“Siete sulla spiaggia nel tardo
pomeriggio. Il sole è già basso sull’orizzonte e spande morbida ambra intorno. C’è
profumo di fiori dietro di voi, e fragranza di erba fresca. … E sulla vostra
pelle una brezza vibrante e quasi tiepida. Guardate davanti a voi, il mare
splendente negli ultimi raggi di sole … Centinaia di piccole onde che avanzano
nella loro esistenza lampo … Ma … Guardatene una, splende più delle altre. E il
suo incedere è placido e quieto, privo di paura. Quieta nel suo fluire senza
sforzo. Guardatela meglio ancora, nel grembo baluginante dell’infinito mare:
non è un’onda. È lo splendore del mare. Lei non è un Io-Onda nel mare. Lei
è il mare”. (Gianfranco Damico, Piantala
di essere te stesso! Liberarsi dei propri limiti ed essere felici, URRA
Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2011, p. 4).
“Una volta Zhuang
Zhou sognò di essere una farfalla.
La farfalla
svolazzava lieta e spensierata e non sapeva di essere Zhou.
Improvvisamente si
svegliò e si accorse con stupore di essere Zhou.
Ora non sapeva più se
era Zhou
che aveva sognato di
essere una farfalla
o se era una farfalla
che stava sognando di
essere Zhou …”
(Dal Chuang Tzu o Zhuangzi,
che insieme al Tao Te Ching è uno dei testi cinesi fondamentali del taoismo,
Capitolo II: Sull’uguaglianza di tutte le cose).
“Chi sente ridere le
farfalle conosce il sapore delle nuvole”.
(Novalis).
Paolo il diavolo era davvero
brutto, brutto per antonomasia, apoditticamente brutto, l’apoteosi e il trionfo
della bruttezza, persone appartenenti a qualsiasi società, a qualsiasi cultura,
a qualunque strato sociale, dalla Nuova Guinea alla Papuasia, dalla Groenlandia al Congo, dagli Appennini
alle Ande, dal Manzanarre al Reno, chiunque lo avesse guardato lo avrebbe
trovato sicuramente ed inequivocabilmente brutto, sarebbe stato brutto anche
palpato in braille.
Se lo avesse visto Charles Darwin
ne sarebbe rimasto perplesso e si sarebbe convinto di dover rimaneggiare la sua
teoria dalle fondamenta: l’uomo non discende da un ceppo comune con le scimmie,
ma sono le scimmie che discendono da noi; e non solo l’uomo di Neanderthal non si è estinto per far spazio al Sapiens,
ma a guardare bene Paolo il diavolo è probabile che non si sia estinto neppure l’Homo
Abilis, che è ancora li intento a scheggiare selci prima della caccia.
Se un antropologo fosse passato
da quelle parti, avrebbe fatto i salti dalla gioia nel vederlo, avrebbe tirato
fuori il craniometro tutto felice, avrebbe fatto ispezioni, rilievi,
osservazioni in tutta la famiglia, avrebbe studiato le loro abitudini
alimentari, i loro rapporti sociali, il linguaggio che usano per esprimersi, le
loro credenze e le loro abitudini, la sfera spirituale e i costumi sessuali
della famiglia diavolo e i loro rapporti con i popoli vicini…ma soprattutto a
colpirlo sarebbe stata la loro colossale bruttezza.
Beh, va bene, non è che io sia Marlon
Brando, però quando dico brutto non intendo di una bruttezza semplice, normale,
qualcuno dotato di lineamenti irregolari o di qualche difetto fisico, o che so
io, ma l’emblema stesso della bruttezza, se i brutti di tutto il mondo avessero
voluto un simbolo, avrebbero sicuramente scelto la sua immagine come bandiera e
Paolo il diavolo come loro ambasciatore nel mondo.
Ed era brutto lui, brutto suo
fratello minore, brutta la sorella, brutto suo padre e brutta sua madre e,
probabilmente saranno stati brutti tutti i suoi avi ed ascendenti ed erano
destinati ad essere brutti anche i suoi discendenti, qualora ce ne fossero
stati, perché una bruttezze così metafisicamente iperbolica non aiuta di certo
ad ottemperare all’imperativo cristiano: “Crescite et multiplicamini".
Nessuno si chiedeva se Paolo
fosse intelligente o meno, se fosse capace, quali sentimenti provasse, era
talmente abituato fin da piccolo all’essere discriminato e allo scherno, che
non mostrava alcun segno di attività intellettuale o di sentimenti; poiché
voleva vivere era necessario che lavorasse, ma nessuno voleva affidargli un
lavoro per cui occorresse capacità e talento e nessuno si sarebbe
azzardato ad assumerlo per un lavoro a
contatto col pubblico, perché temeva di perdere la clientela, così Paolo faceva
dei lavori come uomo di fatica, un po’ qui e un po’ là, dove capitava, dove
qualcuno lo chiamava, sfruttato e sottopagato e forse anche sottostimato, ma
lui era contento così ed aveva pochissime pretese.
Non era stato preso molto sul serio, era stato rifiutato quando si era offerto di portare in processione la Madonna la domenica di Pasqua, nessun barbiere prendeva soldi da lui per un taglio di capelli o per radergli la barba, non parliamo poi di quando si innamorò della figlia di Antonio il "Signorino" e le faceva la corte passando con la sua moto dalla casa di lei con la frequenza maggiore di un'ape che sorvoli il calice di un fiore.
