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Esame di maturità anno 2024/2025 - PROPOSTA A2
«La prima visita di Angelica alla famiglia Salina, da fidanzata, si era svolta regolata da una regia impeccabile, e le comunicazioni lente ed astratte erano state perfette a tal punto che sembrava suggerito parole per parola dal “Galateo”. A fine di una settimana il soggiorno era terminato improvvisamente: nessuno dei presenti aveva potuto dire se la partenza di Angelica fosse stata imposta o decisa: il quale atto di suprema padronanza del meccanismo domestico lasciava tutti ammirati. La seconda visita, quella che ora si stava per compiere, era invece destinata ad essere ben diversa: la presenza di Tancredi, la sua intimità con Angelica, la loro reciproca indifferenza per il principio, che aveva presieduto la prima visita, avrebbero dato a questa un tono ben diverso: le soffici trine ricoperte di polvere, le poltrone imbottite di crine, i tappeti sbiaditi, i ritratti di famiglia, tutto avrebbe avuto un aspetto meno solenne, più umano, più caldo. Angelica era giunta, e la sua bellezza, la sua grazia, la sua intelligenza, la sua ricchezza, avevano fatto dimenticare a tutti la sua origine borghese. Don Fabrizio, che aveva sempre avuto un debole per la bellezza femminile, si sentiva già preso dal fascino di quella ragazza, e si era già affezionato a lei come a una figlia. Angelica si sentiva perfettamente a suo agio, e il suo affetto per Tancredi si rifletteva in una gentilezza particolare verso tutti i membri della famiglia. La principessa, che aveva accolto Angelica con una certa freddezza, si era lasciata conquistare dalla sua dolcezza e dalla sua vivacità. Solo Concetta, la figlia maggiore, continuava a guardarla con una certa diffidenza, ma anche lei, a poco a poco, si lasciava vincere dal fascino della nuova venuta. Si avvicinava così il momento della partenza, e tutti sentivano che quella visita aveva segnato l’inizio di una nuova epoca per la famiglia Salina. “Sono fatti che fanno epoca”, pensava don Fabrizio, e si sentiva un po’ più vecchio, un po’ più stanco, ma anche un po’ più sereno. “Zione”: Angelica lo chiamava così, e in quella parola c’era tutto l’affetto, tutta la riconoscenza, tutta la fiducia che la ragazza sentiva per lui. Don Calogero, il padre di Angelica, era soddisfatto: la figlia era stata accolta come una principessa, e lui stesso si era sentito trattato con rispetto e considerazione. Solo la moglie di don Calogero, una donna timida e riservata, era rimasta un po’ in disparte, ma nessuno sembrava farci caso. Don Calogero, per parte sua, si preoccupava di apparire sempre all’altezza della situazione, e per questo motivo, quando qualcuno gli chiedeva notizie della moglie, rispondeva con frasi vaghe e rassicuranti, senza mai entrare nei particolari. In realtà, la povera donna soffriva di una malattia cronica che la costringeva a vivere quasi sempre in casa, ma don Calogero preferiva non parlarne, per non suscitare compassione o imbarazzo».
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1992, pp. 166-168).
Mentre la moglie rappresentava il passato imbarazzante del sindaco Sedàra, la figlia era il futuro, un futuro in cui la sua famiglia entrava a far parte dell’ambiente che lui aveva sempre invidiato: la nobiltà.
I nobili, fossero pure poveri e spiantati, decaduti e pieni di debiti, erano pur sempre nobili e godevano ancora di amicizie e protezioni potenti, fossero pure soltanto i loro stessi parenti che non potevano accettare che il loro casato fosse oggetto di critiche e fosse famoso non per aver compiuto opere gloriose ma per la bassezza in cui erano caduti.
Gli affari grossi si facevano solo fra nobili, e il villano arricchito era sempre guardato con sospetto, come uno che non apparteneva al loro ceto, dunque non ci si mischiava e non ci si poteva fidare, perché certamente non condivideva i principi e gli ideali elevati che contraddistinguevano la nobiltà.
