sabato 20 dicembre 2014

LA JOIE DE VIVRE







Henri Matisse, La joie de vivre, 1905-1906, Barnes Foundation, Filadelfia.




“ … e poi ci troveremo come le star
a bere del whisky al roxy bar
o forse non c'incontreremo mai
ognuno a rincorrere i suoi guai
ognuno col suo viaggio
ognuno diverso
e ognuno in fondo perso
dentro i cazzi suoi”.
(Vasco Rossi, Vita spericolata, in Bollicine, 1983).





Grazie … grazie a tutti … amici … nemici … indifferenti … a chi si affaccia su questo blog per la prima volta … a chi mi frequenta da tempo … a chi viene saltuariamente … a chi passa di tanto in tanto per salutare … a chi passa con orma leggera e non lascia (quasi) traccia della sua presenza … a chi guarda solo le figure, ascolta solo la musica, legge un po’ qua e la … a chi si porta via qualche immagine perché gli è piaciuta … a chi si porta via qualche idea … a chi si porta via un sentimento … a chi se n’è andato perché aveva altro da fare … altro da leggere … altro da pensare … ha trovato un modo migliore di impiegare il tempo … a chi non era più in sintonia … a chi è sparito semplicemente dall’oggi al domani …  scomparso … evaporato … svanito … nebulizzato  … e più niente ne abbiamo saputo … a chi era un altro e ora è cambiato … a chi non sapeva chi fosse e non l’ha mai saputo … a chi non vespa più e si fa le pere. 






Grazie alle grazie … e anche alle disgrazie … alle tragedie e alle allegrie … a chi sorride quando mi legge … a chi magari ogni tanto mi dedica un pensiero … a chi si arrabbia e a chi è curioso di sapere come va a finire … a chi ha la pazienza di leggermi fino in fondo … a chi mi porta gioia, allegria, ottimismo … ma anche a chi mi porta tristezza, angoscia, disperazione … purché sia tutto autentico … o purché sia tutto veramente e completamente falso. 




Donna, Costa do Sol,  España, 2014.

Donne, Tel Aviv, Israel, 2011.


Ringrazio anche la malattia … mia o altrui … perché ci mette in contatto più profondo con noi stessi … e ringrazio (si, anche Lei) persino la morte, perché ci insegna a vivere attraverso il dolore. Grazie al vostro entusiasmo e alle vostre critiche … alla vostra presenza … e alla vostra assenza … al caleidoscopio di apparizioni e sparizioni … all’attenzione e alla disattenzione … per voi e solo per voi, miei cari, srotolo ogni giorno questo tappeto di fiori intrecciati di musica, di immagini e di parole … per chi è appena arrivato, per chi vuole rimanere, per chi c’è sempre stato, per chi se n’è già andato e per chi volesse andare.







Grazie … dal più profondo del mio cuore e Buone Feste.


giovedì 11 dicembre 2014

MISREAD




“Si scrive per popolare il deserto... per non morire...
per essere ricordati e per ricordare... anche per dimenticare...
anche per esser felici... per far testamento... per giocare...
per scongiurare, per evocare... per battezzare le cose...
per surrogare la vita, per viverne un'altra...
per persuadere e amorosamente sedurre... per profetizzare...
per rendere verosimile la realtà...
Tante sono, suppergiù, le ragioni per scrivere.
Una di più, ma forse una di meno (non ho contato bene),
delle ragioni per tacere”.

(Gesualdo Bufalino, Le ragioni dello scrivere).




"Ce qui se passe dans le domaine de l'écriture n'est-il pas dénué de valeur si cela reste «esthétique», anodin, dépourvu de sanction, s'il n'y a rien, dans le fait d'écrire une œuvre, qui soit un équivalent de ce qu'est pour le torero la corne acérée du taureau, qui seule – en raison de la menace matérielle qu'elle recèle – confère une réalité humaine à son art, l'empêche d'être autre chose que grâces vaines de ballerine?"
(Michel Leiris, De la littérature considérée comme une tauromaquie).


