Non esiste un termine in italiano
che possa essere il corrispettivo senza resto del siciliano “annacarsi”, se dovessi tradurlo in
maniera letterale (ma tenete presente che questa traduzione copre in minima
parte l’espansione significante di questa parola), visto che “naca” vuol dire culla e che questa è
senza dubbio la sua prima radice e il suo significato originario, userei il
verbo cullare.
Ma il termine non viene applicato
solo al dondolio dell’infante nella culla o fra le braccia della mamma, pure la
donna che ancheggia, si dimena, sculetta e si dondola, si sta “annacando”; e potete star certi che la
donna siciliana può essere davvero un’artista nel modo di annacarsi.
Ma anche l’uomo che si atteggia,
si comporta in maniera affettata, si muove dinoccolandosi, si sta “annacando”;
avete presente la camminata di Matteo Renzi
da quando è premier, a metà strada fra Tony
Manero nella Febbre del sabato sera
e Alberto Sordi a Saint Tropez quando fa il “saltino”? In
tutti gli ambiti, dal politico, all’intellettuale, dall’artistico allo
scientifico, noi siamo i maggiori e i migliori produttori ed esportatori di
tipi un po’ flâneur (nel senso del “turisti
della democrazia” berlusconiano, che era molto più autobiografico di quanto
supponesse) e un po’ pagliacci che sono campioni mondiali nell’arte di
annacarsi.
In questo termine bisogna tenere
ben presenti due dimensioni di significato, la prima è quella del fingere, recitare,
ostentare, rappresentare ciò che non si è … Matteo Renzi (ma già Silvio Berlusconi) che si atteggia a
leader di caratura europea nei G20, che si lancia persino in un improbabile
inglese (evidentemente non avendo ben chiaro cosa vuol dire parlare
correttamente una lingua straniera a quei livelli senza rischiare di fare brutte
figure), che lancia moniti perentori ai media come se avesse una forza
contrattuale di un cancelliere tedesco o di un presidente statunitense (solo
perché ne ha scopiazzato il look di quest’ultimo, l’abito che fa il monaco), e
che non si accorge che è già tanto che non lo mettano a servire ai tavoli.
Mentre la seconda è l’auto o
l’etero illusione (il bambino che si illude di essere tranquillo solo perché la
mamma lo dondola o lo stringe a sé, che oscilla di qua e di la ma rimane sempre
dentro la sua culla; la donna che si mostra sexy, i movimenti delle gambe e del
bacino della donna sembrano decisi e propulsivi, in realtà di fatto ne
rallentano il passo per facilitare lo sguardo; l’uomo che ostenta una sicurezza
e un savoir faire che non ha, cercando
di apparire più deciso, più ardito, più sicuro di sé, con la falcata lunga in
apparenza, mentre in realtà lo spostamento non è proporzionale al movimento).
Con le parole di Roberto Alajmo annacarsi è:” Il massimo
del movimento col minimo dello spostamento”.
«Noto Antica è una passeggiata meditativa
parecchio interessante. Ogni pietra della città distrutta e abbandonata oggi è
contesa dalla vegetazione, e addentrarsi nel tessuto viario oltre che una
passeggiata romantica è un salto indietro nel tempo e nello spazio. Sul sito di
Noto Antica si ritorna a un bivio cruciale, e volendo si può immaginare cosa
sarebbe successo se la storia avesse deciso di prendere una strada anziché
l’altra.