Talvolta era giocoforza accettare di avere a che fare con questi individui, ma venivano sempre tenuti a distanza, e doveva essere sempre chiaro che ci si relazionava in maniera asimmetrica, dall’alto in basso, non fra pari come accadeva fra gentiluomini.
Vincenzo e Ignazio Florio, anche quando diventarono la famiglia più ricca dell’Isola, venivano fatti entrare dall’ingresso di servizio nelle dimore nobiliari, erano loro ad essere convocati, erano loro a doversi spostare, erano loro a “portare rispetto” al padrone di casa, anche quando questo era carico di debiti e loro accorrevano a “salvarlo”.
Tomasi di Lampedusa, di nobili origini anch’egli, cerca di fissare nel suo testo letterario il momento clou in cui avvengono dei cambiamenti radicali all’interno della società siciliana, di quella italiana, in cui si passa da vari ducati, granducati e regni sparsi per la penisola ad un regno unitario sotto il dominio di casa Savoia.
Fissa anche il passaggio da una nobiltà già in piena decadenza da secoli, che cede definitivamente il passo ai villani arricchiti, alle “iene” come li definisce il celebre scrittore siciliano, per distinguerli dai “gattopardi”, specie a cui si onora di appartenere.
Il protagonista, don Fabrizio, principe di Salina, esprime molto chiaramente la sua opinione che questo, cioè quello dell’unificazione dell’Italia, è il tempo in cui c’è bisogno delle iene, e cala il sipario per lui, per la sua specie e per i valori che rappresenta.
Non si tratta del passaggio, come alcuni commentatori hanno fatto notare, fra la decadente nobiltà e una borghesia illuminata che si sta facendo strada, aspirando non solo alle ricchezze economiche, ma anche al potere politico.
La borghesia nasce nel medioevo nei comuni e nelle signorie, dalle corporazioni di artigiani, imprenditori e mercanti, che prendono il potere delle città lottando contro il dominio della Chiesa e contro quello dell’Impero, rappresentato da Federico Barbarossa e da suo nipote Federico II di Svevia; per quanto affascinante possa apparire quest’ultimo, per quanto munifico e liberale, per quante meraviglie e innovazioni possa aver portato nella nostra Penisola, il suo potere era assoluto e la sua mentalità era feudale.
In Sicilia, meno che altrove, si è sviluppato un vero ceto borghese, la monarchia assoluta e arretrata dei Borbone e la chiesa oscurantista in cui il Santo Uffizio e l’Inquisizione spagnola erano rimaste in auge più a lungo che altrove, avevano mantenuto inalterata la distinzione medioevale fra chierici, nobili e plebe, e non c’era posto per un ceto intermedio, benestante e acculturato.
Il potere in Sicilia passò dalle mani dei nobili a quello dei loro amministratori e sovrastanti, tutta quella gente cioè che trattava direttamente con i contadini e gli allevatori a loro soggetti, che lavoravano solo nominalmente per un nobile che non vedevano mai, ma che erano controllati e spesso soggiogati dal campiere, che intanto si arricchiva alle spalle dei contadini e del suo nobile padrone, tanto da poterlo soccorrere con prestiti e con la protezione e l’assistenza armata in caso di minacce e di rivolte contadine.
l campiere divenne indispensabile per molte casate nobiliari, che non avevano più idea da dove derivasse la loro ricchezza e non sarebbero nemmeno stati in grado di occuparsene in proprio; il XIX° secolo fu il secolo in cui molte case nobiliari, anche quelle molto potenti, furono costrette per i debiti accumulati e per la vita dispendiosa che conducevano, a vendere progressivamente e inesorabilmente i propri poderi pezzo per pezzo, fino a ridursi a vivere in un appartamento, come le persone comuni.
Alcuni storici fanno risalire ai campieri e ai loro uomini di fiducia l’origine della mafia, altri la pongono ancora più indietro, al nobile che si circondava di un manipolo di “bravi” attraverso i quali imponeva il suo volere, noi sappiamo che la mafia è stata ed è per noi una tragica realtà che deriva da una concezione in cui gli uomini non sono tutti uguali, ma qualcuno vale più degli altri, per nascita, per censo, per abilità, per determinazione, perché è privo di scrupoli, perché e più forte e più pericoloso, e in cui è normale che esistano rapporti stabili di subordinazione e anche di sfruttamento fra gli uomini.
