“Questo xe un Corpo, i Membri del
qual, tratti da vili Ceti, no i ha avudo alcuna Educazion. Pieni de miseria e
de fame no i serve, e i magna. Cossa gali [che cos’hanno] de Salario? Poco.
Cossa fali [che cosa fanno]? Niente. Come vìveli [come vivono]? Da gran
Signori”.
(Carlo Contarini, Discorso del 5
dicembre 1779 al Maggior Consiglio, cit. da Alvise Zorzi, La Repubblica del
Leone. Storia di Venezia, p. 466).
Cecilia Zen Tron attraversò come
una nuvola, un raggio di sole, un fascio di luce, un sorriso, un vento di
primavera quello scorcio di tempo fra la fine del XVIII e gli inizi del XIX
secolo in cui visse; nata in una delle famiglie patrizie più antiche di
Venezia, fu costretta a soli 17 anni a sposare Francesco Tron, di casato più
recente (quelle famiglie che i veneziani chiamavano delle Case Nuove), ma molto
più ricco e potente, tanto che il fratello di Francesco, Andrea, era
soprannominato “el paròn” (il padrone), e raggiunse la carica elettiva di procuratore
di San Marco de citra, seconda solo a quella di doge, e sarebbe
anche diventato doge se non avesse sposato Caterina Dolfin, una donna colta e
libera che col suo stile di vita creava scandalo.
Cecilia era bella, colta,
ribelle, instancabile, curiosa, intrigante, capricciosa, stravagante, priva di
scrupoli, sessualmente libera ed emotivamente disinvolta, complice, forse, in
quest’ultimo caso i 33 anni di differenza che correvano fra lei e il marito, ma
anche una sorta di doceur de vivre e un'aria protofemminista che si respirava soprattutto a Venezia fra le donne di un certo ceto sociale.
Era solita cavalcare come un
fantino, a califourchon (a cavalcioni, cioè) e non all’amazzone, come ogni
donna di rispetto che volesse rientrare nei canoni della costumatezza del suo
secolo e mantenere il decoro avrebbe dovuto fare; tirava bene di scherma, era
talentuosa nel suonare il clavicembalo, ballava come un’ossessa, le piaceva
mascherarsi e di solito indossava abiti maschili, era un’eccellente padrona di
casa e nei suoi salotti e in occasione di ricevimenti, intratteneva
piacevolmente uomini eruditi e personaggi di spicco dell’alta nobiltà europea.
Il drammaturgo Carlo Gozzi la inserisce nel
novero delle “filosofesse”, insieme a Luisa Bergalli, Elisabetta Caminer,
Giosefa Comoldi Caminer, Caterina, Marina e Contarina Sagredo, Marina Querini
Benzon, la famosa “biondina in gondoeta”, Elisabetta Maffetti la “Dandula”
(moglie dell'anziano Antonio Dandolo), Isabella Teotochi Albrizzi e la cognata Caterina
Dolfin Tron (era stata per lungo tempo prima l’amante poi
la moglie del potentissimo Andrea Tron, fratello
di Francesco).
Tutte costoro, insieme ad altre
“compagne”, erano le esponenti di punta di un rinnovamento della vetusta
società italica, legata ancora agli usi e costumi dell’ancient regime, e
peroravano la causa e i valori che l’illuminismo, l’esprit français e l’encyclopédie
stavano veicolando da anni nel mondo occidentale; erano tutte colte e galanti,
tenevano raffinati salotti culturali, erano impegnate in prima
linea, esse stesse poetesse, giornaliste, drammaturghe, traduttrici,
praticavano una spregiudicatezza intellettuale e politica a cui spesso seguiva
anche una spregiudicatezza nei costumi, insolita per quell’epoca.
Per il nostro commediografo,
Carlo Gozzi, che avversava anche le novità teatrali che stava inserendo Carlo
Goldoni, evidentemente bastava che una donna sapesse pensare per diventare una
filosofessa, ma il termine è ironico e dispregiativo, assomiglia a quel
proverbio secondo cui manca la pace se la gallina canta e il gallo tace; egli,
come già molti autori comici di tutti i tempi, utilizza la sua riprovazione
morale per colpire i vizi degli altri, in modo da non vedere i propri, o per
punzecchiare i vizi di un’intera società, illudendosi di esserne esente.
