglia per i casi clinici d’isteria così esatti e forbiti quali figurano nelle opere dei maestri; in realtà, i malati sono incapaci di fornire simili resoconti di se stessi».
(Sigmund Freud, 1901, Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora), OSF., Boringhieri, Torino, Vol. 3, p. 312).


A colpirmi immediatamente, come due luci di alta intensità, furono gli occhi, mi guardavano fissi senza accennare a declinare; mi capita raramente che qualcuno mi guardi con una pari insistenza, senza alcun imbarazzo ma che produceva in me, devo ammetterlo, un certo imbarazzo, fors’anche fastidio per quell’essere scrutato così fissamente, un imbarazzo provocato che molto probabilmente era originato da un imbarazzo provato e proiettato all’esterno. Cos’era, alterigia? Seduzione? Sfida? Non lo avvertivo né come un ostentato senso di superiorità, come talvolta capita con i narcisisti, né come un gesto teso a sedurmi, per il momento il termine sfida era quello che mi sembrava più appropriato. Già, ma perché una donna adulta, libera, intelligente dovrebbe contattarmi per un consulto, spendere il suo tempo e i suoi soldi, solo per sfidarmi?
Era davvero difficile guardarla e non pensare, come prima cosa, che fosse una bella donna, subito dopo il suo sguardo profondo era la cosa che si imponeva di più a qualsiasi osservatore, ma non si trattava di una bellezza esuberante, da maggiorata, di quelle dalle forme straripanti, era bensì una bellezza dalle forme armoniche, sobrie, eleganti, resa ancora più raffinata dal suo dal suo modo di vestire, dal suo stile, dalla sua classe e dal suo charme.
Indossava un semplice paio di jeans blu scuro, stretti ma non aderenti ed elasticizzati, che si limitavano a sottolineare le sue forme perfette, una camicetta bianca di pizzo molto elegante e un bolerino nero sopra che la slanciava ancora di più di quanto non facessero i suoi tacchi moderati, un cappotto nero lungo che sembrava addosso a lei una pennellata di stile e una sciarpina turchese.



I suoi capelli biondo scuro, lisci, le cadevano indolenti sulle spalle e sulla schiena, le scarpe, la cintura, i gioielli, erano di fine fattura e assolutamente non vistosi, per questo si notavano di più nella loro sobrietà e per questo ti soffermavi un po’ di più ad apprezzarne l’eleganza.
La invitai ad accomodarsi sulla poltrona di fronte a me e la incoraggiai con un semplice sorriso, lei accavallò le gambe e iniziò a parlare con la sua voce che era melodia, e il suo discorso non fu soltanto logico, ma crono-logico, nel senso i suoi fili erano organizzati razionalmente secondo l’accadere nel tempo degli eventi che lei considerava pregnanti.
Lascio sempre ampia libertà alle persone che mi consultano riguardo a cosa dire e a come dirlo, cerco di limitare al minimo indispensabile le domande per non incanalare il discorso su tracce prefissate, su argomenti prefigurati, perché ciò che una persona decide di dire (come la prima mossa sulla scacchiera) e come lo dice sono sicuramente tanto importanti quanto il contenuto di ciò che dice.




D’altronde, la grunderegel (regola fondamentale) freudiana è lapidaria nella sua formulazione, si prescrive al paziente di dire semplicemente, seguendo la regola delle libere associazioni, tutto ciò che viene loro in mente, senza esercitare su questo materiale associativo alcuna selezione e alcuna censura, anche se ciò dovesse apparire loro senza alcun interesse, non pertinente, illogico o addirittura assurdo.
Il corrispettivo della grunderegel che si applica al paziente è per l’analista l’attenersi ad una “attenzione fluttuante”, ovvero l’esercizio di un ascolto rispettoso del paziente senza alcuna interruzione non indispensabile, senza tentare di condurre il discorso su un terreno più familiare per l’analista, senza prestare una particolare attenzione ad un elemento invece che ad un altro, senza tentare di memorizzare ciò che stiamo ascoltando e, soprattutto, lasciandoci attraversare dal discorso in maniera da coglierne soprattutto le risonanze emotive profonde che lascia in noi, ben al di la della pura comprensione razionale.
Con le parole dello stesso Freud:
«Si tenga lontano dalla propria attenzione qualsiasi influsso della coscienza e ci si abbandoni completamente alla propria “memoria inconscia”, oppure, in termini puramente tecnici: “Si stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente alcunché”».
(Sigmund Freud, 1912, Consigli al medico nel trattamento analitico, in OSF, Boringhieri, Milano, Vol. 6, p. 533).




