"Fragile impasto di sordidi vizi,
colpevoli debolezze, splendide virtù, l’uomo reca in sé la propria condanna e
la propria salvezza. La sua stessa anima è la gabbia che lo terrà prigioniero
fin quando l’angelo sterminatore verrà a separare l’innocenza dal peccato,
l’umiltà dalla superbia, l’odio dall’amore".
(Luis Buñuel, L’Angelo
Sterminatore).
Ho appena finito di leggere
Autorità e Stato assente di Antonio e, in successione, questo articolo
su l’Espresso in cui Francesco Nicito, agente della questura di Bologna, chiede scusa alla famiglia Cucchi.
Parto subito dal secondo: mi fa
piacere sapere che ci sia ancora qualche poliziotto “umano”, uno che abbia il
coraggio di uscire dal coro, di non fare quadrato intorno ai colleghi che
sbagliano; la fiducia del cittadino medio nel corpo di Polizia è calata
verticalmente dopo Genova, dopo i tafferugli sulla Tav, dopo le manganellate a
studenti, a pensionati, a disoccupati, dopo Aldrovandi, dopo Cucchi, …, devo
dire che ho iniziato a pensare di essere entrato in qualche regime sudamericano
visto che il presente è il terzo governo non eletto dai cittadini, visto che i
precedenti governi sono stati eletti con una legge truffa e visto che la
Polizia interviene a manganellare ferocemente e senza alcun motivo chiunque
manifesti un dissenso verso il governo in carica.
Naturalmente non mi bastano le
scuse dell’agente Nicito, che rappresenta solo se stesso, non mi basterebbero
le scuse dell’intero corpo di Polizia, che mettesse a tacere chi applaude
colleghi assassini, e punisse severamente chi manifesta sotto la finestra
dell’ufficio della madre di una delle vittime; non mi basterebbero le scuse
della magistratura che stabilisce piene lievi quando dovrebbe avere il coraggio
di dare pene esemplari, al limite dell’interpretazione delle leggi vigenti, per
battere il colpo e ribadire che esiste ancora una Giustizia; e forse non
sarebbero sufficienti le scuse dal Ministro dell’Interno in carica, o del
Presidente del Consiglio o del Presidente della Repubblica, a questo punto,
troppi fatti reiterati esigono che cada qualche testa, esigono le dimissioni di
qualcuno, spontanee o forzate che siano.
Ma apprezzo il coraggio di Francesco
Nicito, che spezza il silenzio e l’omertà fra i suoi colleghi e si espone in
prima persona, vorrei che la maggior parte dei poliziotti fossero come lui,
vorrei che oltre a stare attenti che un futuro agente non abbia i denti storti
o il naso aquilino, possieda anche doti di umanità, visto che gli mettiamo in
mano delle armi e che gli diamo il potere di privare un cittadino
temporaneamente della sua libertà e dei suoi diritti.
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Ilaria e Stefano Cucchi |
Antonio scrive bene, con molto
buon senso, fa domande essenziali che nessuno si pone più ormai e vorrebbe
capire e lo fa in parte fidandosi della sua notevole intelligenza, e in parte
facendo ricorso alla psicologia sociale;, anch’io vorrei capire come lui,
capire insieme a lui cosa sta accadendo e perché una politica sempre più debole
e fragile non sa più dialogare con i cittadini, impone le decisioni dall’alto e
sempre dall’alto fa cadere le manganellate della polizia sui dissidenti,
colpevolizzando di fatto il dissenso, screditandolo con l’aiuto di giornalisti
compiacenti che più che fare informazione cercano di creare consenso intorno al
potere processando mediaticamente le vittime.
