« Sentinella:
"Chi va là?"
Oreste Jacovacci:
"Ma che fai aoh, prima spari e poi dici chi va là?"
Sentinella: "È
sempre mejo 'n amico morto che 'n nemico vivo! Chi siete?"
Oreste Jacovacci:
"Semo l'anima de li mortacci tua!"
Sentinella: "E
allora passate!" »
(La grande guerra, di
Mario Monicelli, con Vittorio Gassman e Alberto Sordi, 1959).
(Tutti romani ... e camurristi anche!)
A causa di un’ondata anomala di
freddo rigido e persistente, per trovare un alloggio e un riparo ai numerosi
senzatetto che popolano la Francia (a Parigi nelle metropolitane ci sono più clochards che treni in partenza), numero
vieppiù aggravato dalla crisi economica e dalle ondate di immigrati che
giungono in Europa, il governo francese (di sinistra) firma un decreto che requisisce
tutte le abitazioni sfitte e, non essendo questa misura sufficiente, impone ai
cittadini di ospitare un numero di sans
logis pari ai metri quadri e ai vani di abitazione disponibili.
Tranquillizzatevi, è una misura
che nemmeno la Cina di Mao avrebbe potuto prendere, nessuno può invadere la
vostra abitazione privata e imporvi di ospitare degli estranei, ma nel film è
una trovata che funziona, nessuno la trova grottesca o paradossale, forse
perché anche se non è reale fa parte delle nostre paure.
Ricapitolando, si incrociano,
dunque, tre delle nostre principali paure in questo film: da un lato i
cambiamenti climatici, caldi, freddi, siccità, piogge torrenziali, alluvioni,
sempre più frequenti ed improvvisi, che causano disastri ambientali e problemi
alla viabilità e all’agricoltura; dall’altro la grande crisi economica che ci
colpisce e che rende incerto e vagamente pauroso il nostro futuro e, infine, la
“pacifica” invasione di migliaia di persone provenienti dall’Asia e dall’Africa
che giungono sulle nostre coste con barconi di fortuna o che tentano di
attraversare le nostre frontiere con ogni mezzo lecito e illecito, che ci fa
temere che dovremmo spartire la nostra ricchezza, il nostro benessere, con
degli estranei, che diventeremo tutti più poveri, che la nostra identità personale,
sociale e religiosa sia messa in crisi dal confronto col diverso.
Tema unificante è questa grande
spartizione che temiamo più di ogni altra cosa, non a caso il film originale si
intitolava Le grand partage
(malamente tradotto in italiano con Benvenuti
… ma non troppo), ed è da questa paura della grande spartizione che nasce
tutta la comicità di questo film, dall’osservare, come se fossimo dei biologi
naturalisti, dei piccoli Linneo o Darwin, cosa succede date queste premesse nel
6° arrondissement, uno dei quartieri residenziali più chic di Parigi, nella Rive Gauche, in cui i palazzi più belli,
eleganti e nobili della città sono abitati dall’alta borghesia cittadina.
Impietosamente la regia tratteggia
dei ritratti che condensano gli stereotipi più biechi della borghesia parigina:
la coppia di ebrei misantropi, che preferiscono abitare in un buco di
appartamento che prendono in affitto per l’occorrenza, pur di non coabitare con
degli estranei nel proprio appartamento spazioso, e che quando lui le dice che
vuole uscire a parlare con qualcuno dopo giorni di auto-segregazione, lei lo
guarda stupita e gli replica: “Ma che bisogno c’hai, ci sono qua io ….”.
Il signore eccentrico che esce a
far la spesa con un’elegante pelliccia, che accoglie molto favorevolmente
questa coabitazione forzata perché così si sentirà meno solo; la portinaia che
assomiglia a Marine Le Pen non solo
nel modo di pensare, ma anche fisicamente.