Breve storiella esemplare. Quando
Noto venne distrutta dal terremoto del 1693, si discusse a lungo su dove operare
la ricostruzione. Il vecchio sito rispondeva a criteri di arroccamento e
fortificazione ormai superati dai tempi. Venne allora avanzata l’ipotesi di un
anfiteatro collinare che si trovava una decina di chilometri più a valle, non
troppo distante dal mare, i cui terreni appartenevano a certe famiglie
aristocratiche. Per dirimere la questione, il viceré prese una decisione che
all’epoca risultò di inedita democrazia: per decidere dove ricostruire la città
si sarebbe svolto un referendum coinvolgendo tutta la popolazione. Dopo
l’accanita campagna elettorale, al voto prevalse un’ampia maggioranza
favorevole alla ricostruzione sul medesimo sito. Non è difficile da capire:
proprio come più di recente è successo a Gibellina, a parte ogni altra
considerazione, una cultura contadina è vincolata alla vicinanza
dell’abitazione con il terreno da coltivare giorno dopo giorno. Se il paese si
allontana di venti chilometri, il lavoro si allontana altrettanto, fino a
diventare irraggiungibile.
Al referendum di Noto, difatti,
la maggioranza era stata schiacciante. Ma si vede che c’erano in ballo
interessi superiori, oppure i tempi per un referendum democratico erano
prematuri, perché il viceré decretò, alla fin fine, che si ricostruisse sulle
terre nuove dell’aristocrazia, ignorando del tutto la volontà popolare.
Decisioni del genere non passano
ininfluenti sul corso della storia. Al contrario: incidono profondamente fin
dentro il DNA di una popolazione. Esiste un raffronto possibile non molto
lontano: Avola, la cittadina che di Noto è gemella e diversa. Quando si pose la
domanda cruciale del dopo terremoto – dove ricostruire? – ad Avola si optò per
una pianura a tre chilometri in linea d’aria dal centro abitato che era andato
distrutto. Il sito di Avola Antica si trovava su un’altura ancora più arroccata
rispetto a quella di Noto Antica, con le case costruite sui fianchi della
collina in modo che ognuna sorreggesse le altre. Il sisma le fece precipitare
di conseguenza, al punto che oggi è difficile, pur trovandosi sul posto,
riconoscere i ruderi dell’antico centro abitato. All’impiedi c’è solo un
monastero adibito ad albergo, di quelli con vista spettacolare, molto amati da
una clientela specialmente straniera.
Insomma: Avola venne riedificata
più a valle, su un territorio pianeggiante, secondo una pianta perfettamente
esagonale, ancora oggi leggibile osservando dall’alto il centro abitato.
Provenendo dal caos della terra che trema, si sentiva il bisogno di mettere
ordine. Non molto distante da qui, si trova Grammichele, il paese sorto in
quegli stessi anni per rimpiazzarne un altro, Occhiolà, che era stato spazzato
via dal sisma. A Grammichele questa stessa esigenza mentale di mettere ordine
si riscontra in una pianta urbanistica esagonale concentrica che era una
perfetta raggiera, un panopticon che
mirava al proprio centro. Ricostruire con questa forma mentis era una sfida al caos della natura, oltre che il
tentativo di gettare le basi di una nuova convivenza. In questo senso, ad Avola
lo sradicamento fu neutralizzato ricavando almeno un paio di cortili per
ciascun isolato. È qui che la vita sociale si svolgeva, attorno alle attività
femminili e alle chiacchiere fra vicini.
Soprattutto la città venne
riposizionata sulla rotta dei commerci, sulla strada che dall’estremo sud dell’isola
portava a Catania e a Messina. Questo fece si che ad Avola si formasse una
classe intermedia di commercianti e piccoli artigiani che altrove, specialmente
a Noto, era venuta a mancare. Anche i contadini soffrirono meno della
deportazione: nella maggior parte dei casi si avvicinavano anzi alle terre dove
lavoravano, che erano dislocate lungo la fascia costiera.