“Nessun piacere ha gusto per me se non posso comunicarlo. Non mi viene nell’anima una bella idea senza che mi dispiaccia di averla prodotta da solo, e di non avere a chi offrirla”.
(Michel de Montaigne, Essays, III, 9, p. 1325).



“No: in tanti casi è necessario e pietoso, – concluse Carlotta, – scrivere senza dir niente, piuttosto che non scrivere affatto".
(Wolfgang Goethe, Le affinità elettive).



Se scrivi ti seguiranno solo coloro che sanno leggere, chi ode la notte e chi beve l’alba non capirà le tue parole;
se scrivi in una determinata lingua, ti seguiranno solo coloro che comprendono questa lingua;
se scrivi su un sito internet ti seguiranno solo coloro che hanno una connessione internet e conoscono quel sito;
se scrivi su twitter ti seguiranno solo gli amanti della sintesi e i neotestamentari [“Sia il vostro parlare si, si; no, no (anche “Mi piace” è ammesso); il superfluo procede dal maligno” Matteo, 5, 37];
se scrivi su facebook ti seguiranno solo gli amanti del banale e del “mi piace che ti piaccia ciò che mi piace per piacerti”;
se scrivi su tumblr ti seguiranno solo i seguaci del copia-incolla, di quelli che alla fine pubblicano le stesse immagini, la stessa musica, gli stessi gif, che visto uno li hai visti tutti perché è un continuo “reblogged” l’uno dall’altro, come un amplesso cosmico;
se scrivi su un blog non ti seguirà nessuno, perché i blog sono morti e noi che ancora ci aggiriamo sulle loro macerie come ectoplasmi non ce ne siamo resi conto e non ci siamo resi conto che siamo morti anche noi con loro;
se scrivi un libro la cosa più probabile che ti possa accadere sarà che avrai abbattuto una foresta … inutilmente, a meno che tu non sia la nuova Emily Dickinson o il nuovo Fëdor Dostoevskij o che tu abbia scritto qualcosa che resti (ma cosa potrebbe ancora restare se non c’è più un flusso di cultura che si perpetua dalla notte dei tempi, un discorso che possa scorgere e conservare quanto di meglio venga detto, una memoria dei nuovi ed interessanti contributi, quando tutto è fruizione momentanea giocata su sentimenti che durano quanto le fiaccole di carnevale?);
se scrivi del sociale oggi dovrai mostrare il sangue, le turpitudini e le oscenità, dovrai sezionare cadaveri e rimestare anche più volte nel fango: perché questo s’intende oggi per sociale: mostrami qualcosa che faccia più schifo di me;
se scrivi di politica ti seguiranno tutti (perché tutti oggi parlano di politica), alcuni per insultarti perché ti ostini a non pensarla come loro, altri per elogiarsi visto che ci sei anche tu a dar loro ragione;
se scrivi di cultura ti seguiranno solo i narcisisti, perché oggi che la cultura non esiste più passa per cultura solo l’erudizione e lo sfoggio di nozioni che chissà per quale ragione dovrebbero porre queste persone parecchi gradini al di sopra degli altri;
se scrivi di te stesso, delle tue emozioni, delle tue sensazioni, dei tuoi pensieri .., che è davvero tutto ciò che puoi scrivere (e che finisci per scrivere anche quando ti sembra di parlare d’altro, anche quando ti nascondi dietro i paraventi più disparati) … non ti seguirà nessuno, perché a nessuno interessa conoscere chi sei, perché nessuno sa più chi o cosa è lui.