Poi c’è la coppia di sinistra radical-chic, lei professoressa
universitaria impegnata nelle proteste, nelle lotte per i diritti civili, che
incita i suoi studenti e ne è apprezzata, ma che inorridisce al pensiero di
condividere la sua casa con gli estranei e i “diritti civili” da lei propugnati
diventano carta straccia nel momento in cui è costretta a tradurli in pratica,
una che non esita a sfruttare la notorietà del marito scrittore di
successo per avere delle agevolazioni
dalla funzionaria statale addetta a distribuire i senzatetto nelle varie
abitazioni.
Il marito avrà avuto di certo
grandi ambizioni letterarie in passato, forse avrebbe voluto scrivere dei libri
più impegnati, produrre una narrativa di spessore, ma è finito per scrivere romanzi
d’amore, una prosa romantica di successo, per potersi permettere il benessere i
cui gode insieme alla sua famiglia. I titoli dei suoi libri sono monotonamente
emblematici: Paradiso verde (una
storia d’amore ambientata in campagna), Paradiso
azzurro (una storia d’amore ambientata al mare), e progetta di scrivere Paradiso bianco … una storia d’amore
ambientata nella neve di quel grande freddo insolito; l’assonanza con romanzi reali che
sono diventati dei best seller come Cinquanta sfumature di grigio, Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso è persino imbarazzante.
Poi c’è il palazzinaro
conservatore e reazionario che vota da sempre a destra, che critica tutto e
tutti eccetto se stesso, che non è simpatico a nessuno e che è un estraneo
persino per sua moglie (con cui non ha più rapporti sessuali, senza per questo
avere rapporti con altre donne), con sua figlia e con sua madre che ha messo in
una lussuosa casa di riposo.
La moglie che non fa alcun lavoro
anzi, che non ha mai lavorato, e che impiega tutte le sue energie a trascorrere
le interminabili ore di una giornata, nel vuoto più assoluto e tradendo del
tutto i suoi desideri, la sua volontà e il suo piacere (persino l’idea di fare
sesso col marito le giunge da un programma televisivo di quelli
pseudo-culturali che si occupano del benessere psicofisico e che le trasmette l’idea
che questo faccia bene per le coronarie).
In un contesto in cui non basta
appartenere alla stessa classe sociale, non basta essere gli ultimi parigini
che abitano un quartiere per soli parigini benestanti, non basta non avere
problemi economici e grosse preoccupazioni finanziarie per il futuro, perché
siamo diventati gli uni estranei o francamente ostili con gli altri, i vari
inquilini di quel palazzo sito al civico 86 di rue du Cherche Midi, si ignorano o si disprezzano cordialmente gli
uni con gli altri.
Anche i nuclei familiari reggono
solo nell’apatia, nella monotonia e nell’estraneità reciproca, con liti che non
sono mai definitive e, di solito, con qualcuno che nella coppia è succube
volontario dell’altro e che lo segue sostanzialmente nelle sue idee politiche,
sociali, nelle sue ambizioni, persino nelle sue grettezze e meschinerie (non
fatevi ingannare da qualche gracile protesta, che è soltanto formale e non
sostanziale), senza il quale molte di queste coppie si sarebbero già
disgregate.
Insomma, non andiamo d’accordo
nemmeno fra francesi, fra persone di pari censo sociale, fra mariti e mogli,
fra genitori e figli e volete che andiamo d’accordo fra estranei, fra agiati
borgesi e senzatetto, fra francesi e persone che provengono da culture di cui
sappiamo poco e che parlano una lingua totalmente diversa dalla nostra?
La trovata del film non è tanto
giocare comicamente con gli stereotipi, far girare lo stereotipo nello
spremilimoni di una macchina da presa in modo da strizzare ogni suo succo
comico fino alla fine del film, come fanno abitualmente quasi tutti i film
comici italiani, che i protagonisti della nuova commedia all’italiana si
chiamino Paolo, Luigi, Giovanni, Clara, Berenice o Giuditta poco importa e
altrettanto poco ce lo ricordiamo, ma nessuno di noi che va a vedere un film
comico italiano dimentica la macchietta di quello col lavoro sicuro a tempo
indeterminato, del burino di provincia che si ritrova a Roma o a Milano, della
psicologa che ha un rapporto molto conflittuale con la figlia adolescente e una
relazione con un amico del marito, del cazzone che non ha mai concluso niente
nella vita ma che è pieno di ambizioni e si sopravvaluta, tanto da passare da
un fallimento all’altro e che adesso fa il tassista, ma intanto ha già messo in
vendita la licenza perché l’era del taxi è finita e sta pensando all’idea
geniale che lo arricchirà, come già prima si era lanciato nella sigaretta
elettronica e in tantissime altre bolle di sapone.
