Niente di ciò che leggerete è
vero, è tutto frutto della mia fantasia, che qualcuno possa credere di
riconoscervisi è dovuto in genere al fatto che spesso crediamo che gli
scrittori e le stelle parlino di noi, mentre gli scrittori parlano solo e
sempre di se stessi e le stelle parlano solo fra di loro; se qualcuno credesse
che questa possa essere una storia vera accaduta da qualche parte a persone
vere, a cui lui ha assistito o che gli hanno raccontato, si sbaglia, le storie
e le persone si somigliano tutte, qualche filosofo e qualche religioso è giunto
a pensare che in realtà tutti gli individui non siamo altro che manifestazioni
di un’unica entità.
Io ho vissuto per tutta la vita
in un deserto dell’Anatolia, non so niente di ciò che è successo e succede nel
mondo, le storie me le porta il vento che agita la sabbia, impigliate fra i
cespugli secchi, da quando Babbo Natale mi ha portato un pc, mi sono collegato
alla rete cosmica e traduco le storie in parole, prima che il vento le trascini
via.
“Bocca baciata non perde ventura,
anzi rinnuova come fa la luna”. (Giovanni Boccaccio, Decameron, Giornata
Seconda, VII).
“S’ei piace, ei lice”. (Torquato
Tasso – Aminta, 1583, Atto primo, Choro).
L’asfalto era rovente, erano
circa le due del pomeriggio di una caldissima giornata di giugno, un vento di
ponente molto secco mi asciugava tutti i liquidi corporei, non un filo di
sudore, l’umore acqueo nell’occhio completamente secco, si inaridiva prima
ancora di formarsi, il riverbero che creava la luce del sole sulla strada
fastidioso e accecante, tenevo gli occhi a fessura orizzontale, come un
tibetano, non amo molto gli occhiali da sole, perché mi costringono a vedere il
mondo molto più scuro di quello che è, ma in quell’occasione li avrei voluti
volentieri.
Stavo andando a casa mia a
pranzare e tornavo dalla casa al mare in cui si era trasferita Marina, la mia
ragazza di allora, con tutta la sua famiglia; avevamo trascorso l’intera
mattinata in spiaggia io e lei da soli, senza amici o parenti fra le scatole,
mi piaceva perdermi nei suoi occhi, scaldarmi con i suoi abbracci infuocati dal
sole che lambiva la sua pelle, mi piaceva vederla uscire grondante dall’acqua
come una dea ellenica che emerge dalla spuma del mare, mi piaceva il suo
sorriso malizioso quando si accorgeva che la stavo accarezzando con gli occhi,
prima che con le mani, con la scusa di porgerle il telo.
Marina era alta all’incirca
quanto me, un metro e settanta o poco più, aveva dei foltissimi capelli castani
che d’estate tendevano al biondo, lunghi e ricci, molto profumati non so se per
lo shampoo che usava o se metteva qualche goccia di colonia, che era un piacere
accarezzare, afferrarglieli da ambo i lati strettamente per avvicinare la sua
bocca alla mia e baciarla.
Baciava divinamente, all’inizio
mi era parso strano quel suo modo di farlo, avvicinava le sue labbra alle mie e
le scioglieva in uno dei baci più dolci, più soavi e più teneri che io abbia
mai avuto, poi succhiava ripetutamente le mie labbra ed anche la lingua, con piccoli
succhiotti deliziosi, sembrava che mi assaggiasse, bastava soltanto uno dei
suoi baci per farmi entrare in uno stato di beatitudine infinita, non era
facile ogni volta staccarmi da lei o aspettare che fossimo da soli.
Anche i suoi occhi erano castani
ed aveva uno sguardo intelligente, ora dolce ora tagliente come una falce, che
mi aveva fatto innamorare fin dal primo momento in cui l’avevo vista; il suo
corpo poi era prorompente, le sue curve, il suo seno, i suoi fianchi e il suo
culo, imperiosi, sodi, cedrigni, come talvolta accade solo in alcune ragazze
adolescenti, che diventano donne bellissime quando fioriscono e le loro linee
si ammorbidiscono un po’, sembravano voler uscire dai vestiti, premendoli e
gonfiandoli fino a mettere alla prova la loro elasticità, ed imporsi in ogni
momento al mio sguardo.
Ivan, il suo fratellino più
piccolo, che avevo soprannominato Willy il Camorrista per quella sua aria
circospetta con cui guardava chiunque e per gli sguardi sbiechi, in tralice,
che mi lanciava di tento in tanto, come chi avesse sempre qualcosa da
nascondere e temesse continuamente di essere scoperto, sostanzialmente mi
ignorava.