Quindi, mafioso era il rapporto creato da don Fabrizio con i suoi sottoposti e i suoi contadini e mafioso rimane il rapporto che il sindaco Sedàra instaura con i suoi dipendenti, pur mantenendo una formale devozione e rispetto per la nobiltà, a cui vuole appartenere e da cui vuole essere accettato quasi come se fosse un loro pari e, col tempo, i suoi nipoti apparterranno senza ombra alcuna a quel ceto a cui lui ambisce.
Non è azzardato il parallelo fra don Fabrizio Corbera, principe di Salina, e don Vito Corleone, nel film Il padrino di Francis Ford Coppola, tratto dal libro di Mario Puzo, stesso cipiglio autoritario, stesso modo di credersi il potere assoluto all’interno della propria zona di dominio, stessa verve predatoria, stesso modo di trattare i propri sudditi e di creare rapporti di gratitudine e di dipendenza, stessa aria disincantata su com’è che va il mondo.
La scena in cui Angelica viene presentata ufficialmente ai parenti del suo nobile fidanzato Tancredi, nipote del principe di Salina, è surreale per diversi aspetti; la ragazza in un primo momento recita la parte che tutti si attendono da lei, rispettando alla lettera le regole formali della presentazione ai suoi futuri parenti, che però in realtà sono persone più altolocate di lei, appartenenti ad un ceto diverso dal suo, per cui si aspettano da lei una doppia sottomissione: la prima, quella della ragazza che vorrebbe essere accettata dalla famiglia del futuro marito e la seconda quella della giovane che sta per appartenere ad un ceto più elevato del suo.
Durante il secondo incontro, però, sia lei che il fidanzato Tancredi, si comportano entrambi in maniera molto più disinvolta, il rigore, la solennità, la pompa e il fasto che l’occasione esigeva si era dissipato; mentre suo padre per riequilibrare a suo favore lo squilibrio di potere e di prestigio, adotta la finzione e l’ipocrisia sottomettendosi solo formalmente ai suoi superiori ed adulandoli, la ragazza aveva superato a pieni voti il severo esame della famiglia e aveva prevalso il suo fascino, la sua naturalezza, la sua bellezza, la sua grazia, la sua intelligenza, la sua simpatia e la sua ricchezza, e questo merito gli era stato riconosciuto tanto più che aveva superato di gran lunga fanciulle che in quell’ambiente ci erano nate, eppure continuavano a recitare con rigidità il loro ruolo ed erano legnose.
Con poche parole e con alcuni gesti spontanei era riuscita a conquistare tutti i suoi futuri parenti, persino quelli che le avevano mostrato più freddezza durante il loro primo incontro, come la principessa di Salina Maria Stella e sua figlia Concetta, che nutre un amore non corrisposto e non dichiarato per Tancredi.
D’altra parte, il principe di Salina aveva cercato di abbassare il livello di quella cerimonia di presentazione, rendendo molto meno solenne, cerimonioso e formale l’evento; così come, da parte sua anche don Calogero Sedàra aveva cercato per quanto aveva potuto, di esserne all’altezza, evitando di far partecipare ad esso la propria moglie incolta, completamente analfabeta e totalmente priva di ogni raffinatezza, tale che avrebbe potuto causare al consorte e alla figlia un certo imbarazzo.
L’incontro si svolge in un luogo informale, come la tenuta di campagna di don Fabrizio a Donnafugata, chi non è mai stato a Donnafugata non andrà mai in paradiso, perché anche se ci andasse non saprebbe mai riconoscerne tanta bellezza, bisogna averne avuto una precognizione su questa terra, e solo ammirando le campagne sterminate di Donnafugata, la vista lontana del mare, lo splendido castello costruito dalle mani di Dei e non di uomini, possono farti apprezzare il paradiso che ti attende.
Ma per quanto bello potesse essere quel luogo, era lontano dalla città e dai relativi pettegolezzi, sebbene il matrimonio di un nobile con una ragazza che non appartiene al suo ceto, per quanto ricca, avrebbe dato luogo comunque a molte dicerie, perlomeno li non c’erano testimoni oculari dell’evento.