Non era stato preso molto sul serio, era stato rifiutato quando si era offerto di portare in processione la Madonna la domenica di Pasqua, nessun barbiere prendeva soldi da lui per un taglio di capelli o per radergli la barba, non parliamo poi di quando si innamorò della figlia di Antonio il "Signorino" e le faceva la corte passando con la sua moto dalla casa di lei con la frequenza maggiore di un'ape che sorvoli il calice di un fiore.
Questo suo innamoramento venne
accolto dal sarcasmo, dagli sghignazzi, da franche risate come se una pulce si
fosse messa in testa di far sesso con un elefante; la figlia del “Signorino” …
la “Signorina” era molto bella, e molti giovani più belli e aitanti di Paolo il
diavolo aspiravano alle sue grazie e fino ad allora nessuno era riuscito a
coglierle, tranne forse, si mormorava, Peppe u Caliddu.
E qui bisogna aprire una
parentesi perché quest’ultima affermazione non sembri l’ennesimo schizzo di
fango che vuole macchiare l’onore di una ragazza, una cosa buttata li per
insinuare il sospetto, per alimentare il dubbio, per proseguire una filama.
La filama in siciliano è la
diceria, il pettegolezzo, che nasce sempre orfana, figlia di nessuno, perché si
perde nella notte dei tempi chi è stato il primo a parlarne, chi ha iniziato,
chi l’ha fatta circolare per primo, chiunque la veicola lo fa in maniera
impersonale, introducendola con un “Si dice …”, “Ho sentito …”, ed ha
dell’incredibile il fatto che anche le pettegole più curiose dimentichino di
chiedere chi è il soggetto, cioè chi dice, chi ne ha parlato, che dovrebbe
anche essere il testimone, chi ha visto qualcosa, quello che ha le prove,
ingolosite certamente dal contenuto, dal piatto succulento che viene loro
presentato davanti, e che darà loro da “campare” almeno per qualche giorno.
Da che cosa origina una filama?
Si crede da qualcuno che abbia visto o sentito qualcosa, roba scandalosa,
sconveniente, che avrebbe dovuto essere segreta, e che vuole che ciò che ha
visto diventi pubblico senza assumersene la responsabilità diretta di essere
stato lui il primo a divulgarla.
Ma non è necessario che alla base
di una filama ci sia per forza un fatto accaduto o un detto, spesso basta la
cattiveria o l’invidia di qualcuno, per divulgare qualcosa che possa
danneggiare qualcun altro, ma c’è un godimento anche in chi la tramanda,
appositamente anonima, dimenticando da chi l’ha sentita, talvolta se richiesto
in tal proposito rimane sul vago, l’ho sentita in piazza, al bar, o a casa di
…, mai un nome, un momento preciso, un indizio concreto che possano
identificare l’ideatore del pettegolezzo.
In compenso da comare a comare,
da compare a compare, la filama cresce, si arricchisce di dettagli, si taglia,
si cuce, si aggiunge, si ricama a punto croce e si rinforza nei suoi punti
deboli dotandola di argomenti inoppugnabili, almeno in apparenza, e in ogni
caso essa
è dedicata a persone di bocca buona, non dotate di molto ingegno o di strumenti critici, o che metteranno da parte entrambi pur di crogiolarsi con quell’idea.
è dedicata a persone di bocca buona, non dotate di molto ingegno o di strumenti critici, o che metteranno da parte entrambi pur di crogiolarsi con quell’idea.
Diverso è il caso della tragedia,
una tragedia dalle mie parti è quando qualcuno ti ordisce un inganno
nell’ambito dei rapporti fra te e lui o fra te e qualcun altro, rapporti di cui
egli stesso o qualche suo amico o mandante spera di poterne beneficiare in
qualche modo, tragediatore è detto chi ordisce ed escogita la tragedia stessa.
L’esempio potrebbe essere quello
di qualcuno che ti fa credere per vero ciò che non lo è, o per falso ciò che è
vero, ma soprattutto chi insinua in te una miriade di dubbi che ti faranno
soffrire più di qualsiasi verità o falsità; chi coglie qualche screzio fra te e
un amico o una fidanzata, e molto subdolamente conquista la tua fiducia per
insinuare calunnie e mettere zizzania fra te e il tuo amico o fra te e la tua
ragazza.
Se è pure vastasi (cioè furbo, ma di una furbizia applicata esclusivamente ai
rapporti umani, in particolar modo a quelli sentimentali e al sesso), sistemerà
le cose in modo tale che anche le conferme che cercherai nell’amico o nella
ragazza, anche i chiarimenti che cercherai di avere con loro, accresceranno i
sospetti anziché fugarli e precipiteranno ancora di più il rapporto fra te e
loro.
Il tragediatore molto spesso è
interessato ad un rapporto privilegiato col tuo amico o a soppiantarti con la
tua ragazza, oppure lo fa per favorire un suo amico interessato, o su mandato
di un terzo da cui trarrà benefici, o ancora per odio o invidia nei tuoi
confronti o per cattiveria pura come accade a Iago nell’Otello.
