Carola Rackete, capitana della Seawatch, ha 31 anni,
passaporto tedesco, parla cinque lingue, si è laureata in conservazione
ambientale alla Edge Hill University nel Lancashire, con una tesi sugli
albatros, è stata al timone di una nave rompighiaccio nel Polo Nord per uno dei
maggiori istituti oceanografici tedeschi, ufficiale di navigazione per l’Alfred
Wegwner Institute, presso la quale ha lavorato dal 2011 al 2013. A 25 anni era
già secondo ufficiale a bordo della Ocean Diamond, a 27 anni ricopriva lo
stesso ruolo nella Arctic Sunrise di Greepeace. A trent’anni ha pilotato piccole barche per escursioni
nelle isole Svalbard, nel mar Glaciale Artico. Ha lavorato anche con la flotta
della British Antartic Survey… e per Salvino è solo una “sbruffocella”.
Ce n’è quanto basta per far infuriare i sovranisti di casa
nostra, basterebbero solo le parole “laureata” e “lavorato” per farli accanire
contro di lei ferocemente, se poi Carola viola il blocco della Guardia Costiera
e fa rotta verso Lampedusa, invece di andare molto più brevemente e più
velocemente nel porto di Amsterdam, come consigliatole dal ministro Salvino,
allora si aprono le cataratte del cielo.
Migliaia di
sovranisti sbavanti sul web ad insultarla, ad augurarle stupri multipli e
disgrazie di vario genere, squadracce con le camicie verdi (o gialle) impazzano
sui social a sfogare il loro disagio, la loro pochezza, il livore e le loro
frustrazioni attaccando vigliaccamente tutto ciò che è diverso da loro e perciò
stesso spregevole e inferiore.
Oggi non serve più calzare stivale o anfibi con le fasce
mollettiere, o i pantaloni alla zuava o la camicia nera col teschio, la giubba
aperta, e il fez, non serve essere equipaggiati col manganello, con l’olio di
ricino ed avere il coltello fra i denti come gli arditi di Fiume, si può essere
fascisti, comodamente a casa vostra con le infradito, o le ciabatte, costume
modello boxer, largo per carità, che quelli stretti li indossano i giovani
palestrati e non è questo il caso, a motivi vagamente floreali, ma non troppo,
su sfondo blu o azzurro, perché altrimenti sembreresti troppo poco virile e non
adeguatamente un macho di destra, pancia ben visibile in tutta la sua
ripugnanza, telo in spalla, barbetta da uomo vero che poco si cura di apparire
e di piacere ma che segretamente vorrebbe piacere così com’è, anche se teme sia
impossibile, capello accuratamente spettinato.
Oppure, con le infradito imbarazzanti, un pantaloncino più
stretto e più corto, una polo rigorosamente Lacoste di una tonalità più chiara
degli shorts, abbottonata fino al collo (hai visto mai che prendi freddo), le spalle cascanti, la pancia
rilassata, sguardo da ebete che accenna un sorriso imbarazzato, come di chi sa
di essere li per sbaglio, di non essere l’uomo giusto al posto giusto e quasi
chiede scusa, ha uno sguardo di supplica, sembra giustificarsi con un: “Nun ce
so venuto, me c'hanno messo!”.
“Questo mare è pieno di voci e
questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo
mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte”.
(Giovanni Pascoli,
dall’introduzione a “Un poeta di lingua morta”, 1914).
Taormina, Teatro greco-romano.
Agrigento, Valle dei Templi
Siracusa, Teatro greco.
Paestum
Agrigento, Valle dei Templi
“Prima di morire, devo trovare il
modo di esprimere quel che v’è di essenziale in me, qualcosa che non ho mai
detto, qualcosa che non è né amore, né odio, né pietà, né disprezzo, ma il
respiro intenso della vita, che viene da molto lontano e che conferisce alla
vita la sua espressione d’immensità e di potente forza imparziale delle cose
che non sono umane”.
(Bertrand Russell,
L’autobiografia).
Melaleuca glauca
Già, cose 'e pazzi! Andrea Camilleri, Il metodo Catalanotti, Undici, p. 166.
“TIRESIA … Soltanto il cieco sa
la tenebra”.
(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, I ciechi, p. 23).
Capri
Cosa ti manca? “ U scrusciu du
mari. “
(Andrea Camilleri).
Agrigento, Valle dei Templi.
“Ho scritto più di cento romanzi,
un mio personaggio, Montalbano, percorre felicemente il mondo … poteva bastami,
no? No, non mi è bastato! Diventato cieco mi è venuta una curiosità immensa, di
capire … no, capire no, è un verbo sbagliato, non si può capire. Ma di intuire
cosa sia l’eternità, quell’eternità che ormai sento così vicina a me. E allora
ho pensato che venendo qui, in questo teatro, fra queste pietre veramente
eterne, sarei riuscito ad averne almeno un’intuizione”.
Utah, Delicate Arch
Agrigento. Valle dei templi.
Taormina, Casa Cuseni.
Con queste parole Andrea
Camilleri conclude il suo splendido monologo Conversazioni su Tiresia recitato
al teatro greco di Siracusa lo scorso 11 giugno di un anno fa, in uno
spettacolo unico, che non prevedeva repliche, trasmesso la sera stessa in
diretta da Rai 5 sul canale 23 (sulla cui recezione non ci si può contare
sempre né in ogni luogo d’Italia).
Mi sono chiesto perché in Rai non
hanno pensato di trasmetterlo su Rai1, il loro canale di punta, quello da
sempre più seguito, vista l’eccezionalità dell’evento, visto che persino le
repliche di Montalbano, le ennesime, battono sistematicamente il Grande
Fratello e alcune partite di champions, e dato che avevano dispiegato talmente
tante e tali forze e mezzi in luogo che c'erano quella sera
a teatro più operatori Rai che spettatori paganti.
E poi, che strategia mediatica è
quella che in diretta lo trasmetti su Rai5, qualche mese dopo lo fai uscire in
proiezione nei cinema, come se fosse un’opera teatrale inedita (un passaggio
breve e solo nei cinema frequentati dai professoroni di sinistra, come del
resto lo è Rai5, quelli dove un leghista o un pentastellatofunzionale non capirebbe nemmeno la sigla di
apertura), poi lo riproponi finalmente su Rai1 e solo dopo di ciò la casa
editrice Sellerio stampa e fa uscire nelle librerie il testo del monologo (sono
state fatte in precedenza un numero ristretto di copie riservate solo a chi ha
potuto assistere allo spettacolo quella sera in teatro).
Non è stato facile per me
riuscire a liberarmi dai miei numerosi impegni e fare questa fuga in Sicilia
per ascoltarlo “a casa mia” in questa sua inedita veste di attore di teatro, e
recitante un personaggio e un testo che si incuneava magnificamente fra l’Edipo
a Colono di Sofocle, l’Eracle di Euripide e i Cavalieri di Aristofane.
E non solo perché con la
primavera e i primi tepori tutti i sintomi dei disturbi dell’umore (distimia,
ciclotimia, ipomania, mania franca, depressione, psicosi bipolare) e anche
quelli schizofrenici dei miei pazienti si intensificano, raggiungono il loro
parossismo, esplodono all’improvviso come le gemme sugli alberi.
Succede anche che tutti gli altri
miei impegni non strettamente clinici, non legati cioè all’attività del mio
studio e ai miei pazienti, richiedano un’attenzione maggiore, perché non
seguono il ciclo dell’anno solare, che inizia in gennaio e si conclude in
dicembre, ma quello dell’anno accademico, che inizia in settembre e termina in
giugno, per cui mi si presentano scadenze, è tempo di valutazioni, bilanci,
resoconti e di ipotizzare nuove prospettive, pianificare l’attività futura.
Nonostante, dunque, il mese di
giugno sia per me campale, ho piantato baracca e burattini (J'ai tout laissé
tomber - I planted shack and puppets), serrato i battenti di bottega,
arrotolato la palla pazza, venduto moglie e figli ai beduini del Maghreb e ho
salpato le ancore alla volta di Siracusa.
Chi non ha mai assistito ad una
tragedia greca non può capire, né io potrei mai trovare le parole per
trasmetterglielo, cosa si prova in eventi come questo. Le emozioni che vi da
una rappresentazione di un dramma antico superano per vastità di gamma ed
intensità le emozioni che potreste aver provato in qualsiasi altra forma di
spettacolo: la visione di un bel film, un evento teatrale o musicale, persino
se gli arcangeli e i cherubini suonassero per voi le arpe eoliche non
sfiorereste il livello di beatitudine e di profondo afflato col respiro tragico
e gioioso del mondo.
Fu nel giugno del lontano 1984
che assistetti per la prima volta ad una rappresentazione tragica nel Teatro
Greco del mio capoluogo d’origine, si trattava del Filottete di Sofocle, ed ero
in compagnia della mia insegnante di lettere del liceo e di quasi tutta la
quarta B.
iardini Naxos, vista da Taormina.
Otto Greiner, Odisseo e le sirene.
Taormina, Teatro greco-romano.
Siracusa, Teatro greco, Ifigenia in Aulide, 2015.
Risento ancora oggi la voce
cavernosa, disperata, rivendicativa, rabbiosa di Giulio Brogi che impersonava
Filottete, un eroe greco abbandonato dagli achei in rotta verso Troia
sull’isola di Lemnos, a causa del fetore emanato dalla cancrena della sua gamba
causata dal morso di una vipera, o quella subdola di Piero Di Iorio, che
impersonava Odisseo nel tentativo di sottrarre con l’inganno a Filottete il suo
formidabile e infallibile arco, regalatogli da Eracle, e la voce di Giuseppe
Pambieri, nelle vesti di Neottolemo, il
figlio del glorioso Achille, combattuto fra la complicità nell’inganno ordito
da Odisseo e la lealtà verso un vecchio e glorioso guerriero come Filottete.
A quell’epoca le rappresentazioni
classiche avevano cadenza biennale (mentre adesso, con l’avvento del nuovo
millennio le fanno ogni anno sempre fra la seconda metà di maggio e la prima
metà di giugno, sempre con l’intercalare di due tragedie e una commedia che si
alternano per tutto il periodo), per cui nel 1985 non ci sono state e già
l’anno successivo frequentavo l’università di Padova e proprio in quel periodo
cadeva la sessione estiva degli esami.
Sono tornato solo nel 1994, dieci
anni dopo e con una maturità mentale e una sensibilità artistica del tutto
differenti, ad assistere ad una tragedia greca (prima l’Agamennone e subito
dopo il Prometeo, entrambe di Eschilo), e ho subito notato alcune differenze.
La cosa che più mi ha colpito
favorevolmente è stata quella di trovare in teatro tanti giovani, spero solo
non si tratti solo di gite scolastiche organizzate, dove decine … centinaia …
di ragazzi sono “costretti” ad assistere a questi spettacoli, avendo voglia in
realtà di essere altrove, perché in questo modo uccidi anche la cosa più
interessante, piacevole e coinvolgente.
La scuola è già riuscita ad
uccidere tutto ciò su cui ha messo le mani: il greco, il latino, l’Iliade,
l’Odissea, I promessi sposi, la poesia in generale, perché è ormai incapace di
trasmettere la passione, trasmette soltanto parole vuote e prive di
senso, veicolate da insegnanti vuoti, demotivati e che hanno perso il senso del loro lavoro. (Tutta questa parte è stata modificata e inserita a posteriori, in data: 13-06-2019).
Gente che non si pone neppure più
il problema di educare i giovani (che non vuol dire impartire loro una morale o
le buone maniere), ma del resto hanno abdicato a qualsiasi forma educativa
anche le religioni costituite, lo stato, la società, la cultura e i genitori stessi.
I quali sono slittati nel giro di pochi decenni da un modello normativo di educazione, fatto di regole e sanzioni e tendente a fare cittadini modello e ben adattati nel loro ambiente, ad un modello edonistico, in cui si spera che almeno i nostri figli, se non lo siamo noi o non lo siamo quanto vorremmo, siano felici.
Il Super-Io come interiorizzazione della legge morale e fonte di sensi di colpa e di vergogna, così come lo concepiva Freud, quasi non esiste più, ed ha lasciato spazio ad un tiranno interno che ti impone un solo imperativo: "GODI", e l'unico sentimento è modulato in una gamma che procede dal rammarico, passa per il rimpianto e per l'angoscia e sfocia nella disperazione. Il godimento, non ci vuole poi molto a capirlo, è irraggiungibile per vari motivi, così assistiamo ad individui che girano come delle trottole alla ricerca spasmodica di tutto ciò che possa dar loro piacere, naturalmente senza mai trovarla, ma continuando a credere fermamente che la prossima sarà quella giusta. A persone che hanno rinunciato del tutto a godere in questo stato di esistenza, spostando l'occasione nell'aldilà; se esiste un Dio buono non può non avere già approntato una specie di parco divertimenti che si proietta nell'eternità, destinato ai più meritevoli fra no, a quelli che hanno fatto tutti e bene i compiti per casa. In questa vita al massimo si accontentano di qualche effimero piacere, e se è possibile a qualche stato di gioia, di estasi, di pace, di serenità o persino di felicità, tutti materiali piuttosto effimeri, che hanno in comune la loro fuggevolezza, come fossero sostanze stupefacenti la cui emivita è piuttosto breve. Un prete, se domandato riguardo al ruolo che crede di dover svolgere, ti risponde che egli è testimone della verità, quella sancita dai santi Evangeli e racchiusa in un duplice comandamento: "ama il prossimo tuo come te stesso" e "non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te. Mentre insegnanti e genitori laici ti citeranno alcune formule
vuote: l’onestà, il rispetto, la libertà, la democrazia, la solidarietà ... certo, nessun nozionismo, le informazioni sono bandite o sono comunque secondarie, mai più date, luoghi, poesie mandate a memoria ... tutto questo è reperibile su wikipedia, inutile perderci del tempo. No, i genitori e gli insegnanti di oggi vogliono insegnarti a pensare, come
se il pensiero non fosse la cosa più spontanea e naturale del mondo, come se ci
volesse davvero qualcuno per stimolare qualcun altro a pensare, come quando la mamma premurosa da da mangiare al suo bambino la carne di cavallo, perché è più nutriente, contiene più ferro di quella bovina, così crescerà più sano e più forte, oppure l'acqua con, udite udite, gli oligoelementi, la quale se bevuta in quantità adeguata può avere effetti diuretici (e grazie al ...), o ancora quando si preoccupa del buon funzionamento del suo pancino e gli da la Dolce Euchessina, per un dolce aiutino, senza rendersi conto che ne sta facendo un nevrotico cronico che conflittualizzerà per tutto il resto della sua vita la sua funzione evacuativa, andrà in panico se incontra dei problemi, tenderà ad un ordine e ad una pulizia meticolosi ed esagerati, oscillerà fra una taccagneria esasperata e una generosità iperbolica e sterilizzerà ogni sua emozione o sentimento. Quando si accorgono che anche Salvini pensa e che la semplice funzione di stimolo e di catalizzazione del pensiero non è sufficiente, vi aggiungono l'aggettivo "bene", come se potesse esistere qualcuno che sappia davvero cos’è bene
per gli altri; pare così difficile immaginare di forgiare spiriti liberi, che faranno della loro vita ciò che vorranno, indipendentemente da qualunque insegnamento, da qualunque legame e da qualunque senso del dovere. Ma per pensare a ciò dovremmo fare i conti con la nostra propensione a vivere la nostra vita anche attraverso i nostri figli, a tentare di compensare errori e frustrazioni personali intrigandoci della vita degli altri con l'alibi della maggiore esperienza e delle buone ragioni, dovremmo rivalutare la nostra propensione a dare forma ordine al mondo esterno secondo il nostro piccolo modello personale, che riteniamo però universale, e a pretendere che gli altri si modellino secondo i nostri desideri e cerchino di assomigliare a ciò che noi vorremmo che fossero. (fine dell'intarsio).
Taormina, Teatro greco-romano, 05 luglio 2017, Zubin Mehta dirige la Nona di Beethoven.
Vincent van Gogh, Notte stellata sul Rodano, 1888.
Nell’84 invece noi giovani
eravamo l’eccezione, c’erano prevalentemente signori di una certa età,
provenienti da tutta Italia e da tutta Europa e qualche giapponese, tutte
persone dotate di una certa cultura, che attendevano con ansia questo momento,
lo pregustavano, sapevano esattamente cosa si sarebbe rappresentato, ci avevano
riflettuto sopra parecchio, molti potevano citare interi passi a memoria ed
erano capaci di tradurre direttamente dal greco.
Ora ti può capitare non tanto il
giovane che non sa chi è Filottete (nemmeno io lo sapevo allora), ma anche
quello che non sa chi è Odisseo, o Achille, che non ha mai sentito parlare di
Sofocle o di Edipo, cresciuti così, incolti, come le bietole o gli asparagi
selvatici, ma che magari sanno tutto sulla nuova app del cellulare che ti
permette di ascoltare un brano musicale con una persona con cui vuoi
condividerlo.
Se hanno conservato anche un solo
germoglio di fantasia, di creatività e sono capaci di lasciarsi coinvolgere,
terreni fertili su cui piantare qualcosa che non abbia niente di bietolino o di
asparagino, magari è possibile innestare qualche talea latina (non selvatica)
che possa dare buoni frutti, altrimenti da adulto potresti voler tagliare l’alberello
e dragare il torrentello, anche quando migliaia di alberelli li ha divelti
abbondantemente la natura e i torrentelli sono stati dragati anche troppo dalle
abbondanti piogge cadute, che hanno modificato, forse anche per qualcentinaio
di anni a venire, la morfologia delle Dolomiti.
Non sempre sono riuscito ad
andare a Siracusa come spettatore delle tragedie, talvolta impegni
improrogabili me l’hanno impedito, altre volte sono state tragedie più grandi
di quelle di Medea o di Oreste; ma ogni volta che ci penso trovo intatto tutto
l’entusiasmo che mi fa mollare qualunque cosa e mi fa attraversare i 1500
chilometri che mi separano dall’acropoli di quest antica città siciliana.
Era il 734 o il 733 a.C. quando
alcuni cittadini greci provenienti da Corinto sbarcarono su un’isola che
chiamarono Ortigia, dal greco antico ortyx (ὄρτυξ) perché sembra avesse la
forma di quaglia, e da li si sono impadroniti dell’entroterra: Epipoli,
Neapolis, Akradina e del colle Temenite, creando così la pentapoli, secondi solo
alla colonia di calcidesi che nel 735 a.C. sbarcò sulle foci del fiume
Alcantara e fondò Naxos, prima di conquistare ai siculi la rocca adiacente che
chiamarono Taormina, dal monte su cui sorge, il Tauro.
Nessuno spettacolo teatrale,
nessun concerto, nessuna mostra artistica vi daranno mai le emozioni che
potrebbe darvi una tragedia greca, nemmeno se si svolgessero in un parco
archeologico, fra templi e rovine antiche, e ciò non solo per l’afflato tragico
che essa vi trasmette, ma anche perché quella forma a conchiglia del kòilon (la
cavea) vi stringe e vi abbraccia in una polis, in una comunità di uguali con
identiche origini e con gli stessi valori etici, cresciuti col medesimo modello
educativo, formati uomini liberi e cittadini prima di ogni altra cosa e di ogni
altra considerazione.
Lo spettacolo era una
manifestazione sacra, infatti il teatro sorgeva sempre presso l’acropoli della
città, che era zona sacra, e sacre erano le rappresentazioni che qui si
recitavano, persino quelle sguaiate della commedia aristofanea, perché il riso
era anch’esso un fenomeno sacro, perché gli dei greci (al contrario dei nostri)
erano capaci di ridere.
Pier Paolo Pasolini, Edipo Re, 1967.
Taormina
Taormina
E non avveniva in assoluto
silenzio, come accade adesso, la gente commentava, gridava ad alta voce, faceva
battute, mangiava, beveva e faceva i fatti suoi se si annoiava o non era
interessato (proprio come succedeva nei cinema pre-televisivi di qualche
decennio fa): ciascun cittadino incluso in quella conchiglia, abbracciato da
quell’emiciclo, da quell’esedra, sentiva di appartenere ad un’unica koinè,
faceva parte della sua polis ed era orgoglioso di tutto ciò che di eccellente
vi abitava, vi accadeva e vi si produceva.
Un aspetto particolare ci
distingue dagli antichi greci, loro inseguivano la bellezza assoluta,
contrariamente a noi almeno a giudicare dall’estetica delle nuove chiese e
degli edifici di ogni tipo, ed inseguivano anche un’idea di eternità, ogni cosa
che edificavano doveva essere eterna, se non alla lettera almeno in linea di
principio.
Gli antichi architetti dell’ellade
non erano stupidi, avevano sotto i loro occhi lo sgretolarsi delle piramidi e
delle ardite ziqqurat asiatiche almeno fin dove erano giunti nei loro viaggi,
spinti dalla vela del commercio e dalla loro curiosità, se la mole imponente di
tutte queste opere non faceva si che i loro creatori fossero ricordati in
eterno, forse questa eternità doveva essere raggiunta con la solidità della
techne (e infatti molti loro monumenti sono sopravvissuti almeno in parte al
tempo e al maltempo, ai terremoti, ai saccheggi,
al vandalismo e all’incuria dell’uomo).
E dalla loro bellezza eterna, che
poteva essere racchiusa in forme più ridotte, anzi doveva esserlo, perché il
colossale confina spesso col mostruoso, che ha permesso di essere replicata,
imitata e copiata dai posteri fino ai nostri giorni (pensate al Partenone,
opera perfetta nelle forme, nelle dimensioni e nella bellezza dell’insieme).
Noi moderni costruiamo opere con
l’acciaio, col ferro, col vetro, con metalli vari e col cemento armato, nessuno
di questi materiali durerà a lungo, molte opere si sgretoleranno prima, si
spera senza nessuno sotto o sopra di esse e non di schianto, come il ponte
Morandi, di buono c’è che di tutta questa bruttezza che è il simbolo del nostro
tempo non durerà oltre i prossimi due-trecento anni, e forse un giorno qualche
storico dirà che vivevamo in capanne eco-compatibili, con nostro sollievo, non
trovando traccia dell’orrore di tutto ciò che abbiamo eretto e che
inevitabilmente ci intristisce e ci abbrutisce sempre di più.
Molti edifici non si pongono
nemmeno più il problema di migliorare le nostre condizioni di vita, sono frutto
di bieche e miopi speculazioni, in cui chiunque cerca di realizzare il massimo
profitto a costo di rifilarti un tragico inganno, un inganno che potrebbe anche
costarti la vita se solo la terra decide di tremare o se solo l’alberello o il
torrentello decidono di caderti addosso e non sulla testa degli sciacalli che
con la loro pochezza permettono tutto questo e ci guadagnano prima che accada
la sciagura e dopo la sciagura perché saranno loro a ricostruire o a gestire la
ricostruzione.
Un teatro, un tempio,
un’acropoli, o l’intera città, non sorgevano dove capitava, magari inseguendo
criteri strettamente economici, come avviene ai nostri giorni, i greci studiavano
accuratamente la zona in base all’agibilità, alla possibilità di effettuarvi un
arrocco e una migliore difesa (tutte le acropoli sorgevano su colline o
alture), all’intrinseca bellezza del luogo e all’orientamento nello spazio.
Anche se non è una costante, è un
dato di fatto che molti templi, edifici sacri e teatri sono orientati ad est,
come se volessero cogliere per primi il sole che sorge, e poiché nella Sicilia
orientale (che comprende Siracusa e Taormina) il sole sorge dal mare, i templi
dissetavano la loro arsura direttamente con l’acqua marina e vi si
rispecchiavano in tutti i casi in cui il mare era sufficientemente vicino, le
antiche pietre bevono l’acqua e la luce del sole in un solo sorso.
Edvard Munch, On the Waves of Love, 1899.
Ramón Casas, poster.
Non è un caso che in Sicilia, ad
esempio, 40 su 41 templi erano orientati ad est, solo il 41° (quello di
Solunto) era orientato a nord-est, mentre nel resto del mondo greco il 58%
aveva questo orientamento; affacciarsi al sol levante significava
un’esposizione maggiore ai raggi del sole e minori infiltrazioni di umidità che
avrebbero aggredito il tufo con cui erano costruiti, proveniente dalle latomie
vicine, ma poteva anche avere motivi astronomici o astrologici, visto che i
greci erano molto attenti al responso delle stelle ed erano anche ottimi
astronomi.
Ancora, l’orientamento solare
permetteva di illuminare meglio le zone più sacre di un tempio e le statue
degli dei a cui era dedicato per la maggior parte della giornata, quella
dedicata al culto degli dei, mentre nel caso dei teatri, il sole all’alba illuminava
la cavea, mentre con l’approssimarsi del tramonto illuminava l’orchestra, il
proscenio e la scena, che erano le zone in cui si svolgeva lo spettacolo; i
diversi orientamenti da quello solare erano perlopiù spiegabili con fattori
scenici ed estetici: a Solunto, che si affaccia sul mar Tirreno, l’orientamento
a nord-est permette da un lato di avere una splendida vista sul mare e nello
stesso tempo di non perdere del tutto la luce del sole.
A Taormina è stato sufficiente
scegliere il monte più elevato, lo scorcio più bello, all’interno della più
bella terrazza con vista mare del mondo, per costruirci sopra un teatro,
scavando una conchiglia sulla viva roccia da cui gli spettatori potessero gettare lo sguardo sulla
baia di Naxos e l’Etna da un lato e Capo Mazzarò e l’Isola Bella dall’altro, …
poi, in un posto con quella vista di una bellezza da mozzare il fiato, puoi
anche andare ad ascoltare Gigi D’Alessio ed è comunque un’esperienza
indimenticabile.
Perché Camilleri ha scelto il
punto di vista di Tiresia fra tutti i possibili eroi e personaggi della
mitologia classica? Le caratteristiche fondamentali che tratteggiano il
carattere di quest’antica figura sono due fondamentalmente: Tiresia è cieco,
proprio come egli lo è diventato negli ultimi anni, e la sua cecità gli ha
regalato l’arte della divinazione, di poter vedere meglio degli altri il
presente e di predire il futuro.
Mettersi nei panni di Tiresia per
lo scrittore di Porto Empedocle e porsi nella posizioni di chi sa, proprio come
Tiresia nell’Odissea sapeva quale fosse la rotta migliore e più breve per Itaca
e la rivela ad Odisseo stesso che era giunto fino all’ade per invocarlo, o
quando rivela ad Edipo, ignaro, tutta la terribilità e la tragicità della sua
sorte, dopo averlo avvertito che sapere non gli avrebbe giovato a nulla, ma
sarebbe stato soltanto il ciglio del precipizio che da allora in poi sarebbe
stata la sua vita terrena.
L’altro aspetto caratteristico di
Tiresia è il suo essere stato trasformato in donna ed essere ritornato uomo,
che ne fanno un personaggio particolare ed unico nell’antichità occidentale;
non si tratta, come si è detto, di un presunto ermafroditismo di Tiresia,
perché nell’ermafrodita sono presenti contemporaneamente i caratteri sessuali
maschili e femminili, mentre Tiresia è stato uomo fino alla giovane età, poi ha
subito una metamorfosi in donna per sette anni, poi è ritornato uomo per il
resto della sua vita.
Forse sarebbe opportuno, a questo
punto, narrare in maniera un po’ più dettagliata almeno le vicende principali di
questa figura che appartiene al mito più antico, non certo con la profusione di
parole e di immagini di Camilleri, né con la sua bravura o col suo fascino, ma
con una storiella breve tanto per avere almeno una vaga idea di chi stiamo
parlando, rivolto a chi non ne abbia mai sentito parlare o lo conosce solo di
nome e ne conosce poco altro.
Da giovane Tiresia si recava
spesso sul monte Citerone, un monte sacro agli dei e da essi molto frequentato,
nella maggior parte dei casi sotto mentite spoglie, in una di queste
passeggiate vide due serpenti avvinghiati nell’atto di accoppiarsi, colto da un
gesto di rabbia o di ripulsa, egli li colpì con un ramo che aveva raccolto ai
suoi piedi finché non uccise la femmina del serpente, ebbene, per una sorta di
contrappasso olimpico, Tiresia fu ipso facto trasformato in una donna.
Era donna nell’aspetto, negli
organi genitali esterni ed interni, completa, globale, avrebbe anche potuto
generare dei figli, ed era donna anche nella forma mentis, ed in quanto donna
non gli rimase che essere donna e di prendere il suo piacere in quanto donna: e
si dice che in questo non trascurò alcun aspetto e si lanciò in ogni esperienza
esperibile.
Dopo che furono trascorsi sette
anni Tiresia, stanco della sua condizione femminina, si rivolse all’oracolo di
Apollo per trovare rimedio alla sua condizione; su consiglio di questi
sacerdoti si recò allora di nuovo sul monte Citerone e stanò ed uccise anche il
serpente maschio sopravvissuto sette anni prima, di nuovo, istantaneamente,
ritornò uomo e lo rimase per tutto il resto della sua lunga vita.
Quanche tempo dopo sull’Olimpo,
nella loro sfarzosa e divina dimora, Zeus e sua moglie era stavano discutendo
su chi gode di più durante il rapporto sessuale, l’uomo o la donna, avendo
entrambi delle opinioni diverse e inconciliabili; per uscire da questo dilemma
decisero allora di rivolgersi a Tiresia, che era stato donna dopo essere stato
uomo, ed era stato donna prima di essere ritornato uomo, chi meglio di lui
poteva sapere se era più intenso il godimento maschile o quello femminile?
Tiresia, interrogato, domandato e
demandato di risolvere quel quesito rispose che se esistono dieci gradi di
godimento nel sesso, la donna ne raggiunge nove, mentre l’uomo a stento
conquista quell’uno che ne rimane.
Possiamo ipotizzare che Tiresia
in quell’occasione abbia semplicemente detto la verità, cioè quello che aveva
potuto constatare con la sua esperienza, in un periodo storico in cui la donna
era certamente una figura di secondo piano rispetto all’uomo, ma ringraziando
gli dei nessun uomo si sognava ancora di farle sentire l’atto sessuale come
peccato e il piacere come il demonio che l’avrebbe arsa per l’eternità se vi si
abbandonava, era possibile che la donna godesse più di adesso e persino più di
un uomo.
Ma la verità, si sa, non è mai
stata di buon auspicio per chi la pronuncia e anche per chi la ascolta, come
dirà a Edipo qualche anno più tardi: “Ahimè! Com’è terribile sapere, quando il
sapere non giova a chi sa! […] Già, perché voi tutti ignorate … non aspettarti
che io riveli la mia disgrazia … o per meglio dire la tua!” (Sofocle, Edipo re,
316-330).
Chi si è fatto gonfaloniere di
una qualche verità o non è stato creduto o è stato ucciso, pensate a quel
povero crocifisso in Palestina circa duemila anni addietro, pensate a quante
isteriche arse nel vecchio e nel nuovo mondo solo perché gridavano in faccia la
loro verità, una verità che non doveva essere rivelata, perché tutta la società
in cui vivevano era fondata sulla menzogna o sul contrario di questa verità.
Oppure, oppure Tiresia si è
“quartiato” (cautelato) ed ha pensato bene di valutare meglio la situazione,
qualunque fosse la sua risposta, qualunque fosse la sua verità, o avrebbe
scontentato Zeus, che tutti conoscono per le sue furibonde ire in cui scatenava
tuoni e fulmini, o scontentava Era, divinità estremamente vendicativa e
implacabile , che si è scatenata con ferocia su chiunque la contrariasse o le
recasse affronto, oppure scontentava entrambi se avesse fatto un discorso
diplomatico di sostanziale pareggio, per non inimicarsi nessuno dei due.
Decide così di tentare la sorte,
di scegliere il male minore, di compiacere Era (mai inimicarsi una donna e per
giunta divina) e di affrontare nel caso le ire del re degli dei, uno che poteva
anche essere tremendo, ma la cui rabbia passava con la stessa facilità con cui
era sorta, e poi Zeus in quanto padrone di casa e colui che ne aveva chiesto
l’arbitrato, non poteva rivalersi sull’ospite, che era sacro, né punire chi
emetteva un verdetto che egli stesso aveva richiesto.
Difficile capire perché è invece
Era quella che si arrabbia, e lo fa a tal punto da accecare il malcapitato, un
altro divino contrappasso, simbolico stavolta, come se gli dicesse: “Ma sei
cieco?”, un po’ come quando non diciamo a qualcuno: “Ma sei matto?”.
Camilleri dice che Era punisce
Tiresia perché ha rivelato la grande verità delle donne, un mistero femminino
che avrebbe dovuto rimanere tale, è come se, aggiungo io, svelando questo loro
segreto, avesse tolto alle donne gran parte del potere che hanno sull’uomo.
Una donna che si rispetti è
capace con pochissime mosse tutte degne di Bobby Fischer e con estrema
disinvoltura di farti credere che ciò che le importa, la sua unica missione, il
voto solenne e sacro fatto davanti a qualche divinità, è solo il tuo piacere,
il tuo benessere, la tua felicità, che la sua felicità consiste soltanto nel
rendere te felice e appagato, e che fa tutto ciò solo perché ti ama.
In questo modo capovolge
abilmente a suo favore i rapporti di forza che si instaurano in una coppia,
l’inevitabile lotta per il potere che avvince e logora uomini e donne fin dalla
notte dei tempi e che, secondo il mio amico Ezio, è la vera posta in gioco in
amore: il dominio e il possesso.
Perché non c’è schiavo peggiore
di quello che non sa di esserlo, perché mentre lei sa perfettamente con quali
monete ripagarti e impara a conoscere che in fondo queste monete sono
spiccioli, perché l’uomo in fondo è sempre di poche pretese e col tempo riduce
persino queste, con la donna non sai mai qual è la moneta giusta e col tempo ti
verrà il sospetto di star pagando con tutto te stesso, col tuo tempo, con la
tua libertà, con la tua vita oppure che non è mai stata coniata la moneta
adatta e che tu sei e sarai sempre in debito con lei e anche in affanno.
Ma se le cose stessero così come
dice Camilleri, perché allora intavolare questa discussione, perché non sviarla
fin dall’inizio, perché non tacciare una simile curiosità come sciocchezza? A
meno che, nemmeno Era fosse consapevole di questa verità, e quando Tiresia la
pronuncia, inattesa ad entrambi, Zeus e lei, Era la riconosce subito come vera,
ma è ormai troppo tardi per fermarla, per far si che Zeus non la ascolti.
Altrimenti dobbiamo pensare che
Era ritenga questa cosa assolutamente falsa, non è vero che la donna goda i
nove decimi del piacere lasciando all’uomo solo un grado, ma se avesse ritenuto
falso il verdetto di Tiresia, perché arrabbiarsi in quel modo, e perché
accecarlo?
Taormina, Ristorante Baronessa.
Possiamo pensare, ancora, che era
all’improvviso ascolta il verdetto di Tiresia e lo ritiene veritiero, ma che
non corrisponda alla sua esperienza col consorte, e se quest’ultimo non le fa
raggiungere quel punteggio elevato di godimento, nemmeno dopo trecento anni
ininterrotti di rapporto sessuale, allora chi fa felice il divino Zeus? Forse
tutte le altre, divine o umane, le varie Leda, Danae, Alcmena, Io, Europa,
Demetra … e via elencando? E una donna, divina per giunta, può accettare un
verdetto simile, che il proprio consorte faccia felici col suo scettro divino
tutte le altre eccetto lei? O è per lei più facile giungere a conclusione che
Tiresia si sbaglia, che non abbia visto bene, e se non ha visto bene dunque,
allora che cieco sia davvero. Oppure lo acceca per aver visto troppo, o meglio
per aver visto lui umano ciò che lei non è stata capace di vedere?