"Per il proseguimento o meno di una qualsiasi relazione – e per poter poi parlare di comunicazione interpersonale con più completezza – risulta determinante una forma di comunicazione, quella non verbale. Ecco dunque che per un comico o un cabarettista, per un manager, un prete o un professore, la comunicazione non è più solo uno strumento, ma diviene lo scopo supremo: farsi capire per poi provocare una reazione nell’uditorio (risata sana e liberatoria, dialogo costruttivo, contrizione o pentimento, apprendimento e crescita culturale).
La comunicazione odierna, fatta di velocità e aggressività, rischia di diventare noiosamente monotematica e omologata ai media e ai social. I due poli della comunicazione, l’emittente e il ricevente, oggi captano milioni di input più che di messaggi, a cui spesso reagiscono chiudendosi ancor di più in se stessi per cercare di decifrarli.
A mio parere, dunque, la comunicazione non verbale rimane oggi la forma basilare e più importante della comunicazione, quella dove si può essere ancora spontanei, creativi e soprattutto se stessi, riportando il significato della parola al suo etimo naturale, ovvero communicatio, “partecipazione”, il “rendere comune”. Spero si ritrovi questo senso soprattutto nella didattica scolastica, dove spesso chi insegna comunicazione non riesce a comunicare con chi ascolta, e nella politica, dove si assiste alla strumentalizzazione riduttiva e meschina del partecipare (ovvero si chiede di farlo agli elettori, ma non si partecipa alla loro vita).
Oggi si comunica tanto e si ascolta poco, ma l’ascolto è una disciplina essenziale nella comunicazione. Come disse Plutarco in L’arte di ascoltare, «la natura ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una lingua sola perché siamo tenuti ad ascoltare più che a parlare".
(Enrico Bertolino).




"La più piccola parola
è circondata da acri ed acri di silenzio,
e perfino quando riesco a fissare
quella parola sulla pagina
mi sembra della stessa natura
di un miraggio, un granello di dubbio
che scintilla nella sabbia".
(Paul Auster).



mercoledì 3 dicembre 2014

L'ARTE DI ANNACARSI







Non esiste un termine in italiano che possa essere il corrispettivo senza resto del siciliano “annacarsi”, se dovessi tradurlo in maniera letterale (ma tenete presente che questa traduzione copre in minima parte l’espansione significante di questa parola), visto che “naca” vuol dire culla e che questa è senza dubbio la sua prima radice e il suo significato originario, userei il verbo cullare.
Ma il termine non viene applicato solo al dondolio dell’infante nella culla o fra le braccia della mamma, pure la donna che ancheggia, si dimena, sculetta e si dondola, si sta “annacando”; e potete star certi che la donna siciliana può essere davvero un’artista nel modo di annacarsi.
Ma anche l’uomo che si atteggia, si comporta in maniera affettata, si muove dinoccolandosi, si sta “annacando”; avete presente la camminata di Matteo Renzi da quando è premier, a metà strada fra Tony Manero nella Febbre del sabato sera e Alberto Sordi a Saint Tropez quando fa il “saltino”? In tutti gli ambiti, dal politico, all’intellettuale, dall’artistico allo scientifico, noi siamo i maggiori e i migliori produttori ed esportatori di tipi un po’ flâneur (nel senso del “turisti della democrazia” berlusconiano, che era molto più autobiografico di quanto supponesse) e un po’ pagliacci che sono campioni mondiali nell’arte di annacarsi.
In questo termine bisogna tenere ben presenti due dimensioni di significato, la prima è quella del fingere, recitare, ostentare, rappresentare ciò che non si è … Matteo Renzi (ma già Silvio Berlusconi) che si atteggia a leader di caratura europea nei G20, che si lancia persino in un improbabile inglese (evidentemente non avendo ben chiaro cosa vuol dire parlare correttamente una lingua straniera a quei livelli senza rischiare di fare brutte figure), che lancia moniti perentori ai media come se avesse una forza contrattuale di un cancelliere tedesco o di un presidente statunitense (solo perché ne ha scopiazzato il look di quest’ultimo, l’abito che fa il monaco), e che non si accorge che è già tanto che non lo mettano a servire ai tavoli.
Mentre la seconda è l’auto o l’etero illusione (il bambino che si illude di essere tranquillo solo perché la mamma lo dondola o lo stringe a sé, che oscilla di qua e di la ma rimane sempre dentro la sua culla; la donna che si mostra sexy, i movimenti delle gambe e del bacino della donna sembrano decisi e propulsivi, in realtà di fatto ne rallentano il passo per facilitare lo sguardo; l’uomo che ostenta una sicurezza e un savoir faire che non ha, cercando di apparire più deciso, più ardito, più sicuro di sé, con la falcata lunga in apparenza, mentre in realtà lo spostamento non è proporzionale al movimento).
Con le parole di Roberto Alajmo annacarsi è:” Il massimo del movimento col minimo dello spostamento”. 