I testimoni ci saranno, eccome invece, durante il debutto ufficiale della ragazza ad una serata danzante in cui i Corbera erano stati invitati; in tale occasione il principe di Salina accetta l’invito di Angelica a ballare con lei, un invito inconsueto che infrange l’etichetta che siano gli uomini ad invitare le donne e in generale i “superiori” ad invitare gli “inferiori”.
Probabilmente don Fabrizio comprende il motivo di quell’invito e ne condivide le motivazioni, accetta cioè di prestarsi a quel gioco e mette il suo imprimatur, tutto il suo prestigio e il suo potere per favorire l’ingresso di quella ragazza nel suo mondo, ballare insieme a lei con quella leggiadria e quella maestria con cui li descrive Tomasi di Lampedusa, voleva significare che da quel momento Angelica apparteneva alla sua famiglia e col suo rango faceva parte anche della nobiltà tutta.
Qualcuno ha voluto vedere in quel valzer l’avanzare dei tempi, il movimento, il cambiamento, in realtà il valzer è una musica reazionaria, i movimenti che si fanno danzando un valzer non sono progressivi, ma circolari, la coppia ruota sempre intorno allo stesso spazio e su se stessa, di fatto non procede da nessuna parte.
Non a caso è la musica che contraddistingue il Congresso di Vienna, in cui le monarchie dell’ancient regime cercarono di cancellare del tutto la potente spinta innovativa della Rivoluzione francese e dell’Impero Napoleonico, in cui un borghese come Bonaparte o il figlio di un locandiere come Murat potevano sedere sui più alti scranni d’Europa e regnare.
Ogni volta che si teme per il nuovo che avanza e si vorrebbe mantenere il vecchio, rassicurante e confortevole mondo antico, ritorna in auge il valzer come danza alla moda, la musica più adatta per chi vuole che tutto cambi perché niente cambi, e dopo innumerevoli girovolte si torna sempre al punto di partenza e tutto rimane com’era prima.
Nel secondo incontro, a Donnafugata, ci sono altri segnali evidenti che don Fabrizio ha abbassato il livello formale dell’incontro, durante il pranzo come prima portata viene servito un timballo e non, come vorrebbero le regole della cucina francese, un potage o un consommé.
I nobili siciliani, e quelli del sud Italia in generale, facevano a gara ad accaparrarsi i migliori chef francesi sulla piazza; allora la cucina francese era considerata la migliore al mondo e manger à la française era considerato una raffinatezza, le gourmandiseries prelibatezze senza uguali, senza contare che se non per l’onore e il prestigio che se ne ricavava dall’essere invitato da un nobile di preclara stirpe, se non per godere della sua forbita conversazione, a convincere molto di più era l’eccellenza della cucina del suo monsù (una contrazione del termine francese monsieur, termine con cui gli chef francesi venivano appellati).
Servire un timballo al posto del consommé era al di fuori delle regole della cucina dei monsù, era un piatto che poteva essere presente nella cucina di un borghese arricchito, perché era comunque un piatto molto ricco e dispendioso, ma che radicava gli appetiti di quelle persone lontano dalla raffinatezza d’oltralpe che concepivano l’entrée come una pietanza che apre lo stomaco a qualcosa di più sostanzioso come piatti di carne e di pesce, e non come un mattone che fin dall’inizio vuole saziare un appetito atavico, mettendo subito a disposizione del palato la pasta condita con ogni ben di dio.
Il timballo così ricco, come quello del Gattopardo, è tutto ciò che un povero potrebbe desiderare ardentemente per sfamarsi, un acconto terrestre del paradiso, qualcosa che deriva direttamente dal fiabesco e lontanissimo paese di Bengodi, dalle terre della Cuccagna, era ciò che poteva rappresentare al meglio l’idea di sazietà e di goduria del palato da chi aveva sempre patito la fame e finalmente poteva degnamente placarla.
Oggi nessuno di noi oserebbe replicarlo così come è descritto: “L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”.