L’esperimento di Stanley Milgram,
citato da Antonio, cerca di rispondere alla semplice domanda che molti si
posero quando iniziarono i processi ai criminali nazisti macchiatisi di orrendi
crimini contro l’umanità: “ È possibile che Eichmann e i suoi milioni di
complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”, come si
giustificavano, oppure il popolo tedesco era costituito in gran parte da sadici
psicopatici che godevano nel veder soffrire qualcuno e che non vedevano l’ora
di poter sfogare tutta la violenza a stento trattenuta e tutta la loro
aggressività contro l’Europa prima e contro il mondo intero poi?
Ora, che la cornice storica,
ideologica e culturale prevalente fra le popolazioni germaniche (Austria,
Germania, Prussia) fosse una sindrome da accerchiamento con tonalità paranoiche,
che ci fosse l’idea che gli altri stessero cercando di predominare
accaparrandosi il dominio sui mari, le migliori rotte commerciali e le colonie
in Asia, in Africa, in Australia e in Oceania più ricche e più prospere, sono
delle verità storicamente incontrovertibili che hanno innescato ben due guerre
mondiali.
Ma certamente c’era bisogno di un
sogno totalitario (il pangermanismo), di un’idea forte (il Terzo Reich) e di un
uomo forte (Adolf Hitler), illuminato dalla luce del destino, che li avrebbe
resi non soltanto grandi, ma i dominatori assoluti in Europa e, perché no, nel
mondo intero.
Milgram dimostra che basta molto
meno, uno sperimentatore in camice, perché la stragrande maggioranza dei
soggetti dei suoi esperimenti (persone molto comuni di ogni estrazione sociale,
oserei dire ciascuno di noi) somministrasse a dei poveri malcapitati (per
fortuna era un esperimento e i malcapitati soltanto attori) scariche di
corrente anche fino a 450 V, più del doppio di quella erogata dai nostri
interruttori domestici.
In condizioni particolari la
stragrande maggioranza delle persone comuni fa cose che non farebbe mai se
dovesse decidere da sola, a condizione che qualcuno, un capo, un leader, una
persona autorevole, si assuma la responsabilità di ciò che sta accadendo o che
noi in qualche modo possiamo ricondurre a lui questa responsabilità qualora non
se la fosse assunta esplicitamente.
Questo ci spiega ad esempio una
carica di polizia, in cui alcuni giovani non necessariamente violenti (magari i
classici bravi ragazzi) non hanno remore a spaccare il cranio e ad infierire
con i manganelli, con calci e pugni su gente sostanzialmente inerme; per inciso
è ciò che è accaduto nella scuola Diaz di Genova durante il famigerato G8 del
2001.
Ma nel caso di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi non esiste un leader che ordina e degli agenti che
obbediscono, si tratta di un gruppo di persone che agiscono in prima persona assolutamente
sicuri di essere nel giusto e assolutamente sicuri dell’impunità.
C’è un altro esperimento significativo di psicologia sociale che venne effettuato nel 1971, che ci illumina su una questione similare
all’esperimento di Milgram, che venne effettuato nell’Università di Stanford da
Philip Zimbardo.
Nel seminterrato dell'Istituto di
psicologia dell'Università di Stanford, a Palo Alto, fu riprodotto in modo
fedele l'ambiente di un carcere, con tanto di celle munite di sbarre, porte
chiuse a chiave fra un vano e l’altro, e suddivisero i soggetti che aderivano
all’esperimento casualmente nelle categorie delle guardie e dei reclusi,
munendo gli uni e gli altri delle rispettive divise e degli strumenti in uso in
un vero carcere.
In breve tempo si persero del
tutto i contorni della simulazione ed entrambi i gruppi iniziarono a
comportarsi come se si trovassero in un carcere vero, come se fossero davvero
guardie gli uni e reclusi gli altri, con dinamiche molto simili a quelle che si
possono osservare in un vero istituto carcerario; l’esperimento dovette essere
addirittura interrotto perché si verificarono episodi di vera violenza,
tentativi di intimidazione e di umiliazione.
