domenica 26 luglio 2020

L'ELEGANZA DEL RICCIO










«”Il mare, il mare di Sicilia è il più colorito, il più aromatico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non riuscirete a guastare, fuori delle città, s’intende. Nelle trattorie a mare si servono ancora i ‘rizzi’ spinosi spaccati a metà?”. “Lo rassicurai aggiungendo però che pochi li mangiano adesso, per timore del tifo. “Eppure sono la più bella cosa che avete laggiù, quelle cartilagini sanguigne quei simulacri di organi femminili, profumati di sale e di alghe. Che tifo e tifo! Saranno pericolosi come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all’immortalità. A Siracusa li ho perentoriamente richiesti a Orsi [Paolo Orsi, Rovereto 1859- Rovereto 1935, grande archeologo e classicista, diresse il museo archeologico di Siracusa, che sarà successivamente dedicato a lui, dal 1895 al 1934, e le campagne di scavi in Sicilia orientale. Fu dietro un suo suggerimento che il conte Gargallo incaricò il grecista Ettore Romagnoli di dar vita alle rappresentazioni classiche nel teatro greco di Siracusa nel 1913]. Che sapore, che aspetto divino! Il più bel ricordo dei miei ultimi cinquanta anni!”».
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1961, La sirena, ne I racconti, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 128).

Charm Isola Bella Gioielli D-Javù – Riccio di Mare




Andrea Camilleri a Porto Empedocle qualche anno fa



«Quando, in salotto, la buona signora Carmagnola entrò portando il vassoio con i ricci, i limoni e il resto, il senatore rimase estatico. “Come? Hai pensato a questo? Come fai a sapere che sono la cosa che desidero di più?”. “Può mangiarli sicuro, senatore, ancora stamani erano nel mare della Riviera”. “Già, già, voialtri siete sempre gli stessi, con le vostre servitù di decadenza, di putrescibilità; sempre con le lunghe orecchie intese a spiare lo strascichio dei passi della Morte. Poveri diavoli! Grazie, Corbera, sei stato un buon ‘famulus’. Peccato che non siano del mare di laggiù, questi ricci, che non siano avvolti nelle nostre alghe; i loro aculei non hanno certo fatto versare un sangue divino. Certo hai fatto quanto era possibile, ma questi sono ricci quasi boreali, che sonnecchiavano sulle fredde scogliere di Nervi o di Arenzano.

Si vedeva che era uno di quei siciliani per i quali la Riviera Ligure, regione tropicale per i milanesi, è invece una specie d’Islanda. I ricci, spaccati, mostravano le loro carni ferite, sanguigne, stranamente compartimentate [La raffigurazione compartimentata, granulosa, di colore arancio, o a bulino reticolato delle incisioni degli organi femminili, è a volte presente in alcune rappresentazioni sessuali di nudi prodotte nella cerchia del Cranach. Nota a margine di Gioacchino Lanza Tomasi, musicologo amico e lontano cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa]. Non vi avevo mai badato prima di adesso, ma dopo i bizzarri paragoni del senatore, essi mi sembravano davvero una sezione fatta in chissà quali delicati organi femminili. Li degustava con avidità ma senza allegria, raccolto, quasi compunto. Non volle strizzarvi sopra il limone. “Voialtri, sempre con i vostri sapori accoppiati! Il riccio deve sapere anche di limone, lo zucchero anche di cioccolata, l’amore anche di paradiso!”. Quando ebbe finito bevve un sorso di vino, chiuse gli occhi. Dopo un po’ mi avvidi che da sotto le palpebre avvizzite gli scivolarono due lagrime. Si alzò, si avvicinò alla finestra, si asciugò guardingo gli occhi. Poi s volse: “Sei stato mai ad Augusta, tu, Corbera?”. Vi ero stato tre mesi da recluta: durante le ore di libera uscita in due o tre ore si prendeva una barca e si andava in giro nelle acque trasparenti dei golfi. Dopo la mia risposta tacque; poi con voce irritata: “E in quel golfetto interno, più in su di Punta Izzo, dietro la collina che sovrasta le saline, voi cappelloni siate mai andati?”. “Certo; è il più bel posto della Sicilia, per fortuna non ancora scoperto dai dopolavoristi. La costa è selvaggia, è vero senatore? Completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l’Etna: da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino. È uno dei luoghi nei quali si vede un aspetto eterno di quell’isola che tanto scioccamente ha volto le spalle alla sua vocazione che era quella di servir da pascolo per gli armenti del Sole”. Il senatore taceva. Poi: “Sei un buon ragazzo, Corbera, se non fossi tanto ignorante si sarebbe potuto fare qualcosa di te”. Si avvicinò, mi baciò in fronte. “Adesso vai a prendere il tuo macinino. Voglio andare a casa”».
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1961, La sirena, ne I racconti, Feltrinelli, Milano, 2017, pp. 134-136).


