La linea difensiva dell'imputato Silvio Berlusconi al processo che lo vede indagato per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile.
(Jan van Eyck, I coniugi Berluschini, National Gallery, London, 1434)
Così Silvio Berlusconi ha accolto la sentenza di primo grado che lo condanna a sette anni e all'interdizione dei pubblici uffici (notate che con tutto quel cerone sembra una statua di terracotta dell'imperatore cinese Qin Shi Huan).
Così il Super-Io di Silvio Berlusconi avrebbe voluto accogliere la sentenza ... ma lo capite o no che sono malato, che appena vedo un paio di tette non capisco più nulla, che aveva ragione Veronica ... che altro devo fare per farvelo capire entrare nel vostro letto matrimoniale e ....
I giudici danno all'imputato una pena maggiore di quella chiesta dal PM Ilda Boccassini ... ma allora Ilda è vero amore , e dagli e dagli, lo vedo tutti i giorni, mi fa pedinare dai suoi giornalisti ... anche dal fango può nascere un fiore ... fra appello e cassazione si profila un lungo idillio.
P.S. Stasera e nei prossimi giorni cercherò di evitare i dibattiti sul tema, prima ho sentito Ferrara e sono stato assalito dalla nausea, poi l'annuncio di un dibattito con Sallusti ... e li è stato un conato di vomito ad assalirmi. Ho sentito le dichiarazioni della Santanché e mi è venuto un principio di convulsioni ... non vorrei dover ricorrere ad un esorcista. Devo difendermi dalla volgarità e dal senso di schifo che provo. Ma, la butto li, qualcuno ha mai pensato alla castrazione chimica nei casi disperati come questo? E il male più grave? Quello dell'italiano che non cerca un rappresentante in Parlamento, ma un padrone, come dovremmo curarlo? Rifondare la scuola, la famiglia, una nuova religione che non cerchi greggi pronte per essere tosate ma in grado di forgiare spiriti liberi? La psicoanalisi vi renderà liberi? Grandi sedute oceaniche in streaming di gruppo ...
My heart's in the
Highlands, my heart is not here,
My heart's in the
Highlands a-chasing the deer -
A-chasing the wild
deer, and following the roe; (=ree)
My heart's in the
Highlands, wherever I go.
Farewell to the
Highlands, farewell to the North
The birth place of
Valour, the country of Worth;
Wherever I wander,
wherever I rove,
The hills of the
Highlands for ever I love.
Farewell to the
mountains high cover'd with snow;
Farewell to the
straths and green valleys below; (=breed dal)
Farewell to the
forrests and wild-hanging woods;
Farwell to the
torrents and loud-pouring floods.
My heart's in the
Highlands, my heart is not here,
My heart's in the
Highlands a-chasing the deer
Chasing the wild
deer, and following the roe;
My heart's in the
Highlands, whereever I go.
(Robert Burns)
Il mio cuore è nelle Highlands, la
regione montuosa a nord-ovest della Gran Bretagna, piccole valli lastricate di
rocce fredde e sterili e di aspri costoni rocciosi, niente a che vedere con la
verde Irlanda, la coste ardite sull’Atlantico e le ampie pianure del Galles o
le grasse e vellutate praterie dell’Inghilterra.
Una terra impervia, dura, accidentata, un clima rigido
e inclemente, abitata da gente scontrosa, spigolosa e intrattabile … tanto che
i romani non si diedero la briga di conquistarla ed eressero il vallo di
Adriano per tenere a distanza quei selvaggi, tanto che il re Enrico VIII° d’
Inghilterra dopo aver battuto in maniera schiacciante l’esercito scozzese di
Giacomo V° a Solway Moss, pensò bene di
prendere prigionieri e portarli con sé a Londra alcuni nobili
scozzesi che fossero garanti della pace, dopo aver festeggiato con loro il
Natale a Greenwich fu, tuttavia, costretto a trovare per loro un alloggio
diverso dalla corte reale e li insediò in un’ex proprietà monastica sul Tamigi,
dove: “avrebbero potuto continuare a comportarsi da barbari senza spaventare i
cavalli a corte”.
Chi potrebbe allogare i suoi
sentimenti in terre così selvagge? Eppure i precedenti illustri ci sono, Omero e Foscolo ci dicono che Ulisse “baciò le zolle” (Odissea, XIII°, 54) o che “baciò
la sua petrosa Itaca”, (A Zacinto); era stato incantato dai fiori del loto che
davano l’oblio e facevano dimenticare la patria, la donna e le pene, era stato
ammaliato dal canto delle sirene, era stato avvinto dalle braccia candide di
splendide dee, nutrito a nettare ed ambrosia, allettato dalla proposta di
immortalità, di essere simile a un dio (che era la massima aspirazione per un
greco antico), ma nonostante tutto si era scosso ed era ritornato alla sua
terra natia.