Del tizio, gay represso incapace
di confessarlo ai suoi stessi amici e di presentare loro il suo compagno Lucio,
che spaccia per Lucilla, perché tanto lo distruggerebbero di critiche, perché
in fondo in fondo un gay per loro è soltanto un “frocio”, così come una
schiappa è una schiappa, sebbene sia un amico, e lo si contatta a calcetto solo
se manca il portiere.
O ancora il tipo col un
matrimonio naufragato anzitempo, in cui lui e la moglie non si guardano più,
non chiariscono nulla, continuano a coabitare nel silenzio reciproco più
assoluto, con segreti enormi che non riescono neppure a sfiorare, con i figli
da crescere e lui invia i suoi sms dal cesso all’amante che si suppone molto
più giovane di lui e l’amante ogni sera alle 22.00 gli invia una sua immagine
osé, mentre la moglie gioca con uno sconosciuto incontrato in rete, che la
sollecita ad uscire senza gli slip.
Il film in questione, Perfetti
sconosciuti, ruota tutto non su persone reali, ma su stereotipi che girano
incontrandosi l’un l’altro per tutto il film, non escono mai dalla parte, non
cambiano, inseguono soltanto incroci comici e ti lasciano quell’illusione dello
stereotipo come realtà anche al di fuori del film.
In un’epoca in cui il posto fisso
non esiste quasi più Checco Zalone impernia il suo film più di successo tutto
sullo stereotipo dell’impiegato col posto fisso, al di fuori della sala
cinematografica chi arranca dietro ai contratti a progetto, a quelli
interinali, ai Co.Co.Co., al precariato, odia profondamente l’impiegato
pubblico col posto fisso, che non fa un cazzo, che magari ha pure un secondo
lavoro, è assenteista, corrotto ed è stato sicuramente raccomandato, seppure
ormai questa figura quasi non esiste.
La la comédie a l’italienne, o ciò che ne rimane, non fa più ridere (salvo
poche eccezioni come ad esempio Smetto quando voglio), o insegue la risata
facile fatta di battute volgari, di barzellette, di vaudeville; alla fine del
film non ti lascia niente su cui riflettere, niente che ti scuota, dopo un po’
confondi i film, i personaggi e le situazione di un film con un altro, perché
fanno parte della stessa barzelletta che ci raccontiamo quotidianamente in
Italia in questi ultimi anni, della barzelletta che siamo diventati.
Non ci sono più grandi idee
comiche, anche i comici migliori sono surclassati dalla realtà, pensate a quale
scrittore o sceneggiatore di commedie avrebbero mai pensato che un Presidente
del Consiglio in carica potesse telefonare in questura, dove era stata appena
arrestata una ragazza di origini marocchine per furto e prostituzione, e
chiedere di scarcerarla per evitare l’incidente internazionale perché si
trattava della nipote di Mubarak.
Anche quando copiamo dai francesi
lo facciamo male, io ho riso molto di più con Bienvenue chez les Ch'tis, giunto
a noi come Giù al nord, l’originale francese, seppure la comicità tradotta
perde sempre smalto, che non con Benvenuti al nord o Benvenuti al sud, che ne
sono stati i remake italiani … mosci,
con le stesse identiche battute del film francese, con caratteristi e
cabarettisti al posto di attori veri, senza alcuna tentazione di migliorare l’originale
o anche solo di renderlo più fruibile al pubblico italiano.
I film francesi di questi ultimi
anni fanno ridere molto più delle nostre commedie, ricordo solo quelli che sono
giunti a noi da La cena dei cretini, i Visitatori, il già citato Giù al nord,
Non sposate le mie figlie e quest’ultimo Benvenuti … ma non troppo.