In questo caso siamo di fronte ad
una ragazza, giovane, indubbiamente bella, senza alcun legame con qualcuno,
sebbene siano in molti a girarle intorno, che non ha mai confessato ad anima
viva i suoi desideri e sul cui comportamento, nessuno ha mai avuto niente da
ridire, una situazione troppo intrigante per non essere tentati di giocarsi
qualche filama.
E poiché non c’è niente di
concreto a cui appigliarsi, per rendere minimamente credibile la voce, devi introdurre
un jolly, e in questo caso il jolly è proprio Peppe u Caliddu, che è come dire
la fusione fra l’abilità illusionistica di Mandrake e il genio criminale di Diabolik.
Peppe u Caliddu era un ragazzo di
qualche anno più grande di me, quanto basta perché io e quelli della mia età lo
avvertissimo già ad un altro livello, mentre io annaspavo ancora con le mie
prime esperienze con le ragazze, ai primi baci, alle prime timide palpatine con
le cosce di lei che si chiudevano pudiche e riluttanti, lui era noto perché
aveva un certo successo con le donne.
Non era propriamente bello Peppe
u Caliddu, in paese c’erano parecchi giovani molto più belli di lui, proprio in
quel periodo c’era un gruppo particolare che chiamavano “i belli del lido”,
tutti ragazzi sui vent’anni o poco più, amici per la pelle fra di loro, di una
bellezza straordinaria, che avevano molto successo con le donne e che non si
sprecavano con le ragazze ordinarie, per quanto belle, ma ambivano a prede
prestigiose: la donna sposata, la maliarda, la moglie di un notabile, che non avrebbe rischiato
facilmente la sua reputazione con un giovane ventenne per di più residente in
paese.
Ben presto questo tipo di
selvaggina prestigiosa si esaurì e furono costretti a cercare altrove, nelle
città, o anche fuori regione e talvolta tornavano a farsi vedere in paese con
splendide donne, con abiti di lusso, piene di gioielli, raffinate, che
sembravano parlare un linguaggio e vivere in un mondo agli altri sconosciuto.
Ma non era neanche brutto u
Caliddu, era un tipo, ma soprattutto era enigmatico come una sfinge, non
lasciava trasparire cosa gli girava per la testa né ti lasciava capire cosa
stesse architettando e dove avesse la mente e le mani in quel periodo; delle numerose
storie che ha avuto solo pochissime si sono sapute con certezza e nessuna di
esse è trapelata da lui in nessun modo, sono state le protagoniste stesse a
parlarne o a tradirsi … e proprio per questa sua discrezione totale Peppe era
fra i ragazzi più ambiti, quello più richiesto dalle donne sposate.
Altra sua dote era quella di
occultare le sue relazioni, in un paese dove ovunque vai, dal sentiero di
montagna adatto solo per le capre e gli stambecchi, al fondale marino, c’è
sempre la possibilità che incontri qualcuno, e nessuno si fa mai gli affari
suoi, tutti impiccioni e ciarlieri, devi escogitare qualcosa se vuoi mantenere
la tua privacy.
Un mio caro amico, che non avrà
l’abilità del Caliddu, ma non gli è molto inferiore, mi raccontò scherzando che
in una calda serata estiva aveva rimorchiato una bella signora in un locale
della costa e l’aveva invitata a casa sua, ma la zona era presidiata dalla
vicina impicciona, una vegliarda ottantenne con la lingua biforcuta come un
serpente, che stava prendendo il fresco della sera seduta sulla sua veranda.
Alla signora non importava di
essere notata da chiunque, non era del posto per cui se ne fregava delle
dicerie, ma al mio amico scocciava che chiunque sapesse troppo dei fatti suoi,
non gli piaceva essere visto una sera rincasare con una donna e la sera dopo con
un’altra, proprio da quella vecchia poi, refrattaria ai condizionatori, ostinata
a prendere il fresco in veranda per poter così monitorare attentamente il
territorio.
Che ti guardava sempre come se ti augurasse che il giudizio
universale si sarebbe abbattuto prima a poi su di te e che quanto prima saresti
stato colto di sorpresa dall’angelo della prima tromba che annuncia la grandine
e il fuoco misto al sangue, che avrebbero arsa la terza parte della terra, la
terza parte degli alberi e tutta l’erba verdeggiante, e di certo non avrebbe
lesinato qualche ustione ai peccatori impenitenti e lussuriosi, e lui,
conoscendolo, le avrebbe certamente replicato: “Certo, signora, prima tromba …”.
Attese un bel pezzo sperando che
le venisse sonno, macché era mezzanotte, la coppia in macchina sprigionava
fiamme dal desiderio, e la vegliarda era ancora li, arzilla come non mai; così
dovette risolversi a trovare un espediente, lui e la donna scesero dalla
macchina e si recarono sul pizzo della cantoniera, acquattati al muro per
vedere senza essere visti, poi lui col telefono cellulare chiamò il numero
fisso della vicina, quando la vegliarda si alzò per andare a rispondere, loro
due quatti quatti e radendo il muro che sembravano la Pantera Rosa o i Blues
Brothers quando tentano di entrare nello stadio non visti dal presidio della
polizia, felpando il passo sulle note di Minnie the Moocher di Cab Calloway, giunsero
al portone e con un balzo felino finalmente furono dentro.