In questo caso nessun altro si
prende la responsabilità delle violenze esercitate, sembra quasi che la
condizione stessa faccia sorgere spontaneamente certi tipi di comportamento in
base alla valutazione di se stessi, degli altri e delle circostanze e dei
rapporti reciproci.
Come si suol dire si incarna il
proprio ruolo o ciò che riteniamo essere il nostro ruolo, secondo ciò che
pensiamo essere le aspettative che le circostanze stesse richiedono, i rinforzi
reciproci fra simili e la valutazione del diverso.
Stefano Cucchi sembra sia stato
sorpreso al momento dell’arresto nell’atto di cedere a qualcuno una bustina
trasparente e di riceverne in cambio una banconota, che ciò sia davvero
avvenuto non importa (e c’è da dubitarne visto che l’accuratezza di quel
verbale di arresto è molto dubbia, ad esempio i militari dell’Arma scrivono
anche di Stefano che è: «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa
dimora», l’ipotesi più accreditata è che avessero fatto confusione con altri arrestati,
questi si albanesi, ma questo dettaglio è costato a Stefano il poter usufruire
degli arresti domiciliari previsti dalla legge, perché essendo stato scambiato
per un extracomunitario, non aveva un domicilio), è importante che fosse
ritenuto vero.
Il possesso di sostanze
stupefacenti, lo scambio di mano e il “nato in Albania” fanno di Stefano Cucchi
immediatamente e per tutti coloro che dal momento dell’arresto in poi hanno a
che fare con lui, nell’ordine: un tossicodipendente, uno spacciatore e un extracomunitario.
A questo si aggiunga che Stefano
al momento dell’arresto pesava 43 kg per 1,73 cm di altezza, questo nonostante
fosse in buona salute e frequentasse assiduamente una palestra veniva tradotto
dalla frangia colta degli inquirenti o di chi lo incontrò in quei fatidici
giorni (magistrati, giudici, avvocati e medici) come “anoressia nervosa” (anche
se non esiste nessuna diagnosi perché non c’è mai stata nessuna visita), e
dalla fascia meno colta (carabinieri, guardie carcerarie, infermieri) come
l’esito di un uso reiterato di sostanze stupefacenti e di una vita dissoluta e
poco rispettosa di sé e dei propri familiari.
Quest’ultima è stata anche
l’interpretazione sbandierata da Carlo Giovanardi, che disse di lui pure che
era sieropositivo, salvo poi smentirsi e chiedere scusa alla famiglia;
ricapitolando abbiamo uno Stefano Cucchi: tossicodipendente, spacciatore,
anoressico, extracomunitario senza fissa dimora e, a posteriori, anche
sieropositivo … non aveva ancora avuto nessun processo, nessuna possibilità di
difendersi, ed era già titolare di ben cinque condanne senza appello, alla
faccia della presunzione di innocenza.
Il fatto della sieropositività
potrebbe sembrare la boutade di Giovanardi, ma purtroppo non lo è, lo stigma di
tossicodipendenza si tira dietro tanti altri pregiudizi, fra cui certamente il
sospetto di sieropositività; me ne accorsi anni fa quando organizzammo presso
la Comunità Terapeutica in cui lavoravo un incontro fra alcune classi di un
liceo privato e i ragazzi residenti in Comunità, lo avevamo preparato per mesi
accuratamente, i ragazzi avevano preparato un rinfresco nelle cucine, ci si
erano messi davvero d’impegno, ma i liceali figli di papà e figli di … mammà
non toccarono praticamente niente dei dolci e delle tartine che stavano sul
buffet, si limitarono a sorbire bibite confezionate in bicchieri di plastica
(evitando quelli di vetro, seppure passati per la lavastoviglie industriale che
sterilizza a 100 gradi).