O, secondo un modulo più articolato e moderno di quello freudiano, direi che io mi ispiro, nel mio ascolto analitico, a questo eptalogo:
«Le sette regole dell’arte di ascoltare
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.
2. Quello che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé».
(Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, Milano, 2003).



In questo modo, lontano dal perdere informazioni preziose e contrariamente a quello che potrebbe sembrare un ascolto più attento che cerca di memorizzare e conservare quanta più informazione possibile, noi cerchiamo di cogliere l’essenza di un dialogo, che non è certo nel contenuto che ci viene trasmesso, ma nel substrato emotivo che lo anima e nel legame relazionale che corre fra paziente ed analista.
Una persona può utilizzare qualsiasi argomento, anche il più banale, per comunicarci un suo stato d’animo, un sentimento; allora, visto che noi lavoriamo con le emozioni, non è tanto importante seguire il contenuto dei suoi discorsi, che può portarci fuori strada perché non è quello il registro su cui si basa il dialogo, ma alla persona che ci sta parlando preme che cogliamo il messaggio emotivo e non quello simbolico e letterale.
Allora lasciamo fluire la nostra attenzione, pronti a cogliere le risonanze emotive che ci suscita tutto il dialogo, che è fatto certamente di parole, ma fondamentalmente è fatto di comunicazione non verbale, a-simbolica, molto più primitiva e diretta di quella razionale e molto più importante ai nostri fini per incidere sul profondo e sulla nostra regolazione emotiva.
L’osservare che una paziente sia bella, come ho fatto all’inizio di questo post, non è un gioco ozioso, né semplicemente l’indulgere ad un piacere estetico, ma un modo per rendersi presente l’effetto e l’impatto che una persona può esercitare su di me anche col suo aspetto fisico.



Fu il mio maestro, Michele Minolli, a focalizzare la mia attenzione su questi aspetti che allora ritenevo secondari e poco interessanti: molti anni fa quando ero in formazione seguivo un caso in supervisione con lui, io ero sempre alla ricerca di individuare chissà quali dinamiche psichiche inconsce potessero illuminare i motivi della sofferenza della mia paziente, quando lui mi domandò come prima cosa: “Com’è questa donna, è bella?”.
Io cercai di scantonare pensando che fosse poco importante l’avvenenza o meno della mia paziente, ma lui insistette e fui costretto allora a pensare alla mia paziente come donna e non come paziente e all’effetto che lei, con la sua fisicità aveva su di me, così mi resi conto immediatamente che cercavo improbabili o impossibili dinamiche inconsce per nascondermi quanto in realtà mi turbasse la sua bellezza.
Non solo l’impatto che la bellezza o la fisicità di una persona ha su di noi è importante e foriero di informazioni sulle reciproche emozioni e sulla relazione, ma anche altre emozioni, come ad esempio la simpatia (o antipatia che una persona può suscitarci), ricordo che Michele Minolli in una delle sue magistrali lezioni in cui avremmo analizzato il caso clinico di Freud di Dora (Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora), OSF., Boringhieri, Torino, Vol. 3, , pp. 298- 402) ci chiese come prima cosa che impressione avevamo avuto di questa ragazza diciottenne.
La simpatia è preludio di comprensione, facilita la strada a comprendere i motivi della “protesta” di Dora, che si sentiva tradita dal padre, abbandonata dalla madre, ignorata dal fratello maggiore, usata sia dall’amante del padre, la signora K., sia dal marito di questa il signor K. che tentò di approfittare di lei in almeno due occasioni, infine non si sentì compresa da Freud, al punto da abbandonare l’analisi, perché questi era presumibilmente troppo intento a dimostrare attraverso Dora la validità della sua teoria sul sogno e sulla teoria sessuale, per ascoltare davvero la ragazza.