«Noto Antica è una passeggiata meditativa parecchio interessante. Ogni pietra della città distrutta e abbandonata oggi è contesa dalla vegetazione, e addentrarsi nel tessuto viario oltre che una passeggiata romantica è un salto indietro nel tempo e nello spazio. Sul sito di Noto Antica si ritorna a un bivio cruciale, e volendo si può immaginare cosa sarebbe successo se la storia avesse deciso di prendere una strada anziché l’altra.
Breve storiella esemplare. Quando Noto venne distrutta dal terremoto del 1693, si discusse a lungo su dove operare la ricostruzione. Il vecchio sito rispondeva a criteri di arroccamento e fortificazione ormai superati dai tempi. Venne allora avanzata l’ipotesi di un anfiteatro collinare che si trovava una decina di chilometri più a valle, non troppo distante dal mare, i cui terreni appartenevano a certe famiglie aristocratiche. Per dirimere la questione, il viceré prese una decisione che all’epoca risultò di inedita democrazia: per decidere dove ricostruire la città si sarebbe svolto un referendum coinvolgendo tutta la popolazione. Dopo l’accanita campagna elettorale, al voto prevalse un’ampia maggioranza favorevole alla ricostruzione sul medesimo sito. Non è difficile da capire: proprio come più di recente è successo a Gibellina, a parte ogni altra considerazione, una cultura contadina è vincolata alla vicinanza dell’abitazione con il terreno da coltivare giorno dopo giorno. Se il paese si allontana di venti chilometri, il lavoro si allontana altrettanto, fino a diventare irraggiungibile.
Al referendum di Noto, difatti, la maggioranza era stata schiacciante. Ma si vede che c’erano in ballo interessi superiori, oppure i tempi per un referendum democratico erano prematuri, perché il viceré decretò, alla fin fine, che si ricostruisse sulle terre nuove dell’aristocrazia, ignorando del tutto la volontà popolare.






Decisioni del genere non passano ininfluenti sul corso della storia. Al contrario: incidono profondamente fin dentro il DNA di una popolazione. Esiste un raffronto possibile non molto lontano: Avola, la cittadina che di Noto è gemella e diversa. Quando si pose la domanda cruciale del dopo terremoto – dove ricostruire? – ad Avola si optò per una pianura a tre chilometri in linea d’aria dal centro abitato che era andato distrutto. Il sito di Avola Antica si trovava su un’altura ancora più arroccata rispetto a quella di Noto Antica, con le case costruite sui fianchi della collina in modo che ognuna sorreggesse le altre. Il sisma le fece precipitare di conseguenza, al punto che oggi è difficile, pur trovandosi sul posto, riconoscere i ruderi dell’antico centro abitato. All’impiedi c’è solo un monastero adibito ad albergo, di quelli con vista spettacolare, molto amati da una clientela specialmente straniera.
Insomma: Avola venne riedificata più a valle, su un territorio pianeggiante, secondo una pianta perfettamente esagonale, ancora oggi leggibile osservando dall’alto il centro abitato. Provenendo dal caos della terra che trema, si sentiva il bisogno di mettere ordine. Non molto distante da qui, si trova Grammichele, il paese sorto in quegli stessi anni per rimpiazzarne un altro, Occhiolà, che era stato spazzato via dal sisma. A Grammichele questa stessa esigenza mentale di mettere ordine si riscontra in una pianta urbanistica esagonale concentrica che era una perfetta raggiera, un panopticon che mirava al proprio centro. Ricostruire con questa forma mentis era una sfida al caos della natura, oltre che il tentativo di gettare le basi di una nuova convivenza. In questo senso, ad Avola lo sradicamento fu neutralizzato ricavando almeno un paio di cortili per ciascun isolato. È qui che la vita sociale si svolgeva, attorno alle attività femminili e alle chiacchiere fra vicini.
Soprattutto la città venne riposizionata sulla rotta dei commerci, sulla strada che dall’estremo sud dell’isola portava a Catania e a Messina. Questo fece si che ad Avola si formasse una classe intermedia di commercianti e piccoli artigiani che altrove, specialmente a Noto, era venuta a mancare. Anche i contadini soffrirono meno della deportazione: nella maggior parte dei casi si avvicinavano anzi alle terre dove lavoravano, che erano dislocate lungo la fascia costiera.