Peppe u Caliddu non si fidava di nessuno, non confidava con
nessuno, e architettava stratagemmi ingegnosi perché i fatti suoi non li
sapesse nessuno, non era mai stato visto insieme ad una donna da qualche parte,
nessuno era mai riuscito a sorprenderlo, mai un marito l’aveva beccato con le
mani nel sacco. Qualche marito, a dire il vero, sospettava che la moglie lo
tradisse con lui, ma non era mai riuscito a coglierli sul fatto in nessun modo;
poi incontrava il suo rivale e non poteva fare a meno di indagarlo con lo
sguardo, di lasciar trasparire i suoi sospetti, mentre u Caliddu ricambiava
quello sguardo con un sorrisetto sardonico e disarmante, che per il marito
tradito era la certezza matematica del tradimento, ma era molto di più, era
ironia pura, sfida, dileggio, ridurre l’altro all’impotenza, perché senza prove
non poteva demolirlo a mazzate, era prendersi gioco di lui, dirgli che non li
avrebbe mai sorpresi... un ragazzo di poco più di vent’anni… era molto
umiliante sentirsi cornuto e mazziato.
Se si fosse accontentato di
frequentare una ragazza, non avrebbe sollevato alcun commento, se le ragazze
con cui lo vedevano fossero state più di una o se non si fosse trattato di una
ragazza ma di una donna sposata, le cose cambiavano radicalmente, e u Caliddu
non si accontentava delle cose semplici, cercava sfide avventurose e sempre più
difficili, voleva misurarsi con l’impossibile … e infatti la parola
“impossibile” era quella che la gente esclamava quando trapelava suo malgrado
qualcuna delle sue relazioni.
Se esisteva un uomo capace di
realizzare l’impossibile in amore, o semplicemente nel sesso, quello era Peppe
u Caliddu, ecco che per questo motivo poteva diventare il jolly di una filama
incredibile che necessitava dell’uomo impossibile per essere creduta reale.
Ma che u Caliddu era capace di
tutto lo scoprii mio malgrado quando mi misi con una ragazza di due anni più
grande di me; frequentavo la sua casa perché ero amico/conoscente di suo
fratello Lino, detto Linu u Pazzu perché era capace di fare cose incredibili e
molto pericolose e di rimanerne miracolosamente illeso, come gettarsi dal
balcone del primo piano di casa sua con l’ombrello come paracadute, o fare a
gara col suo amico Manuele Capace a lanciarsi col motorino a tutta velocità dai
gradini della chiesa madre, quest’ultimo si era rotto braccia, gambe, testa,
mentre lui ne usciva con qualche graffio ma senza niente di rotto.
Una volta l’ho visto io che ero
proprio dietro di lui, ha preso a gran velocità la curva di una stradina in
discesa, che proprio non è riuscito a curvare ed è andato dritto impennandosi
con la moto su un terrapieno; lui l’ho visto cadere a sinistra mentre la moto
era andata a sfracellarsi a destra su un albero.
Ho pensato che fosse morto, vista
la caduta, macché, era tutto pieno di terra, tutto lazzariato … ora dalle mie
parti qualcuno deve aver riflettuto su quale aspetto potesse avere Lazzaro al
momento della sua resurrezione dopo diversi giorni di putrefazione (e non
parliamo poi dell’odore che doveva emanare), e sul presunto aspetto di Lazzaro
ha coniato il neologismo “lazzariato” per intendere uno che abbia lo stesso
identico aspetto di Lazzaro che sbuca dall’avello.
In quelle condizioni l’ho
riportato a casa sua e sua madre in quell’occasione mi aveva “schedato” come
compagno di giochi pericolosi del figlio, possibile cattiva compagnia, e non
come quello che glielo riporta a casa quasi tutto intero; un’altra volta che
ero andato a trovare Marian (così chiamerò la mia ragazza di allora), con la
mia bella giacca di renna di cui andavo orgoglioso (a quei tempi si usava
moltissimo, con buona pace degli animalisti), tutto ad un tratto senza aver
sentito avvicinare nessuno, mi trovo due mani che mi battevano con forza con le
palme sulle spalle, come un tappeto.
Quando mi sono girato ho visto
un’autentica furia che si scagliava contro di me per picchiarmi gridandomi:
“Mascalzone, maleducato, incivile, ti insegno io l’educazione, ti insegno io a
suonare civilmente il campanello a casa della gente perbene, ti insegno io ad
avere rispetto e non gridare ‘figlio di puttana’ a qualcuno e a casa sua!”.
Ero più sbalordito che
spaventato, era la madre della mia ragazza, nonché madre di Linu u Pazzu, che aveva intenzione di
picchiarmi, anzi lo stava già facendo, spolverandomi come un tappeto, ma non
avevo la minima idea del perché lo stesse facendo, che le era preso? Anche le
sue due figlie, Marian e Matilda erano interdette, mentre chi sembrava sapere
qualcosa era proprio Lino, che infatti era provvidenzialmente intervenuto per
fermare quella furia di sua madre.
Le diceva: “Non è lui … non è lui
… l’altro aveva i capelli neri, questo è biondo, non vedi?”, la Furia dovette
arrendersi all’evidenza e smise per un attimo di picchiarmi perché permeata dal
dubbio, comunque mi guardava in cagnesco ed era pronta a riprendere se non la
convincevamo.