Ma non si tratta soltanto di
Giovanardi o di qualche liceale figlio di papà con la puzza sotto al naso che
frequenta una scuola di preti che tutto ciò che hanno da insegnarti è l’ipocrisia,
capita più spesso di quanto dovrebbe, purtroppo, che più di qualche medico e di
qualche infermiere del pronto soccorso o del 118, o qualche agente, chiamati a
soccorrere qualche “tossico” in overdose o che aveva subito qualche duro
pestaggio, soprattutto se erano dovuti avventurarsi per il greto di un fiume o
in qualche zona impervia, giunti sul posto reagivano colpendo con calci e pugni
così, senza alcun motivo, come risarcimento di essere stati chiamati per un
tossico e più di qualcuno si è espresso augurando loro la morte visto che la
cercano con tanto accanimento.
Non si tratta soltanto di persone
squilibrate, con evidenti difficoltà a gestire la rabbia, la frustrazione e la
violenza, talvolta i pregiudizi più feroci si insinuano persino nelle persone
in apparenza più tranquille, persino in quelle intelligenti, un mio collega
ricercatore dell’Università di Padova ogni volta che parlavamo di tossici mi
guardava negli occhi ed esclamava: “Io li brucerei tutti!”, poi si faceva
quattro piani a piedi perché aveva il terrore claustrofobico dell’ascensore,
per andare a fumare fuori dal Dipartimento dove lavoravamo, e questo accadeva
parecchie volte in un giorno.
D’altronde è un dato di fatto che
le donazioni e il volontariato, che sono solleciti in molte altre occasioni,
persino per proteggere lo sparviere del Caucaso (qualora esistesse davvero,
perché me lo sono appena inventato), sono praticamente assenti nell’ambito
della tossicodipendenza, perché i “tossici” se la vanno a cercare, mentre gli
altri sono sfortunati.
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Ilaria Cucchi |
Solo in un caso, nel corso della
mia esperienza, un gruppo ha preferito l’etichetta di “tossico” ed è accaduto
quando, fra le altre attività visto che lavoravo in un centro molto grande,
decidemmo di aprire una sede che non aveva scopi terapeutici, ma che si
occupasse di organizzare il fine settimana per i malati mentali della provincia
seguiti dai servizi e dai centri diurni, che il sabato e la domenica venivano
lasciati alle loro famiglie e finivano per passare i loro fine settimana in
strada, o abbrutendosi da soli in qualche centro commerciale o in casa, con una
famiglia che magari avrebbe voluto fare altro.
Quando proposi l’idea di
acquistare dei pulmini per organizzare le gite e fare imprimere sulle fiancate
il logo del centro (dove era specificato che si trattava di pazienti psichiatrici),
si mostrarono tutti nettamente contrari, meglio usare il logo storico in cui si
parlava di tossicodipendenza: meglio tossici che matti, insomma.
E in questo caso si trattava
davvero di scegliere il male minore fra due etichette altrettanto infamanti, di
quelle per cui la gente diventa diffidente appena si accorge che tu rientri in
una delle due; non importa chi tu sia, qual è la tua storia, non importa molto
nemmeno cosa hai fatto, tutta la tua esistenza improvvisamente per qualcuno si
riduce ad una parola: matto, tossico, ma potrebbe anche essere nero, ebreo,
gay, comunista, terrone ….
La filosofia stoica insegna a non
curarsi dell’opinione che gli altri si fanno su di te, e posso anche essere
d’accordo su questo, ho passato una vita intera a fregarmene dell’immagine che
gli altri potessero farsi di me e non inizierò adesso ad interessarmene, è una
cosa che appartiene più a loro che a me.
Ma se gli altri in base a questa
immagine pensano di potermi privare della mia libertà, di pestarmi fino alla
morte (come è successo al povero Stefano Cucchi e a Federico Aldrovandi), o
pensano di poter scaricare le loro scorie industriali e nucleari come accade in
gran parte del Sahel e forse in altre zone dell’Africa o in alcune zone della
Campania, o se pensano di potermi deportare in treni merci piombati, di
precipitare me e la mia famiglia in un incubo, di eliminare quella che pensano
essere la mia “razza”, che invece è solo il mio popolo e la mia cultura, in
un folle olocausto, allora li combatterò
con tutte le mie forze e combatterò anche chiunque tenti di limitare la libertà
e la volontà di chiunque altro, anche se non sono io il bersaglio principale.