Questo timballo è la versione più sontuosa dell’odierna “pasta al forno”, il piatto della domenica in cui ogni famiglia profondeva ogni sua ricchezza, ogni cosa che poteva reperire, in casa e fuori casa, tutta la sapienza e la maestria culinaria della famiglia allargata, delle ricette, dei consigli e dei segreti che si tramandavano da una generazione all’altra e che creavano rispetto e prestigio.
Oltre la pasta, immancabile, ma qualcuno la sostituiva col riso, spesso non molto apprezzato dai commensali perché: “U risu è quantu ti isu!”, cioè il riso serve a malapena a mantenerti in piedi, ma non ti sazia, non ti sfama davvero.
Poi si faceva un ragù opulento, di quelli ricchi davvero, con carne tritata o intera e salsiccia, rosolate nel lardo, nello strutto o almeno nel burro e sfumate nel vino, a cui si aggiungevano un trito di cipolla e le spezie, il pepe nero, i semi di finocchietto selvatico nella carne di maiale, rosmarino, alloro a fine cottura e chi poteva permetterselo una grattugiata di noce moscata.
La carne si rosolava insieme al concentrato di pomodoro, “u strattu”, che ogni famiglia faceva durante la stagione estiva in cui abbondavano i pomodori succulenti e deliziosi, e si aggiungeva la passata di pomodoro, anch’esse di fattura estiva, quando le verdure e i frutti erano ancora stagionali.
Il tutto si lasciava cuocere a fuoco lentissimo per ore, col coperchio, questo tipo di cottura faceva si che ogni ingrediente si compenetrasse con tutti gli altri, che ogni sapore esaltasse il sapore di ogni altro e assumesse un sapore nuovo che non è la somma di ogni sapore, ma un sapore diverso, superiore, come insegna Morin con la sua teoria della Complessità.
La pasta viene condita con questo sugo e cotta insieme ad esso per due/tre minuti, quanto basta perché si compenetrino a vicenda, non di più perché con la successiva cottura in forno potrebbe scuocere (ovviamente per evitare che scuocia è necessari anche avere una buona pasta di grano duro, e di un formato medio grande, così è più resistente: gli elicoidali sono quelli che prediligo, ma il tipo più usato sono i maccheroni, l’abitudine tutta siciliana, della Sicilia occidentale più di quella orientale, comunque ad usare gli anellini mi disturba e mi sorge una sola angosciosa domanda per chi la prediliga: “Perchè?”).
A questa base di pasta e ragù, già ricca in sé, si possono aggiungere una serie potenzialmente infinita di altri ingredienti fra i più disparati, fra i più appropriati o inappropriati: piselli, prosciutto, mortadella, mozzarella, melanzane, provola, rognoni e fegatini passati in padella, besciamella, pecorino, parmigiano, grana padano, carne di agnello, caciocavallo, salumi, soppressa, carciofi, uova sode e finanche funghi e tartufi per impreziosirla e persino cioccolato a scaglie.
Questa pasta, nelle sontuose cucine medioevali e rinascimentali, veniva farcita da una pasta frolla salata o dolce, che la racchiudeva completamente, facendo in modo da mantenere all’interno tutti i profumi e gli aromi, che si sprigionavano nella sala da pranzo al momento del taglio per farne le porzioni.
Oggi, più pragmaticamente la si adagia su una teglia antiaderente o su una teglia su cui è stata poggiata una carta forno o uno strato di carta alluminio, o su una pirofila di vetro, ne esistono anche di quelle con un piano superiore che chiude e sigilla il contenuto, altrimenti dovrete proteggerne lo strato superiore con carta forno o alluminio, perché il ragù e la besciamella che la ricoprono completamente non bastano ad evitare che si bruci.
Siccome però la crosticina è importante, potete scoperchiala dai 5 ai 10 minuti prima del tempo di cottura; la cottura dipende dal tipo di pasta, dalla potenza del forno, dal tipo di cottura selezionato e dalla liquidità del ragù, tenete presente che ogni tipo di pasta cotta al forno assorbe il ragù, per cui tenetelo leggermente più liquido del solito, in ogni caso la cottura varia fra i 20 e i 30 minuti, assaggiate prima di spegnere.