Tutta quanta la vicenda terrena
di Ulisse possiamo comprenderla come il conflitto fra la curiosità dell’uomo
(che il Ulisse si esprime al suo massimo grado) e il richiamo delle radici,
degli affetti, del focolare, dei doveri di uomo e di re; l’astuzia che gli si
riconosce è lo strumento con cui Ulisse affronta e piega al suo volere gran
parte degli eventi a lui sfavorevoli, quello che gli fa superare le prove più
impervie … un’astuzia che si dispiega con Circe, con Polifemo, con Poseidone,
con chiunque incontra nella sua strada, ma anche con la moglie Penelope, da cui
non si fa riconoscere immediatamente perché prima vuole conoscere se i suoi
sentimenti per lui sono immutati.
Anche Penelope ricorre all’astuzia
per fugare l’ultimo dubbio che quello straniero possa essere davvero suo marito
o per estrema accortezza perché sa che gli dei possono divertirsi ad illudere i
mortali facendo loro credere di avere ciò che più desiderano o, come
dimostrazione di fedeltà assoluta o, anche, per avere una piccola vendetta su
di lui che non le si era manifestato subito, voleva in qualche modo fargli
pagare la sua diffidenza.
Per questo architetta il tranello,
con una recitazione degna del consorte finge di cedere ai rimproveri di
freddezza e di insensibilità nei confronti del ritrovato marito, si rimprovera
la sua insensatezza, la sua superbia e il suo esibito disprezzo e chiede alla
vecchia serva Euriclea di portare subito in quel luogo il letto di Ulisse e di
prepararlo con guanciali, drappi e coperte per il suo illustre e ritrovato
sposo.
Ulisse comprende e se ne ritiene
offeso, poi rivela che nessuno potrebbe spostare altrove quel letto, che fu scolpito
da egli stesso nel grande tronco di un frondoso ulivo e che la loro camera da
letto in mattoni gli è stata costruita intorno … solo allora a Penelope si sciolsero
gli occhi in pianto, il cuore e le ginocchia e si lanciò ad abbracciare e
baciare il suo sposo.
Per quanto sia pietrosa e
inospitale la nostra Itaca, la nostra donna non sia più giovane, fresca e
bella, la nostra casa sia infestata dai “proci”, e non sappiamo cosa ci
attenderà al ritorno, se gli affetti che legavano a noi le persone che avevamo
care si sono conservati immutabili oppure sono cambiati, c’è una forza potente
che ci spinge verso il nostro mondo, le persone che amiamo,
la nostra quotidianità, il familiare, il consueto, le nostre radici (ben
piantate nel frondoso ulivo come il letto di Ulisse e Penelope, come la loro
unione), ciò che realmente siamo.
Le Highlands possono essere un luogo, o una persona, o
una situazione, ma più spesso sono un’idea, un’aspirazione, un sogno e, qualche
volta, persino un delirio, che può essere reificato in un luogo (indipendentemente
dalle sue caratteristiche), in una persona, in una fantasia, in un tempo
lontano, nel passato o nel futuro, in qualche
cosa di mai accaduto, che però è per noi più reale e stimolante di qualsiasi
realtà.
Rubert Burns (autore di questa canzone
popolare scozzese), così come Andrew Muir, che riprese l’antica tradizione, erano
nati e cresciuti nelle Highlands, conoscevano ogni angolo, ogni valle, ogni
specchio d’acqua di quei posti, e come dei bardi gaelici di origine celta ne
cantano con accenti lirici la bellezza, che è soprattutto nei loro occhi e nel loro
cuore, un cuore che è in quelle terre, pulsa all’unisono col respiro di quella
terra.
Ma Bob Dylan, Neil Young, Arvo
Pärt, Else Torp and Christopher Bowers (nella versione musicale che vi
propongo), che riprendono a versificare e a intonare queste ballate, non hanno
mai visto le Highlands, eppure ci fanno sentire l’odore del bosco, i profumi
gentili del caprifoglio e del giacinto selvatico, l’usta del cervo e del
capriolo, i cavalli e i segugi, l’eccitazione della caccia, il tendersi degli
archi, il sibilo delle frecce scoccate, il colpo della lancia che apre la carne
e spezza le ossa del cervo colpito o che si infligge sul tronco di un albero o
sulla nuda terra.
Si sente tutto l’amore e la
nostalgia per ciò che siamo verso ciò che eravamo, ciò che ci ha formati, ciò
da cui crediamo provenga la nostra linfa vitale, o per ciò che siamo verso ciò
che saremo quando ci allontaneremo dalle nostre Highlands.