Tutte le etichette del mondo
servono dolo a spostare il problema principale, servono solo a condannare la
vittima e non il carnefice, come se dicessero: in fondo se l’è meritato e ciò
servisse a tranquillizzarci la coscienza.
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Ilaria Cucchi |
Il problema fondamentale è che un
giovane uomo di trentuno anni è stato arrestato il 15 ottobre del 2009 e il 22
ottobre era già morto, pieno di lividi, di ecchimosi, molto più denutrito di
quando era entrato e complessivamente in uno stato pietoso.
Non è neanche immaginabile che
questa morte non abbia alcuna spiegazione, che non si riesca a venirne a capo,
a sapere cosa è successo e chi ne è responsabile … perché che qualcuno ne sia
responsabile è fuori discussione.
L’assoluzione anche dei medici
all’ultimo processo è un’assurdità, così come lo è stata l’esclusione della
responsabilità degli agenti di custodia (o dei carabinieri che effettuarono l’arresto);
un’assoluzione che dica sostanzialmente: sappiamo che qualcuno l’ha ucciso, ma
non possiamo provare con certezza che siano stati gli imputati, è un’assurdità.
Chiunque abbia fatto delle
guardie, in ambito militare o in ambito medico sa perfettamente come funziona,
chi da il cambio alla guardia smontante si legge le consegne, e prende in
custodia tutto ciò su cui dovrà vigilare, accertandosi che esista e sia in
buono stato , e questo sia che si tratti di oggetti e, a maggior ragione,
quando si tratta di persone.
Se io trovo Stefano Cucchi pieno
di ematomi, chiederò al collega smontante cosa è successo, mi accerterò se
serve un intervento medico, in ogni caso questa cosa verrà denunciata (un
medico ha l’obbligo di denuncia in caso sospetti lesioni volontarie, anche
quando non è in grado di stabilire se si è trattato di incidente o di violenza)
… è una cosa aberrante, semplicemente inumana che un giovane sia stato fatto
morire per percosse e per denutrizione in camera di sicurezza prima e in un
ospedale poi.
Se non si dovessero trovare i
colpevoli veri di questo omicidio allora dovremmo rivedere fin dalle fondamenta
come stanno funzionando le forze dell’ordine in questo Paese, ancora obbedienti
al potente in carica, ma già talmente autonomi e slegati da una politica tutto
sommato debole, che ha bisogno di loro, ma loro cominciano a sentire di avere
sempre meno bisogno della politica da essere di fatto un potere nel potere, che
gode di impunità e di un margine di
nessuno si azzarda più a mettere in discussione.
Dovremmo rivedere come funziona
la sanità, certa sanità, più dedita agli affari che alla cura, dotata ormai di
diversi strati di cinismo da perdere di vista che curi persone non malattie,
che entri in contatto con la sofferenza delle persone non col loro conto in
banca e che gode ormai di privilegi baronali e di rendite da posto acquisito,
sfruttando il dolore e a paura della morte.
E bisognerebbe mettere in
discussione una magistratura pilatesca che di fronte alla scelta se andare a
fondo fino alle responsabilità di politici, di forze dell’ordine, di burocrati,
di colletti bianchi, di speculatori, ci va sempre col guanto di velluto,
decretando pene ridicole quando non può farne a meno e assoluzioni per mancanza
di prove se la vittima è un povero diavolo che artatamente può essere fatto
passare da vittima a colpevole: come sta succedendo con Federico Aldrovandi e
con Stefano Cucchi (il meccanismo di stigmatizzazione sembra sovrapponibile).