Lino le confessò cos’era
veramente successo, lui aveva litigato con un ragazzo, questo infuriato l’aveva
inseguito fin sotto casa, ma Lino era staro più svelto ed era riuscito a
rifugiarsi nel portone di casa sua prima che l’altro lo acciuffasse, così quello
si era messo a suonare con violenza il campanello e non avendo risposta l’aveva
apostrofato con: “Scendi se hai coraggio, figlio di puttana!”; la madre di
Lino, allertata dal suono del campanello e da quelle grida, era venuta a vedere
dal balcone cosa stava succedendo e aveva visto quel ragazzo andarsene con le
ultime imprecazioni ancora in bocca.
A questo punto però la madre,
ancora sospettosa, aveva esclamato: “E la giacca?”, e aveva ragione, va bene
che erano molto di moda, ma la mia era particolarmente bella e di uno
straordinario colore bruno, che diventava un nocciola chiaro al caldo sole
della Sicilia, e poi era rifinita in modo molto raffinato, ma per questo
avrebbe dovuto guardarla con più attenzione e non di sfuggita, ma le donne non
si sa mai, magari sono capaci di cogliere e memorizzare cose che al resto del
genere umano …
”La giacca” – spiegai io – “era
proprio la mia”, quel ragazzo di cui Lino aveva fatto il nome era un mio caro
amico, a cui piaceva molto la mia giacca e io talvolta gliela prestavo, come
anche lui mi prestava qualcuno dei suoi vestiti, un maglione, una giacca, un
paio di jeans che mi piacevano particolarmente … la signora, delusa che non
fossi io personalmente il malfattore, non volle darsi per vinta così facilmente
ed esclamò: “ … e comunque sei un suo amico …”, come per dirmi: “Scusami se ti ho aggredito, non
sarai tu il colpevole, però sei amico del colpevole e probabilmente non sarai
molto migliore di lui!”.
Replicai: “Che c’entra, sono
anche amico di suo figlio, e quel ragazzo è anche amico di suo figlio … “, “Che è anche lui un manigoldo…”, “… e
sono il ragazzo di sua figlia Marian…”, “ …che anche lei, beh, lasciamo perdere
…”, e se ne andò via col fumo che ancora le usciva dal naso e dalle orecchie.
Qualche tempo dopo accadde che
Matilde entrò in camera della sorella, che stava insieme a me in un momento
diciamo … intimo e la porta non era chiusa come avrebbe dovuto, come una furia
e farfugliava cose che inizialmente non capimmo perché erano incomprensibili,
sembrava una lingua sconosciuta, poi pian piano mettemmo a fuoco ciò che stava
esclamando: aveva saputo che anche Marian aveva avuto in passato una storia col
suo ex ragazzo a sua insaputa e proprio mentre quel ragazzo stava assieme a
lei.
Marian, per niente turbata dal
fatto che la sorella la stesse accusando di essersi fatta il suo ragazzo mentre
stavano ancora insieme, di aver cioè acceso una storia parallela con lui a sua
insaputa, e ancora meno turbata che io avessi ascoltato tutto, replicò: “Se sai
questo vuol dire che hai frugato nelle mie cose, come ti sei permessa?”, ed
iniziarono a prendersi per i capelli.
Il ragazzo di cui parlavano,
inutile dirlo, era proprio Peppe u Caliddu, che era riuscito nell’impresa di
“farsi” entrambe le sorelle contemporaneamente, anche se una delle due, Marian,
sapeva della loro relazione perché era stata proprio Matilde a confessarglielo;
inutile dirvi anche che la mia storia con Marian fu una storia lampo, ero stufo
di essere picchiato, spolverato come un tappeto, di assistere a feroci litigi
fra sorelle e di vedere gente che si butta dalla finestra con l’ombrello.
Ma ciò che più di ogni cosa mi
convinse a chiudere quella storia fu la delusione che provai quando seppi con
certezza che lei non aveva mai letto Schopenhauer, vi rendete conto? Nemmeno
una pagina del suo Il mondo come volontà
e rappresentazione, per questo non avevamo niente da dirci nei nostri
momenti di intimità; ma nemmeno sotto dettatura era capace di dirmi qualcosa di
stimolante, quando le chiedevo di ripetere: “Il cielo stellato sopra di me e la
legge morale dentro di me!”, non era convincente, per lei non era filosofia, ma posizioni del kamasutra, la prima parte, il cielo
stellato … andava ancora bene ma nella seconda era proprio una frana, aveva la
legge morale moscia,
Se Peppe u Caliddu era
credibilissimo come amante segreto della figlia del Signorino, e giustificava
il fatto che questa storia finora non avesse fatto alcun clamore, data la
riservatezza dell’uomo, Paolo il Diavolo invece, brutto com’era, era il più
improbabile, per questo ridevano e lo schernivano, come poteva credere che una
ragazza così bella, che aveva rifiutato tanti bei pretendenti, potesse posare
lo sguardo su uno come lui, così brutto, ma così brutto che se ti appare al
buio all’improvviso lo scambi per Lucifero in persona.