Quelle poche volte che mi
prestava una qualche forma di attenzione era quando mi guardava perplesso come se non capisse
cosa ci trovassi di così straordinario in quella stupida di sua sorella e
subito dopo smorfiava come se volesse rassicurarsi che a lui non sarebbe mai
successa una cosa simile, di prestare così tanta attenzione ad una donna cioè.
Il padre, Salvatore (detto Turi)
ci teneva a sembrare moderno, era cordiale così come poteva essere un pescecane
che finge di essere un delfino che intende giocare con te, o un poliziotto infiltrato
che è in procinto di arrestare un pezzo grosso, ma il suo sguardo era piuttosto
eloquente e diceva una sola cosa: bada bene stronzetto, perché tutto ciò che
farai alla mia piccola, io lo farò a te!
Per lui sua figlia, nonostante i
quasi 17 anni era ancora una bambina, la sua piccola, l’unica figlia femmina in
casa, la pupilla dei suoi occhi, l’endocardio del suo cuore, magari un giorno
l’avrebbe persa per seguire l’uomo della sua vita, ma era ancora troppo presto
per questo ed era presto anche per fare certe cose, e questi giovanotti che
sembrano tanto beneducati, di buona famiglia, sono i più pericolosi, perché
sono quelli che fanno innamorare le bambine: attento a te, stronzetto
beneducato, perché tutto ciò che farai alla mia bambina io lo farò a te!
Non volendo apparire il padre
padrone, quello all’antica, non ci seguitava
dietro in ogni nostro passo, ma i suoi occhi da sbirro ci scrutavano
come un furetto, e cercavano di scongiurare ciò che più temeva, cioè che io,
con quella faccetta rassicurante da bravo ragazzo, profanassi anzitempo
l’ingenuità e il candore della sua bambina: poveretto, non potevamo certo
dirgli che ciò che più temeva era già successo, ed era successo con una
naturalezza che ci aveva stupiti entrambi.
La signora Elvira, sua madre era
una santa donna, interpretava alla grande il suo ruolo di madre di famiglia e
di moglie di un poliziotto, che trascorre i tre mesi estivi nella villetta a
schiera all’Arenella, una località balneare poco più a sud di Siracusa, vicina
a Fontane Bianche, che è la spiaggia vip della città, costruita in serie di
villette vicine tutte uguali in cooperativa con altri poliziotti, una autentica
follia: continuare a vedersi in vacanza dopo essersi visti per undici mesi al
lavoro, il costringersi a fare tutte le ferie che dio comanda solo e sempre in
quella località, da pulire prima di trasferirvisi e da lasciar pulita a fine
vacanza.
Dovevo esserle particolarmente
simpatico, perché era sempre molto gentile con me, mi offriva sempre il caffè
sapendo che mi piaceva molto, e mi invitava a pranzo e a cena ogni volta che se
ne offriva l’occasione, nonostante le dicessi sistematicamente di no; solo una
volta mi ero fermato a pranzo con loro e mi era bastato, preferivo farmi ogni
giorno gli undici chilometri dall’Arenella a casa mia per mangiare e farvi
ritorno la sera, perché la signora era una pessima cuoca anzi, non davo loro
neanche altri dieci anni di vita se continuavano a mangiare quelle cose,
preferivo di gran lunga la cucina fast and furious di mia madre, che poveretta
era costretta ad improvvisare all’ultimo momento un buon pasto per me all’ora
in cui mi decidevo a rincasare.
“Mi dispiace, signora, a casa mi
aspettano per il pranzo”, dicevo con una certa solennità, mentendo
spudoratamente perché in realtà non mi aspettava nessuno, ma facendo quasi
capire che i miei non prendevano nemmeno la forchetta in mano se prima io non
ero seduto a tavola con loro e con le mani lavate; poi aggiungevo malignamente:
“Faccia come se avessi accettato!”, che ho sempre considerato una frase
che gronda ipocrisia da tutti i pori,
perché che diavolo vuol dire come se avessi accettato, o accetti o rifiuti, ma
che tante signore borghesi la prendono come una frase garbata, molto più
profonda di un semplice mi dispiace, di un vorrei tanto … ma non posso.
Così, mi trovavo già sulla strada
statale, con l’acceleratore a tavoletta, senza casco perché allora non usava,
con i capelli e la maglia gonfi di vento, con la testa leggera, e le ruote
della vespa che solcavano pesantemente il manto stradale e producevano un
rumore più forte del solito, quasi come se il calore del bitume fosse così
elevato da sciogliere la superficie delle gomme, che nel riprendere il loro
giro, grazie alla potenza del motore, si staccassero dall’asfalto a strappo,
come se fossero ventose.
A quell’ora del giorno, col sole
a picco in cielo, all’ura ‘o cauru(in piena canicola), non c’era neanche un
cane in giro per strada, e chi volevi trovare in un tempo in cui le macchine
non avevano il condizionatore, ma al massimo potevi abbassare il vetro girando
più volte la manovella?