Le Highlands più che un posto
sono un’idea, l’idea di un paradiso edenico in cui siamo nati o che si trovi
agli antipodi del posto in cui viviamo, di un’età dell’oro collocata nel
passato o nel futuro, che ci fa struggere di nostalgia o bramarne l’avvento,
può essere un’ideologia economica, sociale, politica o religiosa, ma può anche
essere un’ideale etico, la vita posta al servizio della virtù e dell’areté (l’eccellenza),
così come era per gli antichi greci, o, ancora, un ideale estetico, come gli
artisti della Grecia classica (dove però occorre dire che etica ed estetica
coincidevano, perché ritenevano impossibile che una cosa buona non fosse anche
bella e viceversa), o gli ideali che permearono l’umanesimo e il rinascimento,
che produssero opere eterne e sublimi, o l’ideale di bellezza inseguito da
Goethe o la vita vissuta come se fosse un’opera d’arte di Wilde, che dedicava tutto
il suo genio nel vivere bene e soltanto il suo talento alle opere che scriveva.
O l’ideale della “grande bellezza”
messo in pellicola da Paolo Sorrentino (da cui è tratta la musica), che fa dire
al protagonista Joe Gambardella (interpretato dallo straordinario Toni Servillo,
che mi è piaciuto molto di più in questo personaggio che in molti altri che ha
interpretato in passato) che non ha più scritto niente di rilevante dal suo
primo romanzo di successo (L’apparato umano), perché gli è mancato di ispirarsi
alla grande bellezza, la stessa intravista da giovane nel sorriso sollevato
della ragazza stasa al sole sugli scogli dopo che lui con un tuffo era scampato
alle eliche di un motoscafo o quella del seno mostratogli all’improvviso,
sempre sugli scogli, dalla stessa ragazza … quanto può essere bello il seno di
un’adolescente, quanto quello di una donna, quanto può essere bello l’averne
rivelazione all’improvviso, inaspettatamente perché lei te lo offre alla vista
e te lo dona come se fosse tuo?
Dopo, quest’ideale è stato
sommerso dal cinismo, dal successo, dall’auto-compatimento, dal potere (“Volevo
diventare il re dei mondani, e ci sono riuscito. Non volevo solo partecipare
alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire!”), da vagonate di
volgarità, da una miriade di attività frenetiche che riempiono il vuoto dell’esistenza,
e dall’infinità di trenini, quelli delle feste, quelli accompagnati dal ritmo
di “… Brigitte Bardot Bardot Brigitte
beijou beijou na fila do cinema todo mundo se afogou … Eh meu amigo Charlie eh
meu amigo Charlie Brown Charlie Brown ….”, quei trenini che non portano da
nessuna parte, si gira sempre a vuoto e ci si ritrova sempre nello stesso
posto, come prima … solo un po’ più vecchi e più vuoti di prima.
Joe Gambardella tutto sommato non
è l’eroe del nostro tempo, lo è la sua maschera, non la sua umanità o l’anelito
alla grande bellezza, lo è il suo cinismo, il non voler più fare ciò che non
vuole fare e non i suoi interrogativi spirituali, la voglia di farsi stupire
ancora da una “santa” (Suor Maria) centenaria e controversa, paladina della
povertà tanto da replicare fieramente alla direttrice della rivista : “Signora,
io ho sposato la povertà. E la povertà non si racconta, si vive!” e dormire per
terra, salvo poi quando viene a Roma alloggiare in uno degli hotel più
prestigiosi, o farsi affascinare dall’immenso spettacolo di uno stormo di
fenicotteri rosa che riposano all’alba sul suo terrazzo con vista sul Colosseo
che improvvisamente ed un cenno della suora di librano in volo.
Il film non è piaciuto molto (io invece l'ho apprezzato moltissimo),
nonostante l’interpretazione di Servillo e degli altri attori che è
straordinaria, nonostante il montaggio semplicemente perfetto, nonostante la
musica molto indovinata (io avrei aggiunto anche “Rumore” della Carrà, sempre
rimixata da Bob Sinclair, come A far l’amore comincia tu che è diventata la
colonna sonora del film), una regia attenta e apprezzabile, che non trascura
nessuno degli insegnamenti dei grandi registi italiani che hanno girato
pellicole memorabili sui temi esistenziali e le inquadrature, i primi piani, l’inserimento
di immagini o di suoni improvvisi che cambia atmosfera, più tipicamente hollywoodiani.