Uno “povero e pazzo”, come si
dice da queste parti di chi non ha né tarì né talenti, senza un soldo in tasca,
senza un lavoro vero (anche se lavorava sempre perché era di buona lena e la
gente lo chiamava perché per qualsiasi cosa non si tirava mai indietro ed era
affidabile), e all’ultimo posto nella scala sociale e nella stima delle
persone, in un paese dove la stima che gli altri hanno di te è tutto, e
chiunque la coltiva con più impegno di come coltiva il suo campo.
Per questo qualche deficiente
arrivò a gettargli addosso secchiate d’acqua quando lui con la moto passava
dalla casa del “Signorino” per corteggiare la sua bella, con la segreta
speranza che lei si affacciasse dalla finestra.
Non solo lui, ma nessuno nella
sua famiglia veniva preso sul serio in tutto eccetto per il loro diritto di
vivere, se i miei paesani li avessero visti laceri ed affamati li avrebbero
vestiti e sfamati, ma voler sembrare più bello o anche solo più “ordinato” con
un taglio di capelli o col radersi la barba no, era lo smacco per qualunque
barbiere vedere uscire un cliente tanto brutto come quand’era entrato, la
disperazione dei Figaro locali, per
questo non lo facevano pagare, non puoi pretendere niente se non hai cambiato
di una virgola la situazione iniziale, non è professionale farsi pagare per
nulla e in questo modo, gratuitamente, era come se volessero alleggerirsi la
coscienza per non aver ottenuto alcun risultato apprezzabile.
Emerite teste di rapa, di bietola
e di cipolla di Giarratana, uscivano tutte impennacchiate e impomatate dai
saloni da barba cittadini, ciascuno di loro dopo il taglio e la rasatura poteva
sembrar quasi un essere umano, ma nel caso di Paolo il diavolo la situazione
era senza speranza, così come entrava, usciva: a vederlo così era orribile, ma più
tagliavi e più scoprivi altri difetti, più radevi più il suo volto sembrava
irregolare, così accidentato che nemmeno la cava di Spaccaforno (oggi Ispica)…
Nessuno prendeva sul serio la
tragedia che viveva questa famiglia in un paese che li isolava, li
discriminava, che li considerava appena come facenti parte del gruppo e nessuno
prendeva sul serio persino i fatti drammatici che potevano capitare loro; un
giorno accadde che il fratellino più piccolo di Paolo, il Diavolicchio, si
fosse allontanato da casa per giocare e, poiché abitavano vicini ai binari del
treno, il bambino ignaro del pericolo si mise a rincorrere le lucertole su un
muro adiacente alle rotaie, proprio mentre passava la littorina.
Non ho mai saputo di preciso cosa
accadde in quel momento, o meglio, non ho mai saputo come accadde ciò che
accadde, il fatto ha in sé qualcosa di miracoloso anche per me che non credo ai
miracoli, il bambino uscì fortunatamente illeso dall’impatto frontale con la
littorina, riportò soltanto qualche graffio, qualche scalfittura e un notevole
spavento, le signore che assistettero all’incidente lo davano per morto e
urlavano come pazze, la madre del bambino si precipitò fuori richiamata dalle
vicine e vedendo il figlio per terra, il treno fermo, le donne agitate ed
urlanti, lo credette morto.
Quando più tardi raccontarono
questa cosa, chiunque ne parlava si diceva certo che non poteva finire altrimenti
che così, qualunque altro bambino preso in pieno da un treno sarebbe morto, ma
non così un “diavolo”, quelli sono speciali tutta la famiglia ed anche la morte
teme di imprimere loro l’ultimo bacio; una storia così avrebbe potuto
raccontarla solo Giovanni Verga che riassume lo sconcerto dai minatori della
cava per il fatto che mentre il padre mastro Misciu è rimasto travolto dal
crollo della volta della miniera ed ha fatto la fine del sorcio, il figlio
Malpelo che era con lui è rimasto illeso, con le parole: “- Se non fosse stato
Malpelo non se la sarebbe passata liscia... “.
Nello stesso modo, con lo stesso
sconcerto dei minatori di Verga, i miei compaesani commentavano l’incidente
avvenuto al Diavolicchio, come se solo in una famiglia che era già di per sé
straordinaria, poteva accadere qualcosa di straordinario, mentre qualsiasi
altra famiglia sarebbe andata incontro al più ordinario degli esiti nello
scontro fra un bambino e un treno: la morte.
Paolo il diavolo a dire il vero
aveva però una passione che gli altri non schernivano, una passione che
tolleravano e che ritenevano lecita: il calcio; non che lo giocasse, e forse
personalmente non era molto bravo con la palla al piede, ma era un tifoso
sfegatato della squadra locale, un ultras, non si perdeva una partita e ben
presto presenziava anche agli allenamenti quando non aveva impegni lavorativi.
E quando c’era si rendeva utile,
se poteva far qualcosa, mettere a posto gli spogliatoi, mettere via i palloni,
ripulire gli spalti, portare acqua o asciugamani ai calciatori, portar da
mangiare al cane che stava di guardia, o qualsiasi altra cosa, lo faceva molto
volentieri; ben presto divenne la mascotte del campo, benvoluto da generazioni
di calciatori, simpatico ad allenatori e alla presidenza, riconosciuto quasi
come un’autorità costituita dal vivaio dei “pulcini” che si allenavano con i
grandi e un fedele compagno per gli altri tifosi.