Il motivo principale è che danno
molto più spessore ai personaggi e all’intera storia, pur partendo dagli
stereotipi, anche pesantemente tratteggiati, se ne sottraggono pian piano, non
li portano avanti per l’intero film, fanno emergere una realtà più complessa
(così come la realtà è in effetti) e la complessità dei personaggi che stentano
ad identificarsi con lo stereotipo che ci facciamo di loro.
Nel film in questione ben presto
la differenziazione droit et gauche (destra e sinistra) svanisce, il
reazionario diventa progressista, il razzista diventa solidale, lo stronzo
conservatore arriva a solidarizzare con i clochard, a visitare i ponti dove
dormono, ad ospitarli a casa, a cercare di conoscerli, la moglie che non voleva
in casa neppure la suocera, si autodenuncia e denuncia tutto il palazzo perché
hanno barato nell’accogliere i senzatetto, la coppia di sinistra che predicava
l’accoglienza e la solidarietà si scopre più reazionaria, classista e razzista
dei suoi vicini di destra.
I protagonisti oscillano, come
tutte le persone vere, fra aperture, slanci verso il prossimo e ritiri,
diffidenze, incomprensioni, incomunicabilità, ripensamenti e chiusure repentine;
ma non è finita, dopo essere passati da tutte le tonalità di convinzioni, di
emozioni e sensazioni che può provocare questa convivenza forzata, dopo aver
messo in discussione e rinnegato idee, posizioni politiche e pure impressioni
negative sugli altri, finita l’emergenza tutto sembra ritornare esattamente
come prima e ciascuno va ad indossare il suo stereotipo di prima come il travet
indossava la sua grisaglia.
Il problema è troppo grande e le
prese di posizione, gli slogan sociali e politici sono insufficienti quando ti
trovi immerso nella sua concretezza, è facile per chi abita nei quartieri
esclusivi considerare rozzi e razzisti gli abitanti delle periferie che si
rivoltano contro l’ennesima concentrazione-ghetto di immigrati in quelle zone:
non dobbiamo cedere alla paura, ai timori spesso infondati, ma non posiamo
certo trascurare la naturale diffidenza, il senso di pericolo e ciò che può
rappresentare una massiccia introduzione
di stranieri in un quartiere cittadino.
La cosa più sconcertante in tutto
questo è che il cinema italiano ha disimparato a far film di successo, a far
commedie vere, anche noi come lo scrittore del film francese produciamo solo
Paradisi di ogni colore e abbiamo rinunciato quasi del tutto a film che
rimangano nella storia della cinematografia.
In fondo, se vogliamo, la formula
che usano adesso i francesi l’abbiamo inventata noi, pensate alla Grande guerra
di Mario Monicelli, anche in quel caso si parte da due stereotipi massicci che
per quasi tutto il film Vittorio Gassman e Alberto Sordi faranno di tutto per
rappresentare adeguatamente, quelli di due furbi matricolati che le studiano
tutte per non partire per il fronte, che fanno di tutto per sottrarsi al fuoco
e ai pericoli del conflitto, quelli del polentone milanese e del terrone
romano, quelli dell’italiano bonaccione e pacioccone più che pacifista, quella
dei furbi e dell’arte di arrangiarsi.
Poi, alla fine, però, questi due
antieroi per eccellenza, si riscattano per una questione di orgoglio ferito, l’ufficiale
tedesco che li interroga si lascia scappare un commento sprezzante
perfettamente comprensibile dai due, in cui dice all’altro commilitone presente
all’interrogatorio che gli italiani non sanno nemmeno cosa sia il coraggio, il
fegato, l’unico fegato che conoscono è quello alla veneziana, con la cipolla,
che ben presto mangeranno anche loro dopo aver occupato Venezia.
I due reagiscono coraggiosamente,
insultando l’ufficiale nemico e chiudendo ogni possibilità di collaborazione (erano
staffette che trasportavano i piani, gli ordini e altre informazioni cruciali
sul contrattacco italiano sul Piave), e per ciò vengono fucilati come spie
nemiche.