Non è piaciuto perché Sorrentino
non coglie i tempi, vorrebbe presentarci un “eroe” del nostro tempo a cui
dovremmo identificarci per le sue fragilità, per i suoi dubbi, per i suoi rovelli
esistenziali, per la sua tormentata ricerca di un grande ideale sacrificato
sull’altare del successo; invece, credo, se avesse presentato Joe Gambardella
come quel cinico impenitente che cerca di essere, quello ricco, famoso,
potente, quello che è l’anima stessa della festa, amato e temuto da tutti,
quello che può scoparsi tutte le donne e andarsene quando gli pare, quando una donna ti mostra se stessa, le sue debolezze, le sue fragilità, quando cerca il dialogo o qualcosa che gli assomiglia. Uno che vive beatamente frequentando
la crema della Capitale anzi, che decide cosa è "crema" e cosa non lo è, uno che crea l'evento ed anima il mondo che frequenta che poi farà da modello attraverso i tabloid, i
pettegolezzi mondani e le indiscrezioni all’altro mondo, quello delle persone
comuni che vorrebbero essere esattamente come i loro eroi e che, invece, si accontentano
di contemplarli o di raccoglierne le briciole a distanza sui loro
yacht o investendo una somma considerevole per il menù degustazione del più
rinomato locale della costa Smeralda.
Non perdonano a Joe i suoi dubbi
esistenziali, la sua sensibilità (“A questa domanda i miei amici rispondevano
sempre nello stesso modo: la fessa. Io invece rispondevo: l’odore delle case
dei vecchi. La domanda era: cosa ti piace di più nella vita? Ero destinato ad
una diversa sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore : Jep
Gambardella!”, non gli perdonano di non aver risposto la fessa, come farebbe la stragrande maggioranza degli italiani). Non gli perdonano i suoi gesti di umanità verso le
persone che conosce come quando si commuove per e con Romano, il suo sfigato amico
sceneggiatore che vuole tornare al suo paese d’origine, nelle sue Highlands,
perché si è scocciato di inseguire inutili sogni di successo e di farsi
umiliare dalla vita e dalle donne, non gli perdonano di non averlo trattenuto,
di non avergli ricordato l’odore della fama e del successo, di non averlo
incitato magari con qualche tiro di cocaina a resistere, di non averlo esortato
a mollare quella stronza che lo sfrutta senza pietà.
Non gli perdonano la sua sensibilità verso Ramona (la Ferilli), il fatto di non aver approfittato di quella donna strepitosa, dal fisico debordante, sodo, un involucro di carne seducente ed invitante sotto ogni punto di vista, disteso nel tuo letto, disponibile, e di essere più attento alla vicenda umana di questa donna, ammalata gravemente e che spende per curarsi tutto ciò che guadagna come spogliarellista. Non gli perdonano il suo pianto al funerale del giovane schizofrenico morto, in un mondo in cui la follia che toglie il disturbo da sé, senza clamori, è una benedizione più che qualcosa di cui rammaricarsi, persino la madre adesso si sente libera di dedicarsi a ciò che le era sempre piaciuto fare e che non aveva potuto a causa di questo figlio poco equilibrato.
Non gli perdonano, soprattutto,
questa ricerca affannosa della grande bellezza, di cui nessuno sa più cosa farsene e che nessuno sa più cos’è, a
giudicare di come oggi viene offerta alla vista la “Gioconda” al Louvre di
Parigi: il successo si fonda sul successo,
ci sono molte persone che sono famose per ché sono famose, che sono scrittori
perché scrivono, che sono fenomeni mediatici, dettati da un passaggio in tv,
che esistono perché appaiono … altro che messaggio universale da condividere
con l’umanità, altro che ideali artistici, altro che grande bellezza, altro che
… my heart's in the Highlands … il cuore oggi è solo una pompa idraulica.
“Trovo delle creature leggiadre
in tutto e per tutto; parecchie, specialmente quelle coi capelli neri e
ricciuti, m’ispirano una simpatia particolare. Ve n’è anche di bionde, ma
queste non sono tanto di mio gusto” (Johann
Wolfgang von Goethe, Italienische
Reise, Viaggio in Italia 1786-1788,
Vicenza 22 settembre 1786).
Dove se ne vanno le ricciute donzelle
che recano le colme anfore su le
spalle
ed hanno il fermo passo sì leggero;
e in fondo uno sbocco di valle
invano attende le belle
cui adombra una pergola di vigna
e i grappoli ne pendono oscillando.
il sole che va in alto, le intraviste
pendici
non han tinte: nel blando
minuto la natura fulminata
atteggia le felici
sue creature, madre non matrigna,
in levità di forme.
Mondo che dorme o mondo che si gloria
d'immutata esistenza, chi può dire?,
uomo che passi, e tu dagli
il meglio ramicello del tuo orto.
Poi segui: in questa valle
non è vicenda di buio e di luce.
Lungi di qui la tua via ti conduce,
non c'è asilo per te, sei troppo
morto:
seguita il giro delle tue stelle.
E dunque addio, infanti ricciutelle,
portate le colme anfore su le spalle.
(Eugenio
Montale, Dove se ne vanno le ricciute
donzelle, Ossi di Seppia - Sarcofaghi, 1925).