Anzi no, un cane c’era, un
cagnaccio randagio che per mia sfortuna aveva deciso di attraversare la strada
proprio in quel momento, proprio in quel punto ed esattamente subito dopo che
io sbucavo da una cunetta e fino alla fine non avevo avuto ampia visibilità
della strada; andava da sinistra verso destra e la scia d’asfalto solcava dei
giardini di limoni recintati da bassi muretti a secco in entrambi i lati.
Per evitarlo mi sono spostato
tutto verso sinistra, ma il cane malefico invece di proseguire la sua corsa si è
bloccato, venendosi a trovare sulla mia nuova traiettoria, così in un ultimo
guizzo mi sposto tutto sulla destra, ed è esattamente ciò che fa anche il cane,
subito dopo essersi ripreso dall’iniziale stupore: l’impatto è pieno e
inevitabile, ricordo il rumore della botta, il colpo secco che fa vibrare anche
me, trema la lamiera che costituisce il telaio della vespa, tremano le mie
mani, le mie braccia, tutto il mio corpo aggrappato al manubrio e alla sella, poi
come una sensazione di estrema leggerezza e dopo più nulla.
Mi secca ammetterlo, ma devo
essere svenuto prima ancora del mio impatto a terra, come i vapeurs che
assalivano le damine del settecento in situazioni molto cariche emotivamente,
svenimenti tattici non volontari, che permettevano loro di non affrontare
situazioni molto imbarazzanti e scabrose; me ne vergogno un po’ di questa cosa
ripensandoci, ma poi mi consolo evocando la saggezza dell’organismo umano che
molto opportunamente eclissa la coscienza e la percezione del dolore in attesa
di un incidente ormai certo e di un impatto imminente.
Mi sono risvegliato in ospedale,
effettivamente molto indolenzito, non c’era una parte del mio corpo che non
gridasse, una superficie corporea esente da ematoma o da ferita lacero-contusa,
la testa sembrava un alveare di api disturbato da un orso goloso, per fortuna
non avevo niente di rotto e non avrei dovuto passare il resto della mia vita su
una sedia a rotelle o sul letto di un ospedale.
Non così il cane che era finito
maciullato sotto la ruota anteriore, bloccandola e facendo impennare posteriormente la vespa, che si era sollevata da terra per poi ricadervi pesantemente e strisciare ancora sull'asfalto per una decina di metri, prima di fermarsi completamente distrutta, mentre io ero stato sbalzato di sella come una catapulta.
In ospedale c’ero finito grazie ad un nisseno (cittadino di Caltanissetta) che passava per quella strada in virtù del suo lavoro, che lo vedeva operativo nelle provincie di Siracusa, di Catania e di Ragusa, e che era li a quell’ora perché voleva rientrare presto a casa quel giorno, per cui non aveva esitato a sfidare il solleone; la prima cosa che aveva visto era la vespa per terra distrutta e un cane morto li vicino e nient’altro.
In ospedale c’ero finito grazie ad un nisseno (cittadino di Caltanissetta) che passava per quella strada in virtù del suo lavoro, che lo vedeva operativo nelle provincie di Siracusa, di Catania e di Ragusa, e che era li a quell’ora perché voleva rientrare presto a casa quel giorno, per cui non aveva esitato a sfidare il solleone; la prima cosa che aveva visto era la vespa per terra distrutta e un cane morto li vicino e nient’altro.
“Da queste parti i cani guidano
le vespe!”, avrà pensato “e guidano da cani, visto la fine che ha fatto questo
qui”, poi ha guardato meglio e mi ha notato oltre il muro a secco della corsia
di destra, nello sbalzo ero stato catapultato sul terreno, oltre il muro, ed è
stata la mia fortuna, perché la sofficità della terra ha attutito l’impatto al
suolo, che sarebbe stato ben più grave e doloroso se fosse avvenuto
sull’asfalto.
Qualche ora dopo i medici mi
hanno dimesso e sono andato a casa mia, terminati i rilevamenti i vigili mi
avevano consegnato ciò che rimaneva di quella vespa, un rottame, in origine un
vespone nero 200 centimetri cubici di cilindrata, che avevo acquistato usato da
un ragazzo mio conoscente, che lo aveva da pochissimo, poi si era accorto che
non andava oltre i 110 km l’ora e superati i 100 iniziava a vibrare tutto, e
aveva deciso di passare ad una moto più seria e più veloce, liberandosi di
quella lumaca.
In realtà qualcuno che lo
conosceva meglio di me mi disse che lo aveva comprato perché la sua ragazza non
sarebbe mai montata con lui su una moto, che il vespone, allora molto di moda,
era un compromesso che avevano trovato per viaggiare comunque sulle due ruote,
poi la ragazza lo aveva lasciato e lui non trovava più alcun buon motivo per
non passare alla moto che amava tanto.