Se le scelte differenti nella ricostruzione non fossero bastate, ad alimentare le rivalità campanilistiche si aggiunsero alcuni conflitti di natura territoriale, a cominciare dal fatto che Noto venne ricostruita sul colle Meti, un lembo del territorio di Avola. Né il tempo è riuscito a estinguere la rivalità. Gli abitanti di Avola, in particolare, ancora oggi rimproverano a quelli di Noto la mancanza di spirito imprenditoriale. E quelli più colti fanno risalire questo temperamento proprio al trauma della ricostruzione. Tanto Avola è borghese (nell’approssimazione siciliana del concetto di borghesia) tanto Noto è aristocratica e clericale. Gli abitanti, da agricoltori che erano, trovano occupazione solo nelle case dell’aristocrazia o rifugiandosi nella vocazione, mettendosi al servizio di un barone o di un priore. La gara architettonica e urbanistica che si scatenò nella nuova Noto diede loro la possibilità di trovare un ruolo meno faticoso, ma a conti fatti servile. Nobili o servi: questo era il destino delle nuove generazioni cresciute dopo i primi anni del Settecento. E questo carattere si è mantenuto fino a oggi, almeno secondo i cugini avolesi, che credono di rintracciare i tratti dell’indolenza aristocratica anche nella servitù. È frequente che i servi assorbano per osmosi l’altezzosità dei padroni. Ma adesso che le grandi famiglie di Noto si sono squagliate, dopo che clero e aristocrazia, dall’Ottocento in poi, hanno smesso di produrre reddito, la decadenza è cominciata anche per gli strati sociali che vivevano nell’indotto, e tanta hidalguía appare oggi come oggi abbastanza infondata.
Non è forse un caso che, malgrado la rinomanza turistica, a Noto fino ad anni recenti nessuno abbia provato a trasformare uno dei moltissimi conventi semiabbandonati in un albergo come si deve. Ci sono diversi B&B, ma scarseggiano gli hotel a quattro stelle. In effetti, Noto appare come uno sfarzoso teatro barocco: sfarzoso e barocco, ma teatro. Qualcosa che è stato immaginato e predisposto appositamente per stupire. Per godere al massimo il teatro di Noto, e allo stesso tempo capirne l’essenza stessa di finzione, conviene visitarla poco prima del tramonto, quando la luce accende la pietra delle facciate, che passano dal color ocra al quasi rosso. L’effetto della stupenda fiammata del sole al tramonto è anche il fuoco di paglia di una città che chiude i battenti appena calano le ombre della sera. Le chiese, i palazzi, i monasteri sono tutti ben illuminati, e per tutta la notte. Ma senza una vera vita che li possa animare. Gli stessi giovani che ancora non sono partiti a cercare fortuna altrove preferiscono trascorrere il loro tempo libero nei centri commerciali del Ragusano. Oppure d’estate, ed è il colmo, sul lungomare di Avola. Il passante notturno sa, immagina che dietro i balconi barocchi di Noto abitano pochissimi fortunati. Il resto della popolazione torna ogni sera a vivere altrove, in una transumanza quotidiana che riporta ai quartieri circostanti, caratterizzati dallo stile architettonico canagliesco che è tipico della seconda metà del Novecento. 