Se le scelte differenti nella
ricostruzione non fossero bastate, ad alimentare le rivalità campanilistiche si
aggiunsero alcuni conflitti di natura territoriale, a cominciare dal fatto che
Noto venne ricostruita sul colle Meti, un lembo del territorio di Avola. Né il
tempo è riuscito a estinguere la rivalità. Gli abitanti di Avola, in
particolare, ancora oggi rimproverano a quelli di Noto la mancanza di spirito
imprenditoriale. E quelli più colti fanno risalire questo temperamento proprio
al trauma della ricostruzione. Tanto Avola è borghese (nell’approssimazione
siciliana del concetto di borghesia) tanto Noto è aristocratica e clericale. Gli
abitanti, da agricoltori che erano, trovano occupazione solo nelle case
dell’aristocrazia o rifugiandosi nella vocazione, mettendosi al servizio di un
barone o di un priore. La gara architettonica e urbanistica che si scatenò
nella nuova Noto diede loro la possibilità di trovare un ruolo meno faticoso,
ma a conti fatti servile. Nobili o servi: questo era il destino delle nuove
generazioni cresciute dopo i primi anni del Settecento. E questo carattere si è
mantenuto fino a oggi, almeno secondo i cugini avolesi, che credono di
rintracciare i tratti dell’indolenza aristocratica anche nella servitù. È
frequente che i servi assorbano per osmosi l’altezzosità dei padroni. Ma adesso
che le grandi famiglie di Noto si sono squagliate, dopo che clero e
aristocrazia, dall’Ottocento in poi, hanno smesso di produrre reddito, la
decadenza è cominciata anche per gli strati sociali che vivevano nell’indotto,
e tanta hidalguía appare oggi come
oggi abbastanza infondata.
Non è forse un caso che, malgrado
la rinomanza turistica, a Noto fino ad anni recenti nessuno abbia provato a
trasformare uno dei moltissimi conventi semiabbandonati in un albergo come si
deve. Ci sono diversi B&B, ma scarseggiano gli hotel a quattro stelle. In
effetti, Noto appare come uno sfarzoso teatro barocco: sfarzoso e barocco, ma
teatro. Qualcosa che è stato immaginato e predisposto appositamente per
stupire. Per godere al massimo il teatro di Noto, e allo stesso tempo capirne
l’essenza stessa di finzione, conviene visitarla poco prima del tramonto, quando
la luce accende la pietra delle facciate, che passano dal color ocra al quasi
rosso. L’effetto della stupenda fiammata del sole al tramonto è anche il fuoco
di paglia di una città che chiude i battenti appena calano le ombre della sera.
Le chiese, i palazzi, i monasteri sono tutti ben illuminati, e per tutta la
notte. Ma senza una vera vita che li possa animare. Gli stessi giovani che
ancora non sono partiti a cercare fortuna altrove preferiscono trascorrere il
loro tempo libero nei centri commerciali del Ragusano. Oppure d’estate, ed è il
colmo, sul lungomare di Avola. Il passante notturno sa, immagina che dietro i
balconi barocchi di Noto abitano pochissimi fortunati. Il resto della
popolazione torna ogni sera a vivere altrove, in una transumanza quotidiana che
riporta ai quartieri circostanti, caratterizzati dallo stile architettonico
canagliesco che è tipico della seconda metà del Novecento.
La caratteristica primaria del
barocco del Val di Noto consiste nello sfruttamento scenografico dei
dislivelli. Qui – come pure a Ibla, Modica e Scicli – gli architetti aggiunsero
incombenza alle facciate fruttando la possibilità prospettiche della
costruzione sui declivi. Chi guarda, guarda dal basso verso l’alto, e il
dislivello accentua lo slancio degli edifici. Tuttavia anche le lussureggianti
facciate delle chiese, salvo eccezioni, rappresentano una piccola stretta di
delusione per il visitatore che riesca a varcarne la soglia. Rispetto al
barocco ragusano, che pure è molto prossimo, non sempre l’interno segue in
maniera coerente ciò che l’esterno promette. A Noto è come se le promesse si
fermassero sulla soglia.
La forbice culturale e sociale
fra Noto e avola si è andata allargando man mano con il passare dei decenni.