L’avevo avuto ad un buon prezzo,
perché in un gesto d’impulso era già andato a comprarsi la moto e gli premeva
sbaraccare il garage, perché non aveva altro posto dove metterla quando gli
sarebbe arrivata; e l’avevo comprato tutto con i miei risparmi, con soldi
guadagnati da me dando una mano a mio padre quell’inverno e facendo qualche
altro lavoretto compatibile con i miei studi.
A 16 anni non avrei ancora potuto
guidarlo, ma devo ammettere che in questo campo la mia idea di legalità aveva
qualche lacuna, non mi sembrava grave guidare una vespa 200 senza patente,
tanto poi, pensavo, da li a breve l’avrei presa, era questione di rischiare per
un po’, e poi diciamolo, da noi i vigili sono molto tolleranti, devi guardarti
solo da Polizia e dai Carabinieri, a da quelli ci guardavamo comunque.
La vespa 50 special, quella col
fanalino anteriore rettangolare, che è stata la vespa 50 più bella di sempre,
era stata fino ad allora una compagna fidata, mi aveva fatto respirare aria di
libertà e sono convinto che mi abbia facilitato pure nei miei rapporti iniziali
con le ragazze, non so se fosse solo un pretesto per conoscerci, fatto sta che
le ragazzine della mia età cominciavano a guardarti con un certo interesse se
avevi una vespa, le più sfacciate ti chiedevano se potevano fare un giro con
te, quelle senza pudore se gliela lasciavi guidare, nessuna che io sappia ha
mai espresso il desiderio di fare un giro col Ciao.
Io avevo comprato la vespa e non
un altro tipo di motorino solo perché aveva le marce, e questa cosa mi sembrava
allora una figata, senza contare che le salite le affrontavi meglio, mentre
quelli col Si, col Ciao, col Boxer e con altri motorini erano costretti a
pedalare, poi era molto più comoda per due persone, gli altri sembravano fatti
per il solo guidatore, però almeno un caso in cui la vespa aveva fatto la
differenza e non era di certo un pretesto, mi è capitato.
In prima liceo, con la vespa che
aveva ancora l’odore di nuovo, avevo re-incontrato una ragazza che avevo già
notato alle medie, solo che li era in un corso e in un piano diversi dal mio;
era impossibile non notarla perché era molto diversa dalle altre anche solo ad
un’occhiata superficiale, sarà stata alta solo un metro e cinquantacinque, non
di più, la pelle molto chiara, eburnea, i capelli nerissimi divisi da una lunga
riga in mezzo che scendeva in due lunghe trecce, sempre compunta e impettita,
mai un dettaglio fuori posto, vestiva firmata da capo a piedi e in linea con la
moda di allora, senza perdersi una sola novità.
Aveva tutto l’aspetto di una
figlia di papà, era una delle poche che veniva accompagnata a scuola tutte le
mattine in macchina da suo padre o da sua madre, e al suono dell’ultima
campanella qualcuno dei suoi genitori era ad attenderla oltre il cancello della
scuola, la stessa cosa accadeva nelle feste in cui era invitata; non sembrava
essere particolarmente interessata a nessuno, non esprimeva il desiderio di
conoscere nessuno e non incoraggiava nessuno a conoscerla con sguardi e con
gesti, ma se andavi a parlare con lei era gentile pur senza lasciar trasparire
se aveva gradito la tua conversazione.
In molti ci avevano rinunciato a
conoscerla, in molti non ci avevano neanche provato, nel complesso sembrava una
bambolina di giada o di porcellana cinese, di quelle che devi maneggiare con
estrema cura, perché toccata con scarsa destrezza e da dita inesperienti
avrebbe potuto frantumarsi in mille pezzi; ma come si faceva a starle lontano,
visto che era così bella?
Così, quando me la sono ritrovata
in classe con me in prima liceo, l’ho abbordata con tutto il tatto di cui ero
capace allora, ho subito capito che era affascinata dalla mia faccia tosta, le
piacevano moltissimo le giostre, ma le piaceva ancora di più girare in vespa,
così l’andavo a prendere a casa sua e la portavo in giro ovunque,
tendenzialmente verso il mare, che a me piace molto e che rende tutti molto
romantici sia d’estate che d’inverno.
Qualsiasi cosa le proponessi lei
era d’accordo, mi seguiva ovunque, così all’inizio abbiamo iniziato a baciarci
al molo, ma qualsiasi angolo era un porto di mare, gente che andava e veniva di
continuo, non c’era un posto in cui di giorno si potesse stare tranquilli, poi
mi è venuto in mente che potevo sfruttare gli spogliatoi dei campi da tennis,
di cui avevo la chiave perché ero un frequentatore, uno dei pochi che poteva
accedervi anche quando il proprietario non c’era, e li abbiamo trascorso
momenti deliziosi.