La caratteristica primaria del barocco del Val di Noto consiste nello sfruttamento scenografico dei dislivelli. Qui – come pure a Ibla, Modica e Scicli – gli architetti aggiunsero incombenza alle facciate fruttando la possibilità prospettiche della costruzione sui declivi. Chi guarda, guarda dal basso verso l’alto, e il dislivello accentua lo slancio degli edifici. Tuttavia anche le lussureggianti facciate delle chiese, salvo eccezioni, rappresentano una piccola stretta di delusione per il visitatore che riesca a varcarne la soglia. Rispetto al barocco ragusano, che pure è molto prossimo, non sempre l’interno segue in maniera coerente ciò che l’esterno promette. A Noto è come se le promesse si fermassero sulla soglia.
La forbice culturale e sociale fra Noto e avola si è andata allargando man mano con il passare dei decenni. L’intraprendenza degli avolesi li ha portati a fare incetta dei terreni coltivabili e non che vanno fino al mare, selezionando i migliori e mettendoli a frutto. Gli abitanti di Noto, viceversa, i terreni li hanno venduti uno dopo l’altro, e alla fine sono rimasti in possesso solo di quelli più impervi e incoltivabili. ciò che col tempo ha perpetuato il rancore campanilistico.
(Questa Sicilia più appartata, che gode fama di maggior mansuetudine, non per questo è meno rancorosa: a pochi passi dell’antica Avola si trova il casale dove si svolsero i fatti esemplari del cosiddetto Morto-Vivo. Siamo alla metà degli anni Cinquanta, e i due fratelli Paolo e Salvatore Gallo sono in continuo contrasto fra loro. Uno odia l’altro a tal punto da farsi credere morto, abbandonare la propria casa e sparire dalla circolazione. Anche in assenza di un cadavere, l’altro fratello finisce in carcere per omicidio e ci resta per sette anni, fin quando il finto morto non salta fuori).



Il rancore di provincia trova spesso un terreno di scontro nell’ambito della fede. In questo caso l’oggetto del contendere è san Corrado Confalonieri, la devozione al quale è l’unica comunanza persistente fra netini e avolesi. Comunanza oltretutto mal riposta: san Corrado infatti manco santo risulta al calendario della Chiesa, ma semplice beato. Ebbene, le spoglie di questo beato santo sono custodite a Noto molto gelosamente. Tanto gelosamente che almeno un paio di volte, in tempi moderni, sono state oggetto di scontro. Nel 1950 le reliquie partirono in processione per tutti i centri della diocesi. Ma la processione, dopo essere partita, si fermò già alle porte di Noto, e tornò indietro. Si dirà che era un’Italia ancora arretrata, immediatamente post-bellica. Ma non andò meglio nemmeno nel ’90, quando il vescovo programmò una nuova trasferta delle reliquie: e stavolta fu un uomo di grande cultura che convinse il vescovo a rinviare l’occasione, paventando addirittura un’insurrezione popolare in difesa dei beati resti. A tutt’oggi, temendo chissà se un sequestro o altro, di schiodare da Noto il beato san Corrado non si parla più.
Naturalmente anche lo spirito più borghese-imprenditoriale degli avolesi si trascina dietro le sue controindicazioni. Avola non possiede la minima parte del fascino architettonico di Noto. E se lo possedeva, lo ha dissipato negli anni Sessanta, quando la ricchezza ha subito quel genere di accelerazione improvvisa che ha portato ovunque in Sicilia a costruire qualsiasi cosa, a qualsiasi costo, ovunque. L’ordine settecentesco ha ceduto il passo a edifici fuori scala, nello stile tipico di una terra che ha ceduto ai geometri il potere che era stato di architetti e urbanisti. Né la lebbra architettonica ha risparmiato le piazze del centro di Avola. i cortili stessi, cuore nascosto di ogni microcomunità cittadina, hanno pagato un dazio molto pesante alla dittatura del cemento armato e degli infissi d’alluminio. Con essi si è modificato lo stesso DNA spirituale delle persone che in quelle case oggi abitano, che in quei cortili dovrebbero convivere.