L’intraprendenza degli avolesi li ha portati a fare incetta dei terreni
coltivabili e non che vanno fino al mare, selezionando i migliori e mettendoli
a frutto. Gli abitanti di Noto, viceversa, i terreni li hanno venduti uno dopo
l’altro, e alla fine sono rimasti in possesso solo di quelli più impervi e
incoltivabili. ciò che col tempo ha perpetuato il rancore campanilistico.
(Questa Sicilia più appartata,
che gode fama di maggior mansuetudine, non per questo è meno rancorosa: a pochi
passi dell’antica Avola si trova il casale dove si svolsero i fatti esemplari
del cosiddetto Morto-Vivo. Siamo alla metà degli anni Cinquanta, e i due
fratelli Paolo e Salvatore Gallo sono in continuo contrasto fra loro. Uno odia
l’altro a tal punto da farsi credere morto, abbandonare la propria casa e
sparire dalla circolazione. Anche in assenza di un cadavere, l’altro fratello
finisce in carcere per omicidio e ci resta per sette anni, fin quando il finto
morto non salta fuori).
Il rancore di provincia trova
spesso un terreno di scontro nell’ambito della fede. In questo caso l’oggetto
del contendere è san Corrado Confalonieri, la devozione al quale è l’unica
comunanza persistente fra netini e avolesi. Comunanza oltretutto mal riposta:
san Corrado infatti manco santo risulta al calendario della Chiesa, ma semplice
beato. Ebbene, le spoglie di questo beato santo sono custodite a Noto molto
gelosamente. Tanto gelosamente che almeno un paio di volte, in tempi moderni,
sono state oggetto di scontro. Nel 1950 le reliquie partirono in processione
per tutti i centri della diocesi. Ma la processione, dopo essere partita, si
fermò già alle porte di Noto, e tornò indietro. Si dirà che era un’Italia
ancora arretrata, immediatamente post-bellica. Ma non andò meglio nemmeno nel
’90, quando il vescovo programmò una nuova trasferta delle reliquie: e stavolta
fu un uomo di grande cultura che convinse il vescovo a rinviare l’occasione,
paventando addirittura un’insurrezione popolare in difesa dei beati resti. A
tutt’oggi, temendo chissà se un sequestro o altro, di schiodare da Noto il beato
san Corrado non si parla più.
Naturalmente anche lo spirito più
borghese-imprenditoriale degli avolesi si trascina dietro le sue
controindicazioni. Avola non possiede la minima parte del fascino
architettonico di Noto. E se lo possedeva, lo ha dissipato negli anni Sessanta,
quando la ricchezza ha subito quel genere di accelerazione improvvisa che ha
portato ovunque in Sicilia a costruire qualsiasi cosa, a qualsiasi costo,
ovunque. L’ordine settecentesco ha ceduto il passo a edifici fuori scala, nello
stile tipico di una terra che ha ceduto ai geometri il potere che era stato di
architetti e urbanisti. Né la lebbra architettonica ha risparmiato le piazze
del centro di Avola. i cortili stessi, cuore nascosto di ogni microcomunità
cittadina, hanno pagato un dazio molto pesante alla dittatura del cemento
armato e degli infissi d’alluminio. Con essi si è modificato lo stesso DNA
spirituale delle persone che in quelle case oggi abitano, che in quei cortili
dovrebbero convivere.
Naturalmente l’ordine e il
disordine hanno le rispettive eccezioni. L’industriosità degli avolesi prevede
anche un risvolto di follia culturale bene incarnata da un paio di personaggi.
Il primo folle di Avola è senz’altro Jano Burgaretta, poeta, saggista, guida
preziosa per districare le sfumature del territorio dove vive da sempre. A lui
si deve un’accurata ricostruzione dei fatti di Avola: 2 dicembre 1968, due
braccianti uccisi dalla polizia durante un’ondata di proteste contadine.