Questo dettaglio che a lei
piaceva la vespa era trapelato perché lei ne aveva parlato liberamente, così
altri compagni di classe con la vespa ci avevano provato, non a tutti era
andata bene, ma al mio compagno di banco sembra proprio di si, aveva accettato
di fare un giro con lui: da quel momento in poi il primo di noi due che la
invitava per quel pomeriggio in cui lei era libera, era quello che usciva con
lei, non sembrava fare alcuna differenza fra me e lui, non pensava nemmeno di
dover scegliere né in quel momento, né prima o poi.
Fra me e Roberto non si instaurò
nessuna rivalità aggressiva, eravamo in competizione, ciascuno di noi voleva
arrivare prima dell’altro, ma il nostro rapporto di amicizia non ne risentì; io
ero stupito dal comportamento di lei che usciva con molta disinvoltura ora con
me ora con lui, Roberto invece era più pragmatico, meglio l’alternanza che
niente, anche perché capiva che questo era ciò che lei desiderava, altrimenti nulla,
nessuno dei due avrebbe prevalso.
Una sera, erano le undici
passate, suonano a casa mia, vado ad aprire e mi compaiono nell’ordine: il
vicecommissario di Polizia, un agente, il padre e la madre della ragazza molto
preoccupati, insieme ad un cugino di lei che io conoscevo solo di vista e che
aveva diversi anni in più di noi; dopo essersi accertati delle mie generalità e
che conoscevo sia la ragazza, sia Roberto, mi dicono che i genitori di lei si
erano rivolti alla Polizia preoccupati perché la figlia, uscita col ragazzo nel
pomeriggio, non aveva ancora fatto ritorno.
E mi chiedono se io avessi
un’idea su dove potevano essere, su dove vanno le coppiette insomma, mi
chiedono anche di venire con loro, ovviamente ne parlano con i miei, che la
presenza della Polizia in casa a quell’ora aveva un po’ inquietato, così sono
costretto ad accompagnarli e a fornire qualche vaga informazione, che si rivela
però sistematicamente un buco nell’acqua.
Il fatto è che io sapevo
perfettamente dove erano o potevano essere con molta probabilità, sempre
ammesso che non fosse capitato loro qualcosa che io non potevo sapere, il posto
l’avevo scoperto io da poco e ne avevo parlato con lui, si trattava di ciò che
rimaneva di un piccolo villaggio di pescatori, una piccola contrada quasi sul
mare, circondata da un giardino di aranci, con una stradina sterrata che lo
attraversava per lungo verso il lungomare o verso l’entroterra, si trovava li
quando il paese non era così grande come adesso, per avvicinare barche e
pescatori al mare, ma adesso era dimenticato un po’ da tutti.
Io l’avevo scoperto per caso,
grazie a mio padre, ora non pensate che mio padre mi desse le dritte su dove
infrascarmi con le ragazze, io non glielo avrei mai chiesto, lui non lo avrebbe
mai fatto spontaneamente e se glielo
avessi chiesto io avrebbe certamente pensato: “Ho un figlio babbu, guarda cosa
mi tocca suggerirgli!”; il fatto è che abbiamo preso una scorciatoia per quella
stradina sterrata, e lui mi ha spiegato che si trattava di un villaggio di
pescatori ormai abbandonato da tempo.
Più tardi ero andato a fare un
sopralluogo, c’erano case semidiroccate, forse qualcuna anche a rischio di
crollo, ma altre erano più o meno intatte e in ottimo stato, era il luogo
ideale per chi non voleva allontanarsi molto dall’abitato e non voleva essere
visto anche in pieno giorno, perché era un villaggio di cui pochi si
ricordavano dell’esistenza ed era circondato da un giardino, invisibile sia dal
mare che dall’entroterra.
Ma questo ai poliziotti quella
sera decisi di non svelarlo, certo se fosse successo qualcosa di grave era mia
la responsabilità di non averlo segnalato nel caso fossimo ancora in tempo per
soccorrerli, ma avevo quasi la certezza che l’unico contrattempo che era
capitato loro fosse che Roberto si era accorto, dopo di me ovviamente, che lei
non aveva il pudore che avevano le altre ragazze, se volevi baciarla si
lasciava baciare, se volevi toccarla e accarezzarla te lo lasciava fare, sia
con le mani sopra i vestiti, sia con le mani infilate sotto i vestiti, e se
volevi …. ok ci siamo capiti.