Naturalmente l’ordine e il disordine hanno le rispettive eccezioni. L’industriosità degli avolesi prevede anche un risvolto di follia culturale bene incarnata da un paio di personaggi. Il primo folle di Avola è senz’altro Jano Burgaretta, poeta, saggista, guida preziosa per districare le sfumature del territorio dove vive da sempre. A lui si deve un’accurata ricostruzione dei fatti di Avola: 2 dicembre 1968, due braccianti uccisi dalla polizia durante un’ondata di proteste contadine. L’occasione maggiore per cui Avola ricorre nella storia del Novecento. Nel suo ruolo di animatore culturale s’è inventato una serie di serate dantesche in pizzeria. Non rassegnandosi allo sfratto di Dante dalle scuole, voleva che fosse accolto almeno nelle taverne. E la cosa funzionò: le letture conviviali, che prima erano riservate a pochi, man mano sono andate estendendo il proprio pubblico.





L’altro matto benigno è Ciccio Urso, il libraio del paese. Uno che negli anni Settanta ha cominciato sotto il segno della militanza e ancora oggi alla militanza paga un tributo non indifferente. La sua libreria-casa editrice, pur essendo molto attrezzata sulla storia del territorio, si rivolge al pubblico di internet, per riuscire a sopravvivere sul piano anche commerciale. Urso fa un vanto di non utilizzare finanziamenti pubblici, e se gli è successo in passato se ne è quasi dispiaciuto. Sua è stata l’idea delle passeggiate filosofiche sul sito archeologico di Eloro, presidio militare siracusano in abbandono, dal quale si gode di un paesaggio pressoché incolume, al confine con la riserva di Vendicari. Urso, Burgaretta e i loro amici si sono autodefiniti “i peripatetici di Eloro”: vanno lì e camminano a lungo, discutendo di filosofia come a voler recuperare la propria identità di Greci antichi.
E si vede che un po’ di filosofia dev’essere rimasta impigliata fra la macchia mediterranea che a Eloro soverchia le rovine: filosofia spiccia, di pratica quotidiana, che deriva dall’esperienza. Qui – ma non solo qui, girando per i siti archeologici siciliani – può succedere di arrivare fino al cancello e trovarlo chiuso pur nel pieno orario di visita; orario severo e limitato, ostentato su un cartello che campeggia sul cancello stesso. Uno a questo punto che fa? Scavalca. E si scavalca facilmente, salvo poi essere intercettati da due militari destinati alla tutela dei beni archeologici. Non ci sono sanzioni, e meno male. Ma l’esperienza vale per confermare un fondamento del vivere in Sicilia. Una terra dove le regole ci sarebbero, tuttavia è consentito aggirarle per conseguire giustizia. Ma solo a patto di non farsi scoprire».
(Roberto Alajmo, L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia, Editori Laterza, Bari, 2010, pp. 120-126).   




Jano Burgaretta e Ciccio Urso dovrebbero riconoscermi come antesignano riguardo alle passeggiate filosofiche ad Eloro, io ho precorso i tempi inaugurando la filosofia peripatetica elorina fin dagli anni 80 … d’accordo che la mia era filosofia epicurea, d’accordo anche che non si trattasse di insegnamenti aperti ad un vasto pubblico (d’altronde Epicuro intimava il “Vivi nascosto!”) e che erano tuttalpiù erano aperti ad un solo allievo per volta. 
Quando Eloro era una collina la cui storia era più nota altrove che fra gli abitanti del luogo, quando per arrivarci c’era soltanto un impervio sentiero percorribile con una moto da cross o da enduro (mentre adesso c’è una strada sterrata percorribile con una comune autovettura), quando la stragrande maggioranza nulla sapeva di ritrovamenti archeologici e che quella collina fosse nientemeno che l’acropoli dell’antica Eloro (e non la recinzione che il custode aveva messo per coltivarsi in proprio melanzane e pomodori), quando tutti credevano che si trattasse soltanto di una spiaggetta appartata dove poter stare in santa pace e mettersi in déshabillé comodamente e senza occhi indiscreti ( ... vir'o mare quant'è bello, spira tanto sentimento! ...), io amavo le passeggiate e i dialoghi filosofici con qualche soave fanciulla, condotta sull’isola dal “continente” dalla brezza di zefiro o di garbino.