Quando, invece, proviamo antipatia, disagio, fastidio o ci troviamo di fronte a clamorose mancanze di sintonizzazione col paziente, vuol dire che siamo lontani da una sintonia emotiva col paziente, vuol dire che dovremmo lavorare prima sui nostri ostacoli alla comprensione, che sulle asperità del paziente, come il caso di Freud con Dora che trascura di trarre tutte le conseguenze di una sensazione che Dora gli rivela fin da subito e che gli ripete più volte senza che Freud riesca a coglierla del tutto perché ciò significherebbe mutare radicalmente l’inquadramento del caso e le coordinate su cui si accingeva a lavorare, che non coincidevano del tutto con i suoi interessi teorici.
Freud ci informa che:
«Nei momenti di maggiore amarezza le [a Dora] si imponeva l’idea di essere stata consegnata a K. [il marito dell’amante di suo padre] come prezzo per la sua tolleranza della relazione tra suo padre e la moglie, e sotto la tenerezza di Dora per suo padre si poteva sentire l’indignazione per un simile impiego di sé stessa». (Sigmund Freud, 1901, Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora), OSF., Boringhieri, Torino, Vol. 3, p. 328).
Dora stava denunciando quello che avvertiva come uno scambio di donne: “io mi prendo tua moglie e in cambio ti cedo mia figlia”, si sentiva ceduta ad un altro uomo, tradita, usata dal proprio padre, usata dal signor K. non perché la desiderasse o la amasse, ma come moneta di scambio per la cessione della moglie, mentre riteneva che la simpatia che le dimostrava la signora K. fosse finalizzata soltanto ad accattivarsene i favori: in tutti i casi nessuno vedeva Dora in quanto persona, ma come oggetto da usare nello scacchiere delle loro torbide relazioni.
Freud in questo frangente non va oltre l’ammissione che:
«… la verità era che ognuno dei due uomini evita di trarre dal comportamento dell’altro conseguenze che sarebbero d’ostacolo ai propri desideri».
(Sigmund Freud, 1901, Frammento di un’analisi d’isteria (Caso clinico di Dora), OSF., Boringhieri, Torino, Vol. 3, p. 328).
Ma, in definitiva, anch’egli stenta a credere del tutto a Dora e la tratta con la stessa sufficienza degli adulti che la circondano, e quasi da bugiarda, come le era già accaduto quando decide di denunciare ai genitori il tentativo del signor K. di abusare di lei, in quel momento tutti indistintamente sono propensi a credere che si sia inventata tutto, magari (come suggerisce la signora K.) con la fantasia infiammata dalla lettura della Fisiologia dell’amore del Mantegazza.
Il tradimento freudiano però si consuma definitivamente quando Freud trae le conclusioni, assurde e paradossali, che il gesto di Dora di schiaffeggiare il signor K. e di fuggire via di fronte alle avanches amorose di quest’ultimo, di fronte al fatto che un uomo di mezza età avesse fatto il “provolone” con una ragazzina minorenne, sia isterico (in conformità alla sua diagnosi di “petite hystérie”) perché rinnegava il proprio eccitamento sessuale e il proprio desiderio per quest’uomo.
Non lo sfiora nemmeno per un istante l’idea della differenza di età fra i due (la stessa probabilmente che c’era fra lui e Dora), l’immaturità della ragazza e il fatto che Dora ritenesse con certezza che il signor K. non era innamorato di lei ma che esigesse con le sue avanches una sorta di risarcimento.