Per avere una crosticina ancora più croccate potete aggiungere una spolverata di pangrattato sopra, che si tosterà con la cottura doppia sopra e sotto fra i 180 e i 200°; se volete anche compattarla la pasta (o meglio ancora il riso), sbattete 1 o 2 uova e spargeteli uniformemente sulla superficie con un cucchiaio, vi verranno delle fette perfettamente regolari e geometriche.
Quando l’avrete tirata fuori dal forno, mantenetela in un luogo caldo e fatela riposare per un paio di minuti, questo serve a far si che i succhi e i sapori della pasta si distribuiscano uniformemente e per raggiungere la giusta temperatura perché le nostre papille gustative possano apprezzare il gusto nella sua apoteosi e alla struttura di tutti gli elementi solidi di ricompattarsi per evitare che si sbriciolino al momento del taglio e dell’impiattamento.
Ultimo paradosso di quel pranzo gattopardesco è la scelta del vino, nel romanzo viene nominato lo chablis, un monovitigno francese prodotto con sole uve chardonnay, con aromi agrumati e floreali e con una marcata mineralità e salinità, l’abbinamento che predilige sono i crostacei e i frutti di mare, ma sta bene anche con piatti di pesce e con le carni bianche o ancora con i formaggi freschi, non solo è sbagliato abbinarlo col timballo del gattopardo, con tutti gli ingredienti descritti, ma insistere andrebbe perseguito come crimine contro l’umanità.
Uno dei figli di Giuseppe Tomasi di Lampedusa rispose che in realtà suo padre non era un intenditore di vini e forse fa commettere al suo personaggio quell’imperdonabile errore solo per sprovvedutezza, insipenza e perché magari visto il nome esotico considerava una raffinatezza che ad annaffiare quel lauto e fastoso pasto, cucinato, ricordiamolo, da un monsù fosse un vino francese che se anche litigava col gusto e col palato, dava col suo solo nome un tocco di raffinatezza.
Questa è la chiave per comprendere come il nobile don Fabrizio Corbara, principe di salina, non fosse poi tanto più istruito e raffinato del suo ex campiere don Calogero Sedàra, che avrebbe ritenuto più che corretta la scelta di quel vino solo perché era sta proposta dal principe, e non era tanto più raffinato dei suoi contadini, che avrebbero considerato, a ragione, lo chablis acqua fresca e il timballo un’accozzaglia di cose messe insieme alla rinfusa dove i sapori dolci e quelli salati non trovano un’armonia, dove la pasta si sposa con lo zucchero e con la cannella e dove il tutto è decisamente troppo, anche per persone che non erano mai sazie perché sempre affamate.
La nobiltà siciliana con i secoli era diventata così imbelle e ridicola, che si erano ridotti ad essere solo degli inetti parassiti, loro vivevano nel lusso e nella pompa più sfrenata, mentre il popolo viveva nella fame e nell’indigenza più assoluta, e veniva loro assicurata a malapena l’esistenza, finché denutrizione e stenti non li falcidiavano come mosche, non prima però di aver assicurato al nobile signore un rimpiazzo di servitù, perché tutto l’agio del nobile era garantito dalla vita grama del povero.
Finché questa fu una nobiltà guerriera, nata e fondata sulla protezione armata del popolo e sulle ricchezze che esso creava, aveva qualche senso, ma una nobiltà che era ignorante tanto quanto il popolo, che non sapeva fare nulla, ma proprio nulla, nemmeno occuparsi di ciò che forniva loro quella vita così agiata, e che non sapeva più tenere in mano un’arma degnamente nemmeno per proteggere se stessi, figuriamoci per proteggere qualcun altro, non serviva a nulla, era inutile, persino dannosa, perché tendeva a perpetuare ogni cosa come era sempre sta a impediva ogni progresso, persino quelli che avrebbero potuto migliorare la loro stessa vita.
Era una nobiltà che considerava disonorevole che un nobile lavorasse, questa era un’occupazione plebea, e si disinteressava totalmente dell’origine della propria ricchezza e delle persone che la garantivano.
Mantenevano il lavoro nei campi, nelle fabbriche e nelle miniera ad uno stati di servaggio medioevale, di sfruttamento brutale, se altrove si inventavano strumenti che rendevano meno faticoso il lavoro, questi venivano completamente ignorati nell’isola, ed è questo il motivo per cui lo zolfo estratto all’estero con sistemi innovativi abbattè il costo di questo prodotto e le zolfatare siciliane vennero completamente surclassata da quelle estere.
Mentre in altre regioni, come ad esempio in Piemonte, un’agricoltura fondata su principi più moderni e razionali stava sostituendo l’agricoltura antica del bue e dell’aratro, dove si costruivano ingegnose canalizzazioni per sfruttare al massimo l’acqua disponibile, in Sicilia si manteneva testardamente una modalità arcaica di fare agricoltura basata fondamentalmente sullo sfruttamento dei contadini.
Nemmeno di fronte all’evidenza dell’enorme sterminio che provocò la malaria, qualcuno pensò di bonificare le zone acquitrinose; i nobili pretendevano che la gente andasse comunque a lavorare nella zone di malaria, a rischio della vita, perché costretta dalla fame.
Il nobile ormai conosceva più i salotti di Milano o di Parigi che quelli della sua città, frequentava più le sale da gioco o da ballo che il Consorzio Agricolo o la Camera di Commercio, non aveva alcuna idea del valore e dell’estensione della propria terra e a malapena sapeva quanto gli fruttava ogni anno e perché, i discorsi di lavoro o di denaro lo annoiavano e si interessava soltanto ai programmi teatrali, alle feste da ballo e alle camere da letto delle signore che manifestavano una certa disponibilità o alle questioni di onore e di prestigio..
La politica era considerata una cosa sporca, una cosa più da iene che da gattopardi, al massimo utile per uno come il nipote Tancredi, spiantato, che doveva costruirsi quasi dal nulla una reputazione; il quasi è dovuto al suo titolo nobiliare, che comunque era ancora spendibile in società e alla fortuna enorme che gli portava in dote Angelica, che lo avrebbero aiutato ad avere successo in politica e ad acquisire il potere.
I gattopardi hanno tenuto la Sicilia in uno stato di arcaicità e di arretratezza materiale e culturale, perché loro erano gretti, arretrati, ignoranti e meschini, mentre altrove erano classe dirigente sostituita da una classe dirigente completamente nuova, la borghesia, in Sicilia i gattopardi non erano più classe dirigente, non lo sono mai stati, si sono solamente adeguati al nuovo padrone di turno, rispettandolo e riverendolo formalmente, salvo poi tramare e brigare in privato per avere onori e potere o semplicemente per scansare qualche noia o qualche gabella.
Ad essi non si è sostituita alcuna borghesia, perché la vera borghesia nasce nel medioevo nell’ambito delle libertà comunali che cercavano di affrancarsi dal potere della chiesa e da quello dell’imperatore, nasce dalle abilità dei mercanti, degli imprenditori, degli artigiani che lavorano ora soltanto per se stessi e non più per un signore.; mentre in Sicilia (e nel sud Italia) c’erano solo padroni e servitori, e non vi era spazio per nient’altro.
Esistevano certamente medici, farmacisti, avvocati, notai, insegnanti, ingegneri, architetti, geometri, ragionieri, artigiani, periti agrari, ecc., ma ciascuno di loro finiva per gravitare nell’orbita di qualche nobile potente e, in ogni caso, non esistevano quasi corporazioni di professionisti e mestieranti in grado di tutelare, proteggere e agevolare ciascun singolo componente.
I campieri erano uomini di fiducia del nobile, a lui sottoposti, senza alcuna libertà di manovra se non quella che si prendevano tacitamente e a loro rischio, perché illecita; nessun don Calogero Sedàra avrebbe migliorato le condizioni di lavoro e di vita dei contadini, o avrebbe pensato di mettere a frutto le terre in modo più innovativo e remunerativo, le condizioni di lavoro con l’avvento delle iene anzi peggiorarono, perché le iene erano più attaccate al denaro, più esosi e conoscevano un solo modo per arricchirsi di più, sfruttare di più i poveri.