Non era come le altre, che ti
mettevano dei limiti, che ti dicevano: “Questo no!” e se insistevi ti fermavano
le mani e se insistevi ancora magari smettevano del tutto le effusioni e ti
mettevano il muso, era come se lei fosse aliena da questi giochi amorosi, la
mia sensazione è che non avrebbe posto alcun limite a nessuna cosa avremmo
osato fare, solo la nostra timidezza finora aveva fatto si che ci fossimo
limitati a certe cose e che non avessimo proseguito oltre: si vede che quella
sera Roberto aveva scoperto che poteva osare qualcosa di più del semplice bacio
e della palpatina esterna, e che avessero perso così entrambi la cognizione del
tempo.
Proprio quando stavamo girando a
vuoto perché non veniva più a nessuno in mente dove potevano essere, l’agente
che guidava la volante si ricordò di un informatore che gli aveva parlato di un
posto, una stradina, case di pescatori, dove ci si poteva appartare, facendogli
capire che qualcuno avrebbe potuto usarlo con intenti poco nobili, per
nascondere qualcosa o per nascondersi, c’era una stradina appena visibile dal
lungomare, ci siamo passati un paio di volte finché l’agente non ha deciso che
non poteva essere che quella.
L’abbiamo imboccata, prima di
giungere alle casette il vicecommissario ha fatto illuminare tutto con i fari,
che potessimo vedere bene perché era tutto al buio più totale e perché anche
noi fossimo visibili, che non si allarmassero, d’un tratto li abbiamo visti
uscire da una di quelle casette, mettere in moto la vespa, salirvi sopra e
tentare la fuga … io avevo una stretta al cuore, speravo che fossero già andati
via.
Ci sono sgusciati fra le mani, li
abbiamo inseguiti, se avessero voluto li avremmo raggiunti in breve, non c’è
storia fra una vespa 50 e una pantera della Polizia, ma il vicecommissario ha
dato ordine di non perderli di vista ma
di non incalzarli da vicino, presi dalla paura e dalla disperazione
avrebbero potuto perdere la testa e fare un incidente, intanto lui cercava di
parlare con loro attraverso un megafono per tranquillizzarli.
Siamo giunti così in paese, poi
lui, che non era stupido, si è cacciato in uno dei quartieri dedalo (che
conosceva molto bene) con stradine strette, piene di auto parcheggiate anche in
prossimità dei crocevia, tanto che per una macchina era difficile andare
veloce, mentre con la vespa sono riusciti a seminarci, poi lui l’ha
accompagnata sul portone di casa sua ed è andato a casa, dove ha trovato tutti
quanti svegli e piuttosto preoccupati, perché i poliziotti erano andati a casa
sua prima di venire da me, ed è proprio perché lui aveva detto a sua madre che
usciva con me che sono giunti in casa mia.
Da allora lei non ebbe più il
permesso, per parecchio tempo, di uscire con noi, né con nessun altro, ma non
si può arginare una piena, né fermare un terremoto, né bloccare qualcuno che
sta scivolando e ha acquistato ormai una velocità ragguardevole; un giorno di
assemblea d’istituto un piccolo gruppetto si annoiava per la discussioni
all’ordine del giorno, tranne me che ero interessato ed ero rappresentante
della mia classe, ma non sapevano che fare.
Potremmo andare a Noto, lanciò
qualcuno, idea subito scartata, possiamo annoiarci allo stesso modo qui senza
doverci fare otto chilometri di strada, oppure a Siracusa, si ma come ci
arriviamo con i motorini e con due persone sopra fra l’altro? Ecco allora che
spunta il diavolo, dalla noia, dalla voglia di fare qualcosa di diverso,
dall’infinita capacità umana di farsi del male senza accorgersene, lei dice:
“Mio padre è andato a lavorare a piedi oggi, la macchina è in garage, potremmo
andare con quella …”, “già, ma chi la guida, chi ha la patente?”, “guidarla non
è un problema, io so farlo ma non ho la patente, il problema è come farai a
tirarla fuori dal garage …”, “ci provo”, “e tua madre?”, “quasi sicuramente non
è in casa”.
Così, va a casa sua, che non era
molto distante da li, e dopo un quarto d’ora torna con la macchina dopo essere
sbucata dalla strada con una curva così ampia che a momenti faceva il pelo e il
contropelo alle macchine parcheggiate, si mettono d’accordo fra loro, mi
chiedono: “Tu vieni?”, “No” rispondo “la puzza di guai non mi fa respirare, e
poi fra poco attendono il mio intervento in assemblea”.
La gita a Siracusa avvenne senza
alcun problema, quello che aveva detto di saper guidare sapeva guidare davvero,
e riportò la macchina intatta nello stesso piazzale da cui erano partiti, e era
andato loro persino troppo bene perché nessuno li aveva fermati per strada per
un controllo; i problemi vennero dopo, quando fu lei a prendere in mano la
macchina per riportarla in garage, adesso che era quasi l’una il traffico era
aumentato e lei non sapeva guidare bene già senza figuriamoci con tutti quei
mezzi che si erano riversati per strada.