Andrea Camilleri

Ristorante Scjabica, Punta secca, Santa Croce Camerina, Ragusa, chef  Joseph Micieli 



Ristorante Arbor-Vitae Otranto


«… a dir il vero, il sole, la solitudine, le notti passate sotto il roteare delle stelle, il silenzio, lo scarso nutrimento, lo studio di argomenti remoti, tessevano intorno a me come una incantazione che mi predisponeva al prodigio. Questo venne a compiersi la mattina del cinque Agosto alle sei. Mi ero svegliato da poco ed ero subito salito in barca; pochi colpi di remo mi avevano allontanato dai ciottoli della spiaggia e mi ero fermato sotto un roccione la cui ombra mi avrebbe protetto dal sole che già saliva, gonfio di bella furia, e mutava in oro e in azzurro il candore del mare aurorale. Declamavo, quando sentii un brusco abbassamento dell’orlo della barca, a destra [un vero marinaio non avrebbe mai detto “a destra”, ma “tribordo”], dietro di me, come se qualcheduno vi si fosse aggrappato per salire. Mi voltai e la vidi: il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere dentini aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono fra voialtri, sempre imbastarditi da un’espressione accessoria di benevolenza o d’ironia, di pietà, crudeltà o quel che sia; esso esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia. Questo sorriso fu il primo dei sortilegi che agisse su di me rivelandomi paradisi di dimenticate serenità. Dai disordinati capelli color di sole l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti d’infantile purezza.
“La nostra ombrosa ragione, per quanto predisposta, s’inalbera dinanzi al prodigio e quando ne avverte uno cerca di appoggiarsi al ricordo di fenomeni banali; come chiunque altro volli credere di aver incontrato una bagnante e, rimuovendomi con precauzione, mi portai all’altezza di lei, mi curvai, le tesi le mani per farla salire. Ma essa, con stupefacente vigoria emerse diritta dall’acqua sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare in barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che batteva lenta il fondo della barca. Era una Sirena. “Riversa poggiava la testa sulle mani incrociate, mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto; da lei saliva quel che ho mal chiamato profumo, un odore magico di mare, di voluttà giovanissima. Eravamo in ombra ma a venti metri da noi la marina si abbandonava al sole e fremeva di piacere. La mia nudità quasi totale nascondeva male la propria emozione.
“Parlava e così fui sommerso, dopo quello del sorriso e dell’odore, dal terzo maggiore sortilegio, quello della voce. Essa era un po’ gutturale, velata, risuonante di armonici innumerevoli; come sfondo alle parole in essa si avvertivano le risacche impigrite dei mari estivi, il fruscio delle ultime spume sulle spiagge, il passaggio dei venti sulle onde lunari. Il canto delle Sirene, Corbera, non esiste: la musica cui non si sfugge è quella sola della loro voce.
“Parlava greco e stentavo molto a capirlo: ‘Ti sentivo parlare da solo una lingua simile alla mia: mi piaci, prendimi. Sono Lighea, sono figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi, non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto’. “Curvo su di essa, remavo, fissando gli occhi ridenti. Giungemmo a riva: presi fra le mie braccia il corpo aromatico, passammo dallo sfolgorio all’ombra densa; lei m’istillava già nella bocca quella voluttà che sta ai vostri baci terrestri come il vino all’acqua sciapa”».
 (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1961, La sirena, ne I racconti, Feltrinelli, Milano, 2017, pp. 140-141).