Uno della presidenza, affetto da
poliomielite fin da bambino perché nato in un periodo in cui non erano ancora
diffusi i vaccini, iniziò a
rivolgerglisi come un amico, forse perché anche lui si sentiva diverso dagli
altri e poteva capirlo più di altri, forse perché entrambi erano accomunati da
una passione il cui scopo era la compensazione di un deficit e il sentirsi
uguali agli altri.
Paolo iniziò così a frequentare i
circoli calcistici, il bar dello sport sulla piazza principale, lo si vedeva
spesso con la Gazzetta rosa sotto braccio, parlava di contropiede, di
catenaccio, di assist, di dribbling e di modulo 4-4-2 come se fosse un mister e
da lui dipendesse l’esito della partita.
La sua voce quando parlava di
calcio e commentava partite veniva ascoltata come quella di chiunque altro, con
la stessa autorevolezza, nel mondo del calcio Paolo era uguale a tutti gli
altri, appena fuori da quegli ambienti tornava ad essere il “diavolo” e ad
avere gli stessi problemi di prima.
Finì col conquistarsi il rispetto
di tutti e iniziò anche ad allenare squadre di ragazzini che partecipavano ai
tornei cittadini e di zona, vincendo anche ambiti premi e anche quando non
vinceva, le sue squadre erano comunque temute e lui era stimato per la sua
competenza.
Stupiva allora la doppia vita di
quest’uomo, sottovalutato, sottopagato, sfruttato al lavoro, poco stimato nella
vita di tutti i giorni, nel suo quotidiano, per cui era impensabile rivolgere
uno sguardo ad una ragazza senza affrontare non tanto il rifiuto (che quello
sarà capitato almeno una volta nella vita a chiunque di noi), ma proprio il
disprezzo, leggere negli occhi della ragazza la superbia, il: “Ma come ti
permetti, come osi alzare il tuo sguardo su di me, come puoi anche solo sognare
…”.
Quando nell’82 l’Italia vinse i
mondiali io avevo sedici anni e con i miei amici facevamo il carosello per le
strade gridando felici che eravamo i campioni del mondo, orgogliosi della
nostra squadra, orgogliosi di essere italiani, ci sentivamo i più grandi, i
migliori e tutto questo era stato conquistato rocambolescamente, con una
squadra in cui all’inizio non credeva nessuno, che avrebbe dovuto sfidare per
vincere il Brasile di Zico, di Falcão, di Socrates, di Eder, la Germania di Lothar
Matthäus e di Hansi Müller, l’Argentina di Passarella, di Maradona e di Kempes.
All’inizio abbiamo faticato a
qualificarci, poi stentavamo a passare il turno, però quando abbiamo iniziato
ad affrontare le grandi squadre abbiamo tirato fuori il meglio di noi stessi,
crescevamo sempre di più di partita in partita e la vittoria precedente ci dava
la grinta e la voglia di vincere la successiva.
Alla fine eravamo tutti convinti
davvero di essere stati i più forti, di aver meritato quella vittoria, cosa che
non è successa dopo la vittoria dei mondiali in Germania del 2006, con una
serie di partite non eccellenti, e con le ultime partite definitive quelle
della semifinale e della finale molto deludenti: con la Germania abbiamo vinto
ai supplementari, con due gol segnati uno al 119’ e uno al 120’, il primo un
colpo di culo e il secondo quando la Germania era ormai allo sbando.
Con la Francia va ancora peggio,
una partita senza storia che finisce in pareggio, con molto nervosismo in
campo, si passa ai supplementari dove accade il famigerato gesto in cui Zidane
atterra con un colpo di testa Materazzi e si fa espellere, vinciamo ai rigori
con la sensazione inconfessabile di aver rubato un mondiale e che, comunque,
nessuno meritava di vincerlo.
Durante quegli interminabili
festeggiamenti per la vittoria in Spagna, in cui abbracciavi, salutavi gente
che conoscevi appena o che non conoscevi affatto, ballavi per le strade per
sfogare la gioia, Paolo il diavolo era li, il più felice di tutti, il più
incontenibile, sorrideva col viso, con gli occhi, con tutto il suo corpo, i
lineamenti gli si erano addolciti, il colore della pelle era meno scuro del
solito, sembrava un po’ più alto e … quasi bello in quell’attimo di felicità.
Più tardi, volendo far capire ad
alcuni studenti di psicologia il concetto di Assoluto di Hegel, feci l’esempio
di Paolo il diavolo, che in quel momento non era il povero disgraziato che era
sempre stato, tenuto ai margini della società, sfruttato e che non poteva
guardare una bella ragazza, ma era l’Italia stessa, l’Italia vittoriosa, era
come se non la squadra di calcio della Nazione in cui siamo nati avesse vinto i
mondiali, ma come se lui stesso, Paolo il diavolo, avesse vinto, come se fosse
stato lui a segnare i tre gol alla Germania, come se fosse lui ad avere in mano
la coppa del mondo, come se fosse lui il campione, il più grande calciatore sul
pianeta.