Uscendo dalla piazzetta della
scuola (sono tutte cose che mi hanno raccontato perché io non ero presente)
quando imboccò la via più stretta rifece nuova la fiancata di una macchina
parcheggiata li mentre effettuava la curva, spaventata si bloccò, mise il
freno, poi presa dal panico scappò, ma non poteva certo abbandonare li la
macchina, ritornò allora sui suoi passi, attese un po’ prima di affacciarsi,
intanto il proprietario della macchina strisciata molto perplesso si era limitato
a prendere il numero di targa ed era rientrato in casa, così lei risalì e
partì.
Prese qui e la altre macchine di
striscio lungo il tragitto, ma stavolta andò dritta per la sua strada senza
fermarsi, ma non finì così, ad un incrocio in cui doveva dare la precedenza a
destra non si fermò affatto, così prese in pieno un’Apecar 50 cabinata con la
quale il ragazzo di una panetteria effettuava le consegne e la ribaltò a terra,
il pane rotolava per la via, il ragazzo uscì malconcio ma illeso dall’abitacolo,
non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa gli fosse successo che lei sgommò e si
divincolò anche da quell’incidente, senza nemmeno chiedere se si fosse fatto
male.
A quel punto dovette spaventarsi
molto, quando suo padre avrebbe scoperto la macchina in quelle condizione e
quando sarebbero arrivate le denunce di chi aveva subito danni, per lei sarebbe
finita molto male, non poteva affrontarlo dopo tutto quello che aveva
combinato, così decise su due piedi di scappare.
La ritrovarono (o si fece
ritrovare lei) tre giorni dopo che dormiva in macchina, parcheggiata in una
piazza di Siracusa, sporca perché non poteva lavarsi, lacera ed anche affamata
perché non aveva molti soldi con sé quando era scappata, tutto questo era
inimmaginabile in una perfettina come lei; mancò da scuola ancora qualche
giorno dopo il suo ritrovamento, dopo tornò a frequentare, ma non parlava più
con nessuno e quasi tutti le avevano fatto la voragine intorno, il resto del
fossato se lo scavò da sola rifiutando i pochi che volevano rimanerle vicini.
Più tardi iniziò a frequentare
gente che si faceva le canne, e non si fermò a quelle, a scuola veniva ma non
studiava ed era apatica, non parlava più con nessuno, la guardavo sempre più
perplesso, i miei tentativi di avvicinarla erano caduti nel vuoto, ma non avevo
ancora provato una gran pena per lei se non in occasione di un’altra assemblea
di istituto; stava seduta tutta sola sul marciapiede della palestra esterna,
eravamo in aprile, il sole faceva sentire un tepore molto dolce e scottava perfino
in certe ore del giorno, lei indossava una felpina sempre scelta con estremo
buon gusto, una minigonna di jeans e un paio di ballerine.
Di fronte a lei, a qualche decina
di metri un capannello di ragazzi di terza che la guardavano e ridacchiavano,
non potevo pensare che ad alcuni bastasse la sola presenza di lei per
sghignazzare così, mi sono avvicinato a loro, ma non ho capito subito, mi ci è
voluto qualche minuto e una buona dose di malizia, in quella posizione e con la
minigonna le bastava che aprisse appena le gambe soltanto perché quei
deficienti potessero scorgerle il triangolo bianco dei suoi slip, di questo
ridevano.
Ho afferrato per il bavero il
cretino che rideva di più e volevo sbatterlo per terra, immediatamente sono
intervenuti i suoi amici a separarci e a trattenermi, lui ha reagito senza
neanche capire perché lo avessi aggredito, lontano dal pensare che sbirciare
gli slip di una ragazza e riderci sopra dovesse essere qualcosa di cui
vergognarsi, mi dava del pazzo, si rivolgeva ai suoi amici chiamandoli a
testimone che lo avevo aggredito senza motivo, dopo aveva aggiunto “non lo
conosco neanche” ed aveva concluso col “fatti curare!”.
Ci ho ripensato successivamente a
questa scena, che da qualsiasi punto di vista la si osservi è di una stupidità
disarmante, e non mi riferisco soltanto a quei coglioni che le sbirciavano gli
slip e che la disprezzavano nello stesso tempo, ma alla mia reazione, un gesto
così avrebbe potuto comportare l’espulsione di entrambi o soltanto la mia dalla
scuola se qualche insegnante vi avesse assistito o se non fosse finito li.