Ristorante Dammuso, Noto, chef 'Ntina Baglieri



Punta Izzo, Augusta, Siracusa

Tutte queste illustrazioni sono di Victor Nizovtsev 

Osteria Terra Masci, Castrignano, Santa Maria di Leuca (LE).



«”Tu sei bello e giovane, dovresti seguirmi adesso nel mare e scamperesti ai dolori, alla vecchiaia; verresti nella mia dimora, sotto gli altissimi monti di acque immote e oscure, dove tutto è silenziosa quiete tanto connaturata che chi la possiede non la avverte neppure. Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi. Io sarò sempre li, perché sono ovunque, e il tuo sogno di sonno sarà realizzato”».
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1961, La sirena, ne I racconti, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 144).





Ristorante Scjabica, Punta secca, Santa Croce Camerina, Ragusa, chef  Joseph Micieli  (second time)






“Quid sirenes cantare sint solitae?” (“Cosa cantano solitamente le sirene?”), chiedeva ossessivamente l'imperatore Tiberio a chiunque incrociasse nelle ore del crepuscolo, quando lo assaliva il terrore, temendo che questi esseri mitologici facessero sentire a chiunque il loro canto, eccetto che a lui.  (Svetonio, Vite dei Cesari, Tiberio. III. 70).


Marina di Ragusa, sul mare ... ma non ricordo dove


Gagini Social restaurant "Estate", Pantelleria, chef Diego Battaglia




“Lighea Emergendo da tenebre luminescenti, da fondali animati da creature favolose, le donne-sirena chiamano e si chiamano l’un l’altra. L’antica Lighea, eterna adolescente, regina dei ricci, si mostra in un mare notturno, dall’onda pesante, silenziosa. Opere visionarie tra mitologia e sogno: come se ogni quadro contenesse la profondità del mare, da cui vengono a superficie forme e vividi colori”.
(Francesco Orlando (1934-2010), L’intimità e la storia. Lettura del Gattopardo del 1998).



Ristorante Mondo e Luca, Cagliari



Ristorante da Vittorio, Porto Palo di Menfi, Agrigento.


«Il racconto è “Lighea”, narra dell’amore di un uomo e una sirena. Le parole del principe riecheggiavano nell’antico palazzo, la tenda del balcone svelava, a tratti, il giardino e il golfo di Palermo. Le navi alla fonda. Dunque la Sicilia è questa: un canto nella solitudine».
(Salvatore Sciarrino, compositore, Cultura, 13 settembre 2016).



Ristorante Il Riccio, del Capri Palace Hotel. 

La Sirena (Abisso verde), Giulio Aristide Sartorio, 1893.

Ristorante Scjabica, Punta Secca, Santa Croce Camerina,, Ragusa, verrigni ai ricci di mare, chef Joseph Micieli (third time). 



“Io son”, cantava, “io son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!”
(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XIX, 19-21).





Trattoria I Rizzari, Brucoli, Augusta (SR).

Stella di mare, romanzo grafico di Giulio Macaione.


«Sono gli occhi a sfrecciare per primi sul cuore. Puntano dritti al centro. Svolazzano sull' anima e poi si posano lì, in mezzo al petto, dove nascono i sogni. Occhi di donna, sguardi di sirena. Che sbranano la carne ai pensieri e si adagiano quieti come un guerriero stanco ai piedi delle emozioni».

(Giacomo Pilati, Minchia di re, Mursia, Milano, 2004).


Max Klinger, Tritone e Nereide, 1895, Villa Romana, Firenze.







”«Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei,
ferma la nave e ascolta il nostro canto.
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nera nave,
se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce;
poi pieno di gloria riparte, e conