Tu ridi che per sillabe mi scarno
e curvo cieli e colli, azzurra siepe
a me d’intorno, e stormir d’olmi
e voci d’acque trepide;
che giovinezza inganno
con nuvole e colori
che la luce sprofonda.
Ti so. In te tutta smarrita
alza bellezza i seni,
s’incava ai lombi e un soave moto
s’allarga per il pube timoroso,
e ridiscende in armonia di forme
ai piedi belli con dieci conchiglie.
Ma se ti prendo, ecco:
parola tu pure mi sei e tristezza.
(Salvatore Quasimodo, Parola, in Òboe sommerso, 1932).
“Originariamente le parole erano magie e, ancora oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l’altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l’oratore trascina con sé l’uditorio e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro. Non sottovaluteremo quindi l’uso delle parole nella psicoterapia e saremo soddisfatti se ci verrà data l’occasione di ascoltare le parole che si scambiano l’analista e il suo paziente”.
(Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-17, OSF Vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 201).
“La massa soggiace inoltre alla potenza veramente magica delle parole che nell’anima delle moltitudini possono provocare o placare le più formidabili tempeste. ‘La ragione e gli argomenti logici non riuscirebbero a lottare contro certe parole e certe formule. Vengono pronunciate con riverenza davanti alle masse e, subito, i volti assumono una espressione di deferenza e le teste si inchinano. Molti le considerano forze della natura, potenze sovrannaturali’. Basta in proposito rammentare i tabù dei nomi presso i primitivi, le forze magiche per essi si riallacciano ai nomi e alle parole. Le masse non hanno mai conosciuto la sete della verità. Hanno bisogno di illusioni cui non possono rinunciare. L’irreale ha costantemente la precedenza sul reale, soggiacciono all’influsso di ciò che non è vero quasi come a quello di ciò che è vero. Hanno l’evidente tendenza a non distinguere tra i due”.
(Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921, OSF, Vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 270).
“Fra paziente ed analista non accade nulla, se non che parlano fra loro. L’analista non usa strumenti, non esamina l’ammalato, non gli ordina medicine. Se appena è possibile, lascia l’ammalato durante il periodo in cui si svolge l’analisi nel suo ambiente e alle sue occupazioni, benché ciò naturalmente non costituisca una condizione di trattamento e non possa esser sempre realizzato. L’analista riceve il malato in una data ora del giorno e lo lascia parlare, lo sta ad ascoltare, poi gli parla a sua volta ed è l’ammalato che ascolta. Il volto del nostro uditore imparziale esprime a questo punto un certo sollievo e una certa distensione; tradisce però anche il disprezzo. È come se pensasse: E non c’è null’altro? Parole, parole e ancor sempre parole, come dice Amleto [Amleto, Atto II, Scena 2: “Words, words, words”]. Gli vien anche alla mente l’ironico discorso di Mefistofele sull’uso che può essere fatto delle parole, in quei versi che nessun tedesco può scordare [Si riferisce a Goethe, Faust, parte prima, Studio II, scena con lo studente]. E dice pure: ‘Dunque si tratta di una specie di magia. Lei parla e ogni male dilegua’. Esatto: sarebbe magia se potesse agire più rapidamente. Condizione essenziale della magia è la rapidità, si potrebbe dire la istantaneità, del successo. E invece i trattamenti analitici richiedono mesi e anni: una magia così lenta perde ogni carattere meraviglioso. Del resto non dobbiamo disprezzare la parola. Essa è uno strumento potente, il mezzo col quale ci comunichiamo i nostri sentimenti, la via attraverso la quale possiamo influire sul nostro prossimo. Le parole possono fare un bene indicibile e ferire in modo più sanguinoso. Certo in principio era l’Azione [Goethe, Faust, parte prima, Studio I, con questa citazione Freud chiude il libro Totem e tabù, 1912-13]; e il verbo è venuto solo più tardi, e gli uomini hanno sotto un certo riguardo fatto un gran passo sulla via della civiltà quando l’azione si è attenuata in parola. Ma la parola era pure in origine un sortilegio, un atto magico; ed essa ha tuttora conservato gran parte della sua antica efficienza”.
(Sigmund Freud, Il problema dell’analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale, 1926, OSF, Vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, pp. 355-356).
“Nei nostri bambini, negli adulti nevrotici e nei popoli primitivi troviamo quel fenomeno psichico che possiamo definire come fiducia nella ‘onnipotenza dei pensieri’. A nostro giudizio essa consiste nel sopravvalutare l’influsso che i nostri atti psichici (in questo caso, intellettuali) possono avere ai fini di una modificazione del mondo esterno. Fondamentalmente ogni magia, precorritrice della nostra tecnica, riposa su questa premessa. S’inseriscono qui anche tutti gli incantesimi verbali, nonché la convinzione del potere connesso con la conoscenza e la pronuncia di un nome. Io presumo che l’ ‘onnipotenza dei pensieri’ fu espressione dell’orgoglio dell’umanità per lo sviluppo del linguaggio, da cui procedeva lo straordinario accrescersi delle attività intellettuali. Si schiuse il nuovo regno della spiritualità, nel quale rappresentazioni, ricordi e deduzioni divennero determinanti, in contrasto con l’attività psichica inferiore, che aveva per contenuto le percezioni immediate degli organi di senso. Fu certo una delle tappe più importanti sulla via dell’ominazione”.
(Sigmund Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, 1934-38, OSF, Vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 432).
“I simboli avvolgono infatti la vita dell’uomo con una rete così totale da congiungere prima ancora della sua nascita coloro che lo genereranno ‘in carne e ossa’, da apportare alla sua nascita insieme ai doni degli astri […] il disegno del suo destino, da dare le parole che lo faranno fedele o rinnegato, la legge degli atti che lo seguiranno persino là dove non è ancora e persino al di là della sua stessa morte”.
(Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, Einaudi, Torino, Vol. 1, p. 272).
“Prima della parola nulla è, né non è. Tutto è già lì indubbiamente, ma solo con la parola esistono cose che sono […] e delle cose che non sono. È con la dimensione della parola che la verità si scava nel reale. La parola introduce il vuoto dell’essere nella tessitura del reale”.
(Jacques Lacan, Seminario I.Gli scritti tecnici di Freud. 1953-1954, Einaudi, p. 283).
“Io trovo che le parole siano come gli amanti, quando non funzionano più vanno cambiate subito”.
(Drusilla Foer, Sanremo, serata 03-02-2022).
La parola non è soltanto un fonema, o un complesso di fonemi, di suoni articolati, che rappresentano un concetto o una cosa, non è solo informazione veicolata da qualcuno per rappresentare oggetti o situazioni, non nasce fin dall’inizio per rappresentare qualcosa in sua assenza, o per scopi pragmatici, indicativi, rappresentativi o inerenti alla necessità di un’azione.
Essa non nasce nel quotidiano per facilitare la comunicazione fra gli uomini o a suo complemento, è più probabile che sorga in un contesto sacro, come qualcosa a cui si ricorre quando abbiamo esaurito ogni espediente pratico o per dare più forza a tutti gli espedienti che la nostra cultura ci tramanda.
Di questa accezione della parola ne rimane ampia traccia in tutte le culture, da quella sciamanica dell’Asia, fino ai popoli europei; la cultura greca, che più di ogni altra ha forgiato quella dell’Occidente fino ai nostri giorni, attribuiva alla parola un potere divino, sovrannaturale, Patroclo, ad esempio, utilizza anche dei “ragionamenti” per curare Euripilo (Iliade, XV, 379), mentre secondo il poeta i figli di Autolico per curare Ulisse ferito: “fermarono il sangue con un magico canto” (Odissea, XIX, 457-458).
L’uso di incantesimi (epodai) e scongiuri, come pratiche curative era molto diffuso nell’antichità e, sotto mentite spoglie, lo è anche ai nostri giorni, soprattutto in certi ambiti dove la distinzione fra razionale e irrazionale, scienza e magia, naturale e sovrannaturale sfuma fino a perdersi, di recente in piena pandemia di coronavirus abbiamo fatto la dolorosa scoperta che la paura del contagio può condurre molte persone a preferire rimedi assurdi o addirittura controproducenti a quelli più efficaci che pure esistono.
Certo, nessuna parola fermerà il virus o il contagio, però la processione, l’invocazione ai santi o alla Madonna, le preghiere e il rosario, attenuano temporaneamente la paura (che è anch’essa contagiosa come un virus ed è più pericolosa di qualsiasi virus), anche se l’assembramento richiesto per effettuare il rituale potrebbe peggiorare di fatto una situazione già piuttosto grave.
Come accadde nella città di Milano percorsa dalla peste fra il 1576 e il 1577, in cui il cardinale Carlo Borromeo (poi divenuto santo) organizzò una processione che riscosse moltissima partecipazione da parte dei molti milanesi barricati in casa per paura del contagio, per invocare la reliquia del “santo chiodo”, trasportato per la strade della città dai credenti a piedi nudi … inutile dirvi che tutto ciò invece di far recedere il morbo, ne incrementò moltissimo i contagi e le morti.
Eppure l’immenso potere della parola non ha bisogno di nuove dimostrazioni, per millenni la cosiddetta medicina religiosa, afferente ai templi ed officiata da sacerdoti dediti a qualche culto, tenne testa alla medicina empirica, alle prime scuole di medicina costituitesi su basi razionali, come le scuole mediche di Cnido, di Crotone, di Cos, per tutto questo tempo e nonostante i progressi della medicina, si occupò con un certo successo del malessere e delle patologie dell’essere umano, sia di quelle cosiddette mentali o sacre, come l’epilessia, sia di quelle fisiche: in fondo nessun incantesimo ha fatto più danni della serie indiscriminata di salassi a cui venivano sottoposti i malati per riequilibrare gli umori del corpo e per ripristinare lo spirito vitale.
L'impiego delle epodai è stato accertato nel movimento Orfico, nel pitagorismo (molti pitagorici, compreso il maestro, esercitavano l'arte medica) e nel pensiero di Empedocle, il quale affermava che:
"Alcuni (malati) di un oracolo han bisogno, altri, affetti da ogni sorta di morbi, vogliono sentire una salutare parola" (D-K 31 B 112, 9-12).
Discepolo di Empedocle, Gorgia da Leontinoi (una colonia siciliana in prossimità di Siracusa, fondata dai calcidesi) porta la parola all'apice della sua potenza, egli infatti ritene che la persuasione si serve dello strumento della parola, considerato un mezzo efficace che non conduce però né verso la verità, né verso il bene e neppure verso l'utile teorizzato da Protagora, ma, produce un piacevole inganno (apàte) che affascina gli ascoltatori e: ”...per il quale chi inganna agisce meglio di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato" (D-K 82 B 23).
Egli paragona gli effetti del linguaggio alle piacevoli illusioni dell'arte (la tragedia, la poesia e la musica) e sostiene che esso possiede un potere straordinariamente elevato perché:
"...la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce a calmare la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà" (D-K 82 B 11, 8).
Gorgia fornisce una spiegazione "fisiologica" degli effetti della parola sugli ascoltatori sostenendo che:
"C'è tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima lo stesso rapporto che tra l'ufficio dei farmaci e la natura del corpo" (D-K 82 B 11, 14).
La parola agisce, dunque, come un farmaco (pharmakon) per l'anima, allo stesso modo in cui le sostanze approntate dai medici agiscono sul corpo.
Se Gorgia fu un pensatore proveniente da un luogo tutto sommato periferico rispetto al centro in cui era sorta e si irradiava la cultura che ha formato l’Occidente, Antifonte, nato e cresciuto in Atene, ne rappresentava il nucleo palpitante e incandescente.
Di lui si tramanda che:
"E al tempo in cui faceva il poeta, mise insieme un'arte per liberare l'animo dal dolore [τέχνη ἀλυπίας, tèchnē alypìās], al modo stesso che i malati vengono curati dai medici. E apprestata una casa a Corinto, sulla piazza, vi pose una scritta, nella quale era detto che egli aveva la capacità di curare a mezzo di discorsi quanti soffrissero dolore nell'animo, e facendosi dire le cause, confortava i pazienti" (DK 87 A 6, Untersteiner, M., a cura di, 1967, IV: Antifonte e Crizia, pag. 327).
Se non fosse scritto a chiare lettere che curava quanti soffrono di “dolore nell’animo” a “mezzo di discorsi”, potremmo pensare a qualcuno dei tanti guaritori antichi che giravano di città in città, di villaggio in villaggio, prestando la loro opera dietro compenso o a qualche sacerdote che operava in uno dei tanti templi dell’antichità famoso per le sue guarigioni rituali o a qualche medico itinerante, ma proprio questi due termini specifici ci fanno ritenere di trovarci di fronte a qualcosa di simile, fatte le doverose differenze cronologiche e culturali, ad un moderno psicoanalista.
Senza queste antiche concezioni dubito fortemente che Joseph Breuer, Sigmund Freud, Alfred Adler, Gustav Jung, Jacques Lacan e gli altri avrebbero potuto incardinare nella modernità una terapia della psiche basata essenzialmente sull’effetto catartico della parola, né creare uno congegno che utilizza strumenti puramente psicologici per risolvere problematiche che hanno un’eziologia prettamente psicologica.
Ma non sarebbero nemmeno esistiti gli sciamani, i guaritori, gli uomini-medicina, gli esorcisti, i mesmeristi, i magnetisti, gli ipnotisti, che col l’uso più o meno imperioso della parola guarivano i malati dalla possessione di demoni e spiriti malvagi, oppure cercavano di riequilibrare i loro squilibri umorali, elettrici, energetici e vitali.
Ma la parola non ha solo una funzione terapeutica o liberatoria, essa è anche creatrice, siamo talmente abituati al fatto che la pronuncia di una parola preceda di poco l’apparizione della cosa che designa, che ci aspettiamo magicamente di veder apparire la cosa solo per effetto della parola che la evoca, come un sortilegio, e nonostante le molte esperienze contrarie che ci hanno disilluso.
Non ci stupisce che nel libro della Genesi, quando l’autore o gli autori raccontano la creazione dell’universo, la parola “Iddio disse” viene pronunciata innumerevoli volte, Dio dice e subito dopo appare la cosa detta, questo è il dispositivo della Creazione: “Dio disse: ‘Fiat lux’, e la luce fu” (Genesi, 1, 3).
La parola divina non ha un intento comunicativo, con chi comunicava Dio, infatti, se oltre lui non c'era ancora niente e nessuno? Ma meramente creativo: la parola non indica la cosa, ma la crea, essa sorge prima di ciò che designa.
Giovanni evangelista ci offre l’apoteosi di questo dispositivo quando sostiene che:
"In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto fu fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste. In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini" (Giovanni, 1,5); Dio, per Giovanni, è parola (verbo) che si fa sostanza (carne), la volontà di Dio non è nello spirito, come pensavano altri, essa risiede nella parola, senza la quale non ci sarebbe nulla.
La parola è un progetto sul reale, un’ipotesi, una ricostruzione, la traccia di un rapporto fra osservatore e oggetto osservato che sfuma e si perde nella presunta concretezza che ambisce a rappresentare; Giovanni è il più greco degli ebrei o il più ebreo dei greci, ha assimilato i concetti della filosofia ellenica, soprattutto il pensiero dei due giganti dell’antichità: Platone e Aristotele, e usa il termine “verbo” come se dicesse “eidos”, forma, modello, idea, un concetto sempre associato e ad esso inscindibile con “telos”, cioè col fine, il modello definisce il fine, lo scopo, è progettato per uno scopo.
Può sembrare poco interessante tutto ciò, ma è qualcosa di essenziale a tutta la cultura dell’Occidente, ci siamo talmente immersi che pensiamo che sia la normalità, che non si possa pensare e agire altro che così, ogni nostra parola, ogni nostro concetto, sono progetti di azione, modelli esplorativi e pragmatici per agire nel reale, non riusciamo a pensare senza progettare in anticipo un modello che ci permetta di conoscere e di agire.
Che possa esistere un altro modo, completamente differente di relazionarsi col mondo lo scopriamo quando veniamo in contatto con altre culture, diverse dalla nostra, soprattutto se non cerchiamo soltanto di tradurre i concetti culturali di questa cultura nei nostri, come si fa di solito.
Un esempio piuttosto illuminante potrebbe essere la guerra in Vietnam che gli Stati Uniti combatterono contro i guerriglieri vietnamiti insorti per contrastare ogni nuova occupazione da parte di truppe straniere, dal 1955 al 1975.
Questo lungo conflitto non è stato solo uno scontro fra diversi eserciti e fra diversi interessi, come tutta quanta la storiografia ci tramanda; è stato piuttosto il conflitto fra due culture completamente differenti, di cui una, quella vietnamita, pur essendo militarmente ed economicamente molto più debole, aveva il vantaggio di avere delle nozioni abbastanza approfondite della cultura avversaria (Hồ Chí Minh, il più grande generale delle truppe di liberazione nord-vietnamite aveva vissuto per molti anni in Francia, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Russia ed era stato anche in Italia, assimilando piuttosto bene la nostra cultura), mentre i politici e i generali statunitensi non solo non avevano alcuna nozione della cultura del fronte avversario, ma non ne avvertivano alcuna esigenza: per questo alla fine i vietnamiti vinsero la guerra e gli americani la persero.
Mentre i generali e i politici americani, seguendo l’insegnamento del generale prussiano Carl von Clausewitz, autore del trattato Della guerra, che ebbe un’enorme diffusione fino ai nostri giorni, quello che per intenderci scrisse la fortunata frase: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, pianificavano a tavolino strategie ed escogitavano strumenti sempre nuovi e diversi per piegare lo spirito dei vietnamiti insorti, i patrioti del Vietnam evitavano accuratamente piani e strategie, perché ogni realtà che si rispetti sfugge ad ogni previsione e va in modo differente da ogni piano che noi possiamo prestabilire.
Per capire la mentalità dei vietnamiti è utile leggere e meditare libri come L’arte della guerra di Sun Tzu, I Ching o Il libro dei Mutamenti o il pensiero di Lao Tze compendiato nel Tao Te Ching, da essi deriva un modo di dare battaglia e di affrontare una guerra completamente differente da quello americano o occidentale, l’occasione per battere il nemico non va pianificata, non esistono strategie né strumenti decisivi per vincerlo, basta adottare il principio di maturazione di tutte le cose, secondo il qualche tutto cambia e si trasforma (mentre la pianificazione presuppone che ogni cosa sia uguale a se stessa nel tempo), e saper cogliere il momento adatto, l’occasione più opportuna, il tempo più maturo perché le proprie caratteristiche e risorse siano più adeguate alla vittoria rispetto a quelle del nemico.
Tutto ciò è ben esemplificato dalla frase con cui il generale vietnamita Võ Nguyên Giáp commentava il mancato assalto delle sue truppe al villaggio di Dien Bien Phu: “il tempo non è maturo …”; solo due mesi dopo sferrò l’attacco che significò la fine del dominio francese in Indocina.
Non si tratta di un’attesa passiva degli eventi propizi, ma di attuare tutto ciò che è possibile per facilitare un processo già in atto, dello scrutare il momento di maggior debolezza del nemico, di avviare, stimolare ed assistere qualcosa fino alla sua maturazione spontanea.
Del resto il divario culturale fra Oriente ed Occidente, almeno fino ad allora, era talmente grande da condurre a visioni del mondo completamente differenti; l’Occidente industrializzato non poteva non trasferire la propria modellistica e i piani tipici dell’industria anche alla guerra, e l’industria adotta strategie e previsioni facendo tesoro dell’esperienza passata.
Utilizziamo l’esperienza passata, raccolta da numerosi osservatori indipendenti, per accertare che date determinate condizioni iniziali si verificheranno determinate condizioni finali, con certezza assoluta o con un ampio margine di probabilità, oppure date determinate premesse vere o plausibili, si verificheranno immancabilmente determinate conclusioni, secondo il principio di razionalità incluso nella logica aristotelica.
È necessario riesumare il vecchio Karl Marx, precocemente liquidato dopo la caduta dell’Unione Sovietica e del Muro di Berlino, come se Stalin le “purghe”, i “gulag”, i carri armati sovietici a Budapest e a Praga fossero colpa sua, per ristabilire la fondamentale evidenza che la struttura economica, il modello produttivo imperante in una civiltà, condizionano i rapporti sociali, politici, religiosi e culturali delle persone che in essa vivono.
Con le stesse parole del filosofo ed economista tedesco:
“Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita”. (Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Prefazione, in rete su bibliomania.it a cura di Patrizio Sanasi)
Non solo, il modello produttivo condiziona anche la sfera affettiva e spirituale di quella determinata civiltà, il modello capitalistico ha modellato i rapporti sentimentali fra gli esseri umani secondo le norme vigenti del suo sistema produttivo e secondo le sue leggi economiche e commerciali, in cui ciascuno di noi ha un prezzo ed un valore di mercato,
A questo schema non è sfuggito nemmeno Sigmund Freud, che parlava di “pulsioni” come forme di energia quantificabili, di “quote d’affetto” come quantitativi di sentimenti che possono venire investiti o controinvestiti su un oggetto esterno da cui ci si aspetta una ricompensa in termini di piacere, come se un innamorato fosse un agente di borsa che investe beni e ricchezza in buoni fruttiferi e amare qualcuno significava spostare delle quote affettive da se stesso verso qualcun altro, causando in questo modo una idealizzazione e sopravvalutazione di quest’ultimo e un conseguente svalutazione di sé con calo di autostima.
Mentre l’Oriente, con un’economia prevalentemente agricola, vive in balia di eventi climatici che è costretto ad accettare, che non si illude di poter prevedere (come facciamo noi nell’ambito del turismo), che cerca comunque di sfruttare una volta che accadano o almeno cerca di evitare che creino grossi danni, e per il resto zappa, abbevera, sarchia, concima il terreno, tiene lontani parassiti e malattie della pianta, ne protegge la crescita e la maturazione e, infine, ne coglie i frutti.
Il Vietnam ha dovuto attendere vent’anni perché il colosso statunitense ritirasse le sue truppe e deponesse ogni intenzione colonialistica e imperialistica su tutta l’Indocina, ma alla fine ha conservato la sua indipendenza e la sua libertà sfruttando ed esasperando proprio le caratteristiche precipue del suo avversario: gli Stati Uniti hanno intensificato di anno in anno le l’invio di truppe in Vietnam, hanno intensificato i bombardamenti a tappeto sui civili per piegare lo spirito del popolo, hanno utilizzato armi non convenzionali come il Napalm (e poi cercavano le armi di distruzione di massa in Iraq).
Hanno anche usato strumenti di propaganda che poi gli si sono ritorti contro, perché i giornalisti inviati di guerra documentavano le atrocità e i crimini di guerra commessi dai loro soldati e smascheravano le falsità diffuse dalla Casa Bianca (da allora gli USA tollerano solo in giornalismo “embedded”, quello cioè di parte, dalla loro parte, quello allineato ai loro scopi, quello per cui se dici di esportare la democrazia eliminando le dittature, ripete pedissequamente questa cosa e fa filtrare solo informazioni che la sostengono).
I vietnamiti si sono limitati a veder crescere l’elefante americano, ad assistere al suo sfoggio di muscoli, fino al punto che l’elefante è stato ucciso proprio dalla sua elefantiasi, soffocato dalle dimensioni esagerate che aveva assunto e dall’inconcludenza e dall’inesattezza delle proprie strategie e dei propri piani, perché l’avversario non giocava con le sue stesse regole ed era dunque inafferrabile, ineffabile, difficilmente prevedibile.
Ma le parole hanno un’altra caratteristica, spesso più che essere indici di una presenza, evocano un’assenza, stanno al posto di ciò che non c’è, di un’astrazione, questo vuol dire che noi possiamo tessere una rete infinita di significanti che si rimandano l’un l’altro, senza necessità di ancorarsi ad alcunché di reale, fino a costruirci un mondo puramente concettuale in cui viviamo o crediamo di vivere.
Cosa sono in fondo concetti come libertà, democrazia, uguaglianza, giustizia, dignità, …, se non puri concetti che di per sé non rimandano a niente di esistente, eppure spesso queste cose sono per noi più importanti del pane, dell’aria e dell’acqua, anche se la poetessa argentina Alejandra Pizarnik era di parere opposto quando scrisse alla sua amica Martha Isabel Moya: “ […] niente è promessa, tra il dicibile, che equivale a mentire (tutto ciò che si può dire è menzogna), il resto è silenzio, solo che il silenzio non esiste, no, le parole, non fanno l’amore, fanno l’assenza, se dico acqua berrò?, se dico pane mangerò? (tratta da Questa notte in questo mondo. Poesie non raccolte in volume (1970-1972, pp. 133-134).
Però per ciascuno di questi concetti astratti sono state costruite delle strutture per salvaguardarlo, per esplicarlo nelle sue attuazioni, per applicarlo, esistono edifici dove tale concetto si esplica e si applica, tribunali, corti di giustizia, parlamenti, seggi elettorali, funzionari preposti al suo rispetto, sanzioni per i trasgressori, aule scolastiche dove queste cose si insegnano, ecc.
Dunque la parola, anche quella astratta, si rende in qualche modo reale, si presentifica nella nostra vita, ciononostante ha ragione la Pizarnik: berrò? mangerò? Se vado al ristorante e mi limito a leggere il menù, mi sentirò sazio? E se parlo di libertà, sarò libero?
Le parole hanno effetti reali nella nostra mente e nel nostro organismo perché lo modificano in qualche modo, tuttavia il mondo evocato dalle parole rimane pur sempre un mondo astratto, in un certo senso mi trovo a sentirmi più vicino al comunismo di Simone Weil che a quello di Simone de Beauvoir, quest’ultima nella sia autobiografia Memorie di una ragazza perbene scrive che l’unico contatto avvenuto fra le due donne è stato molto breve e tagliente e che da allora le due non si parlarono più.
La Weil sosteneva che l’unica rivoluzione che auspicava era quella che “avrebbe dato da mangiare a tutti”, la de Beauvoir sosteneva invece che non era importante che gli uomini fossero felici, ma che sapessero dare un senso alla propria esistenza, la replica della Weil fu netta e definitiva: “Si vede bene che Lei non ha mai avuto fame”.
Non che la ricerca di senso nell’essere umano non sia importante, spesso lo è talmente tanto da accettare anche la fame, ma se vuoi continuare a dare un senso alla tua fame, ogni tanto è necessario mangiare e poi, chi l’ha detto che l’atto di mangiare di per sé non sia già un modo di dar senso alla propria esistenza.
La differenza è sottile, ma qualcuno dovrà pur notarla, tutto il pensiero occidentale si basa sulla riflessione sull’Essere, si cerca di definire ciò che l’Essere è e ciò che l’Essere non è, il Divenire è poco preso in considerazione un po’ da tutti (eccetto che da Eraclito); ricerchiamo e ci illudiamo che esistano Enti inalterabili nel tempo, qualcosa che rimane uguale a se stessa, anche la scienza si occupa solo di fenomeni replicabili, che si manifestano nello stesso modo per permettere agli scienziati di scoprire delle leggi universali.
Oggi, a dire il vero, l’idea di fissità e di inalterabilità degli eventi si è attenuata, prevalgono le leggi e le previsioni probabilistiche rispetto a quelle universali, la verità non è più certa, ma probabile, e gli scienziati sono sicuri di essere in grado di dirci con quale percentuale un evento è possibile, con quale margine di errore.
Non cambia molto, si cerca soltanto di giustificare l’errore, ma si guarda solo a ciò che con più frequenza si verifica, si mettono insieme tutta una serie di eventi accomunati solo da una serie di caratteristiche comuni, caratteristiche esclusivamente quantificabili, attinenti alla loro quantità e non alla loro qualità, in questo modo si trascurano le differenze fra questi eventi e si trascurano ancora di più gli eventi rari, quelli che si verificano con meno frequenza, ma che non sono per questo meno importanti degli altri.
IL POTERE DEL CANTO
(Franco Battiato, Ferro Battuto, 2002).
SPREZZA OGNI INGANNO
IL CANTO È POTERE
SI BAGNA COME UN PRATO
SI ARRAMPICA SUGLI ALBERI
FA MUOVERE IL GIROSCOPIO
SPREZZA OGNI INGANNO
HA LA FORZA DI UNDICI AQUILE
FA SMUOVERE IL CUORE AL FARAONE
ER ÜBERDECKTE DIE LEERE, MIT EINEN ANDEREN LEERE. ER SCHRIEB AN DIE RÄNDER DES BLATTES, UND SEINE SCHWESTER, DER SPRACHE. ER ÜBERDECKTE DER LEERE, MIT EINEN ANDEREN LEERE.
( ) GESPENST. NACHDEM ALLE ANDEREN GEFÜHLEN AUFGELÖST WAREN,
( ) MILDEN
UNERBITTLICH. ( ), DER INK RIEBE. DAS PAPIER ZU BEDECKEN, ZU IRRLICHTERN, WIE
EIN GESPENST. MIT EINE KONSTELLATION VON ZEICHEN, VON GEDANKEN. WARUM WIEDER
LESEN? WAS GESCHRIEBEN IST,
IST GESCHRIEBEN.
WAS GESCHRIEBEN IST,
IST GESCHRIEBEN.
WAS GESCHRIEBEN IST,
IST GESCHRIEBEN.
WAS GESCHRIEBEN IST,
IST GESCHRIEBEN.
WAS GESCHRIEBEN IST,
IST GESCHRIEBEN.
WAS GESCHRIEBEN IST,
IST GESCHRIEBEN.
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EGLI COPRÌ IL VUOTO CON UN ALTRO VUOTO. SCRISSE AL BORDO DELLA PAGINA E A SUA SORELLA, IL LINGUAGGIO. EGLI COPRÌ IL VUOTO CON UN ALTRO VUOTO.
( ) FANTASMA. DOPO CHE TUTTI GLI ALTRI SENTIMENTI SI RISOLSERO PER IL VERSO GIUSTO, ( ) DELICATO INESORABILE. ( ) L'INCHIOSTRO LUCIDEREBBE. LA CARTA DA COPRIRE, DA ILLUMINARE, COME UN FANTASMA. CON UNA COSTELLAZIONE DI CARATTERI, DI PENSIERI. PERCHÈ LEGGERE DI NUOVO?
QUELLO CHE E' SCRITTO, E' SCRITTO.
QUELLO CHE E' SCRITTO, E' SCRITTO.
QUELLO CHE E' SCRITTO, E' SCRITTO.
QUELLO CHE E' SCRITTO, E' SCRITTO.
QUELLO CHE E' SCRITTO, E' SCRITTO.
QUELLO CHE E' SCRITTO, E' SCRITTO.
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