Ma la cosa peggiore era proprio
nel motivo che aveva suscitato in me tutta quella rabbia, con chi ce l’avevo,
con quel tipo li che conoscevo davvero appena, o me la stavo prendendo con me
tesso per aver avuto con lei un atteggiamento molto simile al suo? Anch’io a
ben vedere avevo approfittato di lei finché avevo potuto, anch’io l’avevo vista
come un bel pezzo di carne morbida da accarezzare, di cui approfittare visto
che lei sembrava non conoscere limiti e di non accorgersi delle conseguenze,
anch’io avevo approfittato del fatto che lei allargasse le cosce e non solo per
sbirciare e ridacchiare, non potevo certo considerarmi migliore di lui.
Una volta qualcuno mi disse che
esiste una cesura invalicabile fra le persone stupide e quelle intelligenti,
gli stupidi sono stupidi stupidamente, mentre una persona intelligente può si
essere stupida, ma lo è intelligentemente, non è la stessa stupidità, va bene
che già solo esaminare un discorso del genere ti fa rendere conto che anche chi
ritiene di essere stupido intelligentemente poi fa discorsi come questo che
sono stupidi e basta.
Però quello fu un esempio che la
stupidità non ha confini, non ha limiti, mi verrebbe da dire che è quasi il
nostro modo normale di funzionare, tutto ciò che può accadere è che qualcuno
ogni tanto, non si sa in base a cosa o perché si sollevi dalla fanga, dalla
stupidità di default e faccia o dica qualcosa di intelligente.
Un po' come Isaac Newton, colpito da una mela caduta dall'albero sotto il quale schiacciava un pisolino, a quanti era già capitato, credete che Ciccio di Nonna Papera ne avrebbe ricavato qualcosa di diverso che imprecare in paperopolese contro la sfortuna e mangiarsela? Invece Newton intuisce che nell'Universo (e badate bene, non soltanto in un frutteto o al massimo dall'ortolano) due corpi (la mela cadente e la sua testa mettiamo) si attraggono in modo direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale alla loro distanza elevata al quadrato.
E pensate anche ad Archimede, che di fronte al cugino che stava annegando ai bastioni del porto grande di Siracusa, con la voce già gorgogliante di acqua nei polmoni e le mani irrigidite dal panico, esclama raggiante: "Eureka! Un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verticale dal basso verso l'alto pari al peso del volume del liquido spostato".
Questa ragazza, di cui trovo doloroso evocare il suo nome e comunque non lo farei per rispetto, e per cui non voglio nemmeno usare un nome fittizio come mi capita in altri casi, quell’anno fu bocciata, si re-iscrisse l’anno successivo ma non lo concluse, ritirandosi prima dalla scuola, morì di overdose solo qualche anno dopo a 22 anni, vittima insieme a molti altri dell’oscuro male di vivere che talvolta appelliamo come depressione, talaltra come borderline oppure più prosaicamente come tossicodipendenza.
Un po' come Isaac Newton, colpito da una mela caduta dall'albero sotto il quale schiacciava un pisolino, a quanti era già capitato, credete che Ciccio di Nonna Papera ne avrebbe ricavato qualcosa di diverso che imprecare in paperopolese contro la sfortuna e mangiarsela? Invece Newton intuisce che nell'Universo (e badate bene, non soltanto in un frutteto o al massimo dall'ortolano) due corpi (la mela cadente e la sua testa mettiamo) si attraggono in modo direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale alla loro distanza elevata al quadrato.
E pensate anche ad Archimede, che di fronte al cugino che stava annegando ai bastioni del porto grande di Siracusa, con la voce già gorgogliante di acqua nei polmoni e le mani irrigidite dal panico, esclama raggiante: "Eureka! Un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verticale dal basso verso l'alto pari al peso del volume del liquido spostato".
Questa ragazza, di cui trovo doloroso evocare il suo nome e comunque non lo farei per rispetto, e per cui non voglio nemmeno usare un nome fittizio come mi capita in altri casi, quell’anno fu bocciata, si re-iscrisse l’anno successivo ma non lo concluse, ritirandosi prima dalla scuola, morì di overdose solo qualche anno dopo a 22 anni, vittima insieme a molti altri dell’oscuro male di vivere che talvolta appelliamo come depressione, talaltra come borderline oppure più prosaicamente come tossicodipendenza.
Nel corso degli anni ne ho visti
cadere parecchi, che conoscevo bene o che conoscevo di vista, usciti da questo
mondo platealmente con un incidente spettacolare, o meno platealmente con un
banale infortunio, altri sono semplicemente scomparsi e non se ne è saputo più
nulla, o sono annegati e il loro corpo gonfio e bluastro, orribilmente
deformato, è stato trovato dopo e in luoghi diversi dal posto da cui si erano
immersi, qualcuno è finito bruciato, forse si era addormentato con la sigaretta
o con una canna in mano in un posto pieno di benzina e di legna da ardere e per
altri ancora il referto medico diceva “arresto cardio-circolatorio e
depressione respiratoria conseguente all’uso di sostanze stupefacenti” .
[SEGUE …]