Ma di certo è vero che man mano
che Venezia perde l’orgoglio della sua forza, della sua potenza, della sua
libertà e dell’indipendenza, man mano che si fiaccano le forze e il coraggio
maschili, fino a prospettare e ad attuare una disastrosa “neutralità disarmata”
davanti alle truppe prevaricatrici del generale Napoleone Bonaparte,
risorgevano l’orgoglio, la forza e il coraggio femminili: infatti gli unici
personaggi italici degni di nota in quel periodo sono donne, se si eccettuano
gli avventurieri come Cagliostro e Casanova.
E del sedicente conte di
Cagliostro, d’altra parte, la nostra
bella Cecilia era stata anche amante, almeno finché il conte non dovette
scapp … assentarsi improvvisamente perché sul suo capo pendeva l’accusa di
furto su denuncia di un ricco mercante veneziano.
Ebbe molti altri amanti e un
secondo marito alla morte del primo, un tale cavalier servente Giorgio Ricchi
(dell’antica casata dei Ricchi & Poveri), che non osò mai limitare la sua
libertà di manovra né discutere sulla sua emancipazione femminile, come già era
avvenuto col primo marito Francesco, che giunge a farsi redarguire severamente
dagli Inquisitori di Stato: “a contenere la dama sua moglie nei limiti di una
decente moderazione”, e si limita a punirla col suo indignato silenzio invece
di strigliarla a dovere o a prorompere un un’omerica risata.
Era accaduto, infatti, che
Cecilia, in un colpo di testa dei suoi, a trentotto anni, vestita da uomo,
raggiunge e precede, cavalcando a spron battuto sul Terraglio (tratto iniziale
della SS13 “Pontebbana” che collega Venezia con Treviso), il corteo proveniente
da Treviso che scortava l’imperatore Leopoldo II e la regina di Napoli e i
granduchi di Toscana, facendosi notare, e pare pure apprezzare, dagli ospiti,
ma non dai burberi funzionari della Repubblica, per i quali il contegno di una
nobildonna avrebbe dovuto essere “serenissimo”.
“Grato scarpel su questo marmo
incidi / Il fausto dì quando a' miei Lari apparse / Colei che Diva de gli
Adriaci lidi / Chiara fama di sé nel mondo sparse”. Scrivi qual di virtù, di
grazie io vidi/ D’ingegno, di saper luce spiegarse; / E quanta a me di puri
sensi e fidi / subita fiamma inestinguibil’arse. / Scrivi che, se da gli occhi
miei fu pronta / Gli alti pregi a rapir, pur mi consola/ Dolce speranza che al
partir mi diede. / Ma, se poi le promesse il vento invola/ D’Adria pel mar,
taci i miei danni; e l’onta / Non eternar de la mancata fede”. (Parini, Sonetto
XVI, Per Cecilia Tron Veneziana).
Inizia con questi versi l’idillio
fra la trentaseienne Cecilia Zen Tron e il cinquantottenne Giuseppe Parini,
sembra si fossero incontrati tre volte appena, a Milano in Casa Serbelloni
(Mazzanti Viendalmare), che Parini frequentava come letterato-ospite, pare
senza alcun incarico preciso, mentre la Tron la frequentava perché il marito
Francesco era podestà a Brescia.
Come sia andata la vicenda mi
pare chiaro ed è deducibile dai suoi versi, la donna, dopo “la dolce speranza
che al partir mi diede”, parse non interessarsi oltre al nostro letterato abate
e non mostrò ricordo della fede che il cuor suo in lei riponeva, né delle
promesse d’amore fattegli, che il vento invola così come Bruno e Buffalmacco
involarono un porco a Calandrino (Decameron, Ottava giornata, VI).
Cosa fece frullare le eliche dell’abito
(avete presente quella specie di bargigli bianchi che pendevano dal collo dell’abito
nero di un abate dell’epoca dei lumi?) del nostro attempato abate è egli stesso
a dircelo in un’ode (Il pericolo),
in cui lamenta come l’età e l’esperienza non servono a niente contro gli occhi
fulgidi, gli incliti pregi, il lungo crin, le volubili grazie, le palladiane
membra, i guardi cupidi, l’almo aspetto divin, il vago labro e di rara
fecondia, i lampi scoppiettanti dalla sua poetica face, l’altre terribili arme
della beltà, a come la candida mano porgea nel dir, a come il cubito molle
posava uguale a gigli e rose.
Ma soprattutto era quel seno, il mobil
seno e nudo braccio, il seno palpitante mentre cantava sotto a la percossa
cetera, quel bel niveo petto, che sembrava non voler entrare nei morbidi veli
della donna a cui era destinato (pare che Cecilia amasse mostrare le coppe del
suo bel seno ad ogni occasione propizia, quasi come fossero bambine dispettose
che sfuggivano al suo controllo, godendo certamente dell’impatto che
producevano nel suo interlocutore), a costituire per il poeta il più grave
pericolo.
Ancora peggio va ad un ignoto
professore dell’Università di Padova, a cui scrive una lettera la cui
intestazione inizia con: “Carissimo e asinissimo …”, e che conclude con i
seguenti saluti: “Vostra? Mai! Cecilia Tron”; la bellezza è il suo punto forte,
anche quando questa, con l’età, si offusca e le presenta il conto delle prime
rughe, che ella tenta di nascondere con un pesante e costoso trucco, ad un
gondoliere che vedendola così mascherata, sotto pesanti strati di fondotinta,
voleva motteggiarla dicendole: “Che bela ciera che la ga, Celenza” (dove cera
poteva significare tanto aspetto quanto strati di cera), replicò: “Lo so, sior
macaco, ma la me costa!”.
Quando nel 1787 il doge Ludovico
Manin e il Maggior Consiglio vennero costretti, senza colpo ferire, da
Napoleone ad abdicare, per proclamare il "Governo Provvisorio della
Municipalità di Venezia" e la Serenissima Repubblica di Venezia cessò di
esistere dopo oltre 1000 anni di indipendenza, Cecilia, coerente con le letture
dei filosofi dei lumi e col suo carattere esplosivo e proiettato nel futuro, si
palesa come francofila e giacobina.
Nel settembre di quell’anno diede
una gran festa democratica nel suo palazzo (Ca' Tron, nel sestiere di Santa
Croce) sul Canal Grande, e andò personalmente a Mestre a ricevere Joséphine di
Beauharnais, moglie del generale Napoleone (lui non era presente, mise piede a Venezia
solo qualche anno più tardi) e l’accompagnò in gondola cantandole la canzone “la
biondina in gondoeta” di Antonio Lamberti e di Simone Mayr.
Non conosciamo quanto grande fu
la sua delusione quando nell’ottobre dello stesso anno il generale francese
dichiarò ufficialmente decaduta la “Municipalità di Venezia” e, col Trattato di
Campoformio cedette all’Austria Venezia, il Veneto, l’Istria, la Dalmazia e le
Bocche di Cattaro (in sostanza gran parte degli ex territori della
Serenissima), che andarono a formare la “Provincia veneta” dell’Impero
Asburgico.
Né quale fu la sua reazione
quando il Bonaparte si ripresentò in città, dopo aver siglato la pace di
Presburgo in seguito alla folgorante vittoria sugli austriaci ad Austerlitz,
stavolta in veste di imperatore e di predone, visto che depredò i palazzi della
città di molti tesori artistici (tutti quelli che gli piacquero e che poteva
trasportare in Francia, compresi i cavalli in bronzo che stavano sul loggiato
della Basilica di San Marco, che impacchettò e gli fece prendere la via per
Parigi, dove avrebbero fatto bella mostra nell'arco di Trionfo del Carrousel
per celebrare i suoi trionfi sui campi di battaglia di tutta l’Europa).
Ma l’evento per cui Cecilia Zen
Tron è rimasta celebre, quello che le comari veneziane andavano mormorando per
calli, campielli e sestieri, e che l’ha consegnata alla storia del gossip fino
ai nostri giorni avviene durante il carnevale del 1782; in quell’occasione i
suoi parenti e alcuni primati della città cercarono di convincerla a cedere il
suo sontuoso palco in occasione di un importante spettacolo al teatro San
Beneto (il predecessore della Fenice, a quell’epoca il più prestigioso teatro
in città) allo zarevič Paolo Petrowitz, figlio di Caterina II, e a sua moglie
Maria Teodorowna, in visita ufficiale a Venezia.
Ora, per una donna mondana ed
esuberante come lei era molto gravoso cedere il suo palco a teatro e in un’occasione
del genere poi, non tanto per lo spettacolo, perché al ceto sociale al potere
non interessa spettacolo alcuno, credono di essere loro stessi lo spettacolo;
questo punto l’ha colto magistralmente Gustav Klimt, quando nel 1888 dipinse L’interno
del vecchio Burgtheater, conservato nell'Historisches Museum der Stadt Wien a
Vienna.
Nel dipinto Klimt ribalta la
prospettiva, invece di focalizzarsi sulla scena, sugli attori, sullo spettacolo,
rivolge il suo pennello con un realismo estremo ai palchi, alla platea, alla
galleria, alle lampade, al soffitto decorato sobriamente, ma soprattutto sono
rese in tutta evidenza le persone presenti, con la collocazione spaziale a loro
assegnata e gli abiti che indossano che ne denotano la condizione sociale, l’atmosfera
briosa ed elegante che aleggia nell’aria e quell’aria di festa mondana che ci
fa quasi sentire il loro vocio e la stessa musica proveniente dal golfo mistico
dei musicisti che non vediamo che accordano i loro strumenti.
I personaggi più di spicco sono
tutti ben delineati, dalla targa sul palco in cui è possibile leggere i loro
nomi, fino al riconoscere i personaggi più importanti presenti nella scena: all’estrema
sinistra del dipinto, sul palco
imperiale è possibile scorgere l’imperatore Francesco Giuseppe in piedi accanto
alla consorte Elisabetta (la famosa Sissi), seduta a suo fianco, mentre in
platea in terza fila accanto al corridoio la donna seduta in abito bianco è
quasi sicuramente l’attrice Katharina Schratt, amante dell’imperatore.
Non volendo cedere il proprio
palco e non potendo ragionevolmente sottrarsi alle pressioni che tutti le
facevano in proposito, perché infatti il suo era l’unico palco sufficientemente
grande e il più sontuoso per ospitare i “conti del Nord” (così si faceva
chiamare la coppia di aspiranti al trono di Russia), Cecilia piccata e
contrariata si rassegna a cederlo, anzi a darlo in affitto al prezzo
esorbitante di 80 zecchini d’oro (no Pinocchio non c’era, e nemmeno il Gatto e
la Volpe si sono visti), con una cifra così elevata avrebbe potuto prendere in
affitto l’intero teatro per tutta la stagione.
Naturalmente non furono i
granduchi a pagare l’esosa cifra, ma la cittadinanza tutta che li aveva
invitati, d’altronde la loro era una visita ufficiale, non potevi certo
presentare loro il conto come se fossero dei turisti
giapponesi qualsiasi.
Scandalo, indignazione, proteste
non si fecero attendere, ma più di tutte prevalse la linea del sarcasmo, un
ignoto Pasquino veneziano (che nella città lagunare è impersonato di solito dal
“gobbo di Rialto”, che sta sulla piazza di fronte alla Chiesa di San
Giacometto, oppure dal sior Antonio Rioba, il più famoso dei mori dell’omonimo
campo di Cannaregio, fece circolare il seguente epigramma satirico: “Brava la
Trona / La vende el palco / Più caro de la mona”.
Pare che la nostra gentildonna,
quando venne a conoscenza della bella strofe che qualcuno le aveva dedicato,
non si infuriò, non si arrabbiò, non si scompose, non mosse un capello dal suo
posto, ma con molta arguzia replicò all’anonimo libellista che: “La Trona / la
mona / la dona”.
Certamente affranta per il
disastro, costernata, dispiaciuta per aver perso molto, per i danni subiti, per
la ferita infertale, forse persino consapevole che i danni maggiori non sono i
forni di Murano distrutti, le case invase dall’acqua, le suppellettili dei
negozi rovinate, la merce perduta, i giorni in cui le attività sono costrette a
tenere chiuse le saracinesche, con relativo danno economico, non la paura
(perché vi assicuro che l’onda di piena in seguito alla mareggiata faceva
paura, come faceva paura il cielo in tempesta, sembrava di essere diventati i
vicini di Noè, nel momento in cui si aprono le cataratte del cielo e tutta l’acqua
dell’universo sembra rovesciarsi sopra di loro, mentre Noè è già salpato).
Ma anche talmente vanitosa da
godere di quello spettacolo straordinario che la metteva ancora una volta sotto
i riflettori del mondo, non c’era un notiziario che non parlasse della mareggiata
di Venezia, da Rawalpindi a Kathmandu hanno tralasciato di discutere delle loro
faccende, anche piuttosto importanti, per vedere i veneziani immersi fino al
torace nell’acqua della laguna.
E siccome la vanità propria
attrae la vanità altrui, tutti i vanitosi, gli esibizionisti del mondo, sono
venuti a mostrarsi a Venezia, il turismo invece di diminuire i suoi flussi è
aumentato, non era raro vedere a poche ore dal disastro gente che cercava di
documentare in ogni modo l’evento eccezionale, per poter dire: “Io c’ero”, o
chi si buttava in acqua a torso nudo, e che acqua era quella lo potete
immaginare anche solo avendola vista dai notiziari, più melma che acqua, le
fogne della città che rigurgitavano ovunque, roba che ti prendi la leptospirosi
come minimo.
Trovavi di tutto in giro subito
dopo la piena, c’era ad esempio il sindaco Brugnaro che girava spaesato per le
calli e in Pizza San Marco, in stato stuporoso, come chi non riesce a
capacitarsi di ciò che è successo, sembrava John Travolta in quel film di cui
non ricordo il titolo (Pulp fiction?) in cui entra in una stanza si guarda
intorno più volte e sembra confuso, come se non capisse dove si trova o perché
si trova li, e Brugnaro allo stesso modo sembrava dire: “Ma dove xea finìa
Venessia?”.
Poi si è visto pure Luca Zaia,
che per la fretta si era dimenticato di mettersi il gel sui capelli, ha fatto
una ricognizione sulla cripta di San Marco, lievitava sopra l'acqua per non sporcare il suo mocassino firmato e l'abito Corneliani, ha rilasciato due dichiarazioni
arrabbiate contro il Mose che non è in funzione (come se lui non c’entrasse
nulla e come se il suo partito non fosse stato al governo per un anno di
recente e per troppi anni in passato, quando il Mose era diventato un
tangentificio per tutti in Veneto), poi, come se fosse un turista al pari degli
altri e non il governatore della regione, è andato in Emilia in supporto alla
campagna elettorale regionale.
Si è visto anche Salvini, chissà
chi gli suggerisce il look, quando era ministro lo vestivano con abiti firmati,
avrebbe dovuto sembrare un serio uomo di potere, invece sembrava qualcosa fra
un gorilla e un buttafuori da balera, non parliamo poi delle felpe o della
mania di indossare divise delle forze dell’ordine di ogni specie e grado.
Abiti da lavoro molteplici per uno che non ha mai lavorato e che danno un'identità ben definita, almeno per il momento in cui l'indossi, a chi è stato, secondo convenienza, ora secessionista, ora federalista, ora anti-meridionale e anti-italiano, ora fratello d'Italia pronto alla morte se Italia chiamò, ora anti-sovietico, ora favorevole a Putin, o almeno ai suoi rubli.
E dimentichiamoci le bermuda da bagno di quest’estate, si è presentato con un look che sembrava un pescatore di trote della Valchiavenna, col giubbino trapuntato di color verde bottiglia con pettorale vagamente bronzeo, dotato di cappuccio e con un berretto blu con visiera che faceva a pugni col resto dell’abbigliamento … si è fatto un paio di selfie, poi saputo che nessun ristorante era in grado di cucinargli qualcosa, è andato a mangiare in terraferma.
Abiti da lavoro molteplici per uno che non ha mai lavorato e che danno un'identità ben definita, almeno per il momento in cui l'indossi, a chi è stato, secondo convenienza, ora secessionista, ora federalista, ora anti-meridionale e anti-italiano, ora fratello d'Italia pronto alla morte se Italia chiamò, ora anti-sovietico, ora favorevole a Putin, o almeno ai suoi rubli.
E dimentichiamoci le bermuda da bagno di quest’estate, si è presentato con un look che sembrava un pescatore di trote della Valchiavenna, col giubbino trapuntato di color verde bottiglia con pettorale vagamente bronzeo, dotato di cappuccio e con un berretto blu con visiera che faceva a pugni col resto dell’abbigliamento … si è fatto un paio di selfie, poi saputo che nessun ristorante era in grado di cucinargli qualcosa, è andato a mangiare in terraferma.
Ma non
dobbiamo farci prendere la mano ad infierire contro di lui per il look e per la
superficialità della sua visita, in questo caso una passerella nel vero senso
della parola, Salvini è un uomo molto impegnato, innanzitutto è il leader
indiscusso di quello che è stimato come il maggior partito d’Italia, secondo
passa da una campagna elettorale all’altra e i problemi che incontra sono
titanici, sta cercando di fare in modo, se dovesse vincere la sua candidata in
Emilia, Lucia Borgonzoni, di far si che anche in questa sfortunata regione gli
ospedali rimangano aperti anche durante il fine settimana.
E non si tratta, com’è stato
detto, di vane promesse elettorali, è la sacrosanta verità, io che vivo in
Veneto ormai da tempo posso testimoniare che in questa regione davvero gli
ospedali sono aperti anche la domenica, anche il sabato, anche di notte: grazie
Zaia (glielo dico io pubblicamente prima che se lo dica da solo facendo
stampare ed esporre di nuovo a nostre spese manifesti cubitali in cui si ringrazia per aver ottenuto i
giochi olimpici per Cortina del 2026).
Poi è arrivato di tutto, da
Berlusconi a Sgarbi, fino ad una delegazione della Nazionale di calcio con
Vialli e Donnarumma (che non rischiava di annegare di certo anche se la marea
si fosse alzata ancora ... mentre Brunetta è stato messo in sicurezza già solo con la marea oltre il metro) ... no, Zingaretti no, aveva calcetto, e nemmeno Di Maio, che se fosse venuto a Venezia avrebbe perso altri voti, ora che non è venuto ha perso gli stessi voti se fosse venuto, se parla perde voti, ma perde voti anche se non parla, perde voti se si muove, ma pure se non si muove...
Ciascuno ha rilasciato interviste, ha detto qualcosa, se l’è presa con qualcuno che non fosse lui o qualche suo amico, nessuno ha segnalato il vero pericolo, che è il fatto che le fondamenta in muratura che sovrastano i pali conficcati sulla laguna a fare da colonne alla città si stanno sgretolando sempre più in fretta quanto più sono frequenti le acque alte che le lambiscono e vi permangono per ore, interi edifici storici potrebbero crollare improvvisamente, come successe nel 1902 al Campanile di San Marco.
Ciascuno ha rilasciato interviste, ha detto qualcosa, se l’è presa con qualcuno che non fosse lui o qualche suo amico, nessuno ha segnalato il vero pericolo, che è il fatto che le fondamenta in muratura che sovrastano i pali conficcati sulla laguna a fare da colonne alla città si stanno sgretolando sempre più in fretta quanto più sono frequenti le acque alte che le lambiscono e vi permangono per ore, interi edifici storici potrebbero crollare improvvisamente, come successe nel 1902 al Campanile di San Marco.
Coltivate i vostri sogni, hanno
detto i più, follow your dreams, cultivate your dreams, tutti vogliono
coltivare, ma nessuno ha iniziato a zappare; tutti sembravano sapere di chi
fosse la colpa, tutti sembravano sapere cosa è necessario fare, ma tutti sono
andati via subito dopo, gli unici a fare veramente qualcosa, oltre ai volontari
della Protezione Civile, della Croce Rossa e di altre benemerite associazioni,
sono stati gli studenti di Venezia, che invece di godersi lo spettacolo o di
essere loro stessi lo spettacolo, hanno iniziato spontaneamente e senza
riflettori, microfoni o telecamere a dare una mano ai commercianti in
ginocchio, per tentare di salvare il salvabile, per sgomberare pianoterra e
cantine dall’acqua, per ripristinare al più presto un servizio o un’attività.
Per il resto è prevalso il far “finta
de pomi”, il “ciavarsene”, come mi ha suggerito la lettura di questo profetico post di
Francesca Ruth Brandes, pubblicato su Tessere.org,
e a cui vi rimando volentieri se volete sapere il significato di questo detto
popolare veneziano.
L'interno del vecchio Burgtheater, Gustav Klimt, 1888 (dettaglio). |