Ogni frustrazione svanita, ogni
affanno dileguato, ogni umiliazione fugata, ogni amarezza nebulizzata, le
pesanti ombre nere che coprivano il suo presente e il suo avvenire dileguate,
la sensazione di essere diverso e inferiore svanita, c’era posto solo per la
felicità della vittoria; attraverso la sua profonda identificazione con la
nazione e con la squadra vincente, attraverso la sua forte passione per il
calcio, egli era diventato un campione del mondo.
Così, semplicemente, d'emblée,
con uno schiocco delle dita, con una facilità incredibile, senza aver dovuto
faticare più di tanto, senza sudare dietro ad un pallone per molte ore al
giorno da quando sei adolescente o addirittura bambino, senza tornei, partite,
senza contrasti, cadute rovinose, tendini spezzati, senza l’ansia della partita
e senza la pressione per la vittoria … solo perché era nato in Italia era
diventato campione del mondo e con lui altri 56 milioni di abitanti (questi
sono i dati ISTAT al 1° gennaio dell’82).
La facilità con cui questa identificazione può
avvenire spiega in parte perché i razzisti di tutto il mondo, i disperati, gli
imbecilli e chiunque non abbia alcun talento … e qui non sto più parlando di
Paolo, che in fondo è un povero diavolo e che non identifico con nessuna di
queste categorie … abbiano la tendenza a sentirsi superiori a qualcuno perché
possiedono delle caratteristiche in modo assolutamente casuale.
Si sentono superiori agli altri
perché sono nati bianchi, europei, occidentali, maschi, biondi, con occhi
azzurri, alti, belli, ariani, padani, eterosessuali, discendenti di Cesare
(come se fossero stati loro a conquistare la Gallia e a creare il più potente
impero dell’antichità), provenienti dalla stessa patria di Dante, di Leonardo e
di Michelangelo (come se avessero scritto loro la Commedia, dipinto la Gioconda
o la Cappella Sistina e scolpito il David).
Cercano di dividere il mondo in
luoghi che possono essere più o meno privilegiati e più o meno shithole, come se fosse stato un merito
per loro essere nati li e non altrove, dividono l’umanità con assurde categorie
razziali, in base a presunte differenze genetiche, senza neanche immaginare
quanto il loro codice genetico sia simile a quello degli scimpanzé, dei gorilla
e dei babbuini, postulano una presunta superiorità della civiltà occidentale
come se ciò fosse vero e come se in ogni caso dovessimo ringraziare loro per
questa presunta superiorità.
Si arrogano diritti che non
possiedono, come considerarsi appartenenti ad una nazione per sangue e non per
nascita; quale sangue poi, da questa terra di mezzo sono passati tutti, prima
perché siamo al centro del Mediterraneo, poi perché Roma era il centro del
mondo, poi perché ondate di barbari hanno calpestato il nostro suolo ed hanno
lasciato tracce del loro passaggio nei caratteri somatici degli abitanti, poi
perché con le nostre divisioni interne abbiamo subito la conquista dei nostri
vicini che si sono costituiti come Stato molto prima di noi e, infine, perché
siamo un popolo di santi, poeti, naviganti, filibustieri e figli di buona donna
che non sanno star fermi e se viaggi trovi più italiani in giro per il mondo
che in Italia.
Siamo tutti bastardi, in 301.338
km² di territorio c’è una macedonia di gruppi sanguigni, colori di capelli,
degli occhi, della pelle, siamo dei mosaici genetici che fino all’avvento della
televisione non parlavano nemmeno la stessa lingua e non si capivano molto bene
fra di loro; mio nonno che ha combattuto durante la Prima Guerra Mondiale al
confine orientale non capiva una sola parola dei suoi commilitoni veneti e
friulani e loro non capivano lui.
Gente che si da una identità col
fatto di essere italiano, bianco, europeo, occidentale, industrializzato,
eterosessuale, maschio ,…, come Arlecchino indossa un costume con ritagli di
stoffa multicolore e ne è orgoglioso, orgoglioso di nulla, orgoglioso di vento,
orgoglioso di vanto; un pagliaccio insomma, una maschera che si inchina e
riverisce qualsiasi padrone e che tenta di approfittare di chiunque vede al suo
stesso livello, o ad un livello inferiore.
Io sono nato nella stessa terra
di Pirandello, Vittorini, Sciascia, Archimede, Empedocle, Federico II,
Majorana, Bellini, Scarlatti, Antonello da Messina, Quasimodo, Brancati, Tomasi
di Lampedusa, Bufalino, Camilleri, Antifonte, Teocrito, Filemone, Epicarmo,
Simonide, Gorgia da Lentini, Bacchilide, Ibn Hamdis, Verga, De Roberto, …, ne
sono molto orgoglioso, eppure non voglio che mi ringraziate per questo, non
voglio che mi facciate i complimenti e non pretendo di vincere un concorso o
una gara d’appalto, o di avere diritti e privilegi, solo perché mia madre,
siciliana, ha voluto partorirmi in Sicilia e non si è avvalsa dello Ius Soli
vigente in quel tempo in Uganda.
Penso che chi rivendica diritti e
privilegi non per meriti o per bisogno ma per caratteristiche che possiede solo
per caso, sia una persona che in fondo teme di non valere niente e che sa che
nella sua vita non ha mai fatto niente per meritare e godere di quelle cose.