L’occasione maggiore per cui Avola ricorre nella storia del Novecento. Nel suo
ruolo di animatore culturale s’è inventato una serie di serate dantesche in
pizzeria. Non rassegnandosi allo sfratto di Dante dalle scuole, voleva che
fosse accolto almeno nelle taverne. E la cosa funzionò: le letture conviviali,
che prima erano riservate a pochi, man mano sono andate estendendo il proprio
pubblico.
L’altro matto benigno è Ciccio
Urso, il libraio del paese. Uno che negli anni Settanta ha cominciato sotto il
segno della militanza e ancora oggi alla militanza paga un tributo non
indifferente. La sua libreria-casa editrice, pur essendo molto attrezzata sulla
storia del territorio, si rivolge al pubblico di internet, per riuscire a
sopravvivere sul piano anche commerciale. Urso fa un vanto di non utilizzare
finanziamenti pubblici, e se gli è successo in passato se ne è quasi
dispiaciuto. Sua è stata l’idea delle passeggiate filosofiche sul sito
archeologico di Eloro, presidio militare siracusano in abbandono, dal quale si
gode di un paesaggio pressoché incolume, al confine con la riserva di
Vendicari. Urso, Burgaretta e i loro amici si sono autodefiniti “i peripatetici
di Eloro”: vanno lì e camminano a lungo, discutendo di filosofia come a voler
recuperare la propria identità di Greci antichi.
E si vede che un po’ di filosofia
dev’essere rimasta impigliata fra la macchia mediterranea che a Eloro soverchia
le rovine: filosofia spiccia, di pratica quotidiana, che deriva
dall’esperienza. Qui – ma non solo qui, girando per i siti archeologici
siciliani – può succedere di arrivare fino al cancello e trovarlo chiuso pur
nel pieno orario di visita; orario severo e limitato, ostentato su un cartello
che campeggia sul cancello stesso. Uno a questo punto che fa? Scavalca. E si
scavalca facilmente, salvo poi essere intercettati da due militari destinati
alla tutela dei beni archeologici. Non ci sono sanzioni, e meno male. Ma
l’esperienza vale per confermare un fondamento del vivere in Sicilia. Una terra
dove le regole ci sarebbero, tuttavia è consentito aggirarle per conseguire
giustizia. Ma solo a patto di non farsi scoprire».
(Roberto Alajmo, L’arte di
annacarsi. Un viaggio in Sicilia, Editori Laterza, Bari, 2010, pp. 120-126).
Jano Burgaretta e Ciccio Urso
dovrebbero riconoscermi come antesignano riguardo alle passeggiate
filosofiche ad Eloro, io ho precorso i tempi inaugurando la filosofia
peripatetica elorina fin dagli anni 80 … d’accordo che la mia era filosofia
epicurea, d’accordo anche che non si trattasse di insegnamenti aperti ad un
vasto pubblico (d’altronde Epicuro intimava il “Vivi nascosto!”) e che erano
tuttalpiù erano aperti ad un solo allievo per volta.
Quando Eloro era una
collina la cui storia era più nota altrove che fra gli abitanti del luogo,
quando per arrivarci c’era soltanto un impervio sentiero percorribile con una
moto da cross o da enduro (mentre adesso c’è una strada sterrata percorribile
con una comune autovettura), quando la stragrande maggioranza nulla sapeva di
ritrovamenti archeologici e che quella collina fosse nientemeno che l’acropoli
dell’antica Eloro (e non la recinzione che il custode aveva messo per
coltivarsi in proprio melanzane e pomodori), quando tutti credevano che si
trattasse soltanto di una spiaggetta appartata dove poter stare in santa pace e
mettersi in déshabillé comodamente e
senza occhi indiscreti ( ... vir'o mare quant'è bello, spira tanto sentimento! ...), io amavo le passeggiate e i dialoghi filosofici con qualche
soave fanciulla, condotta sull’isola dal “continente” dalla brezza di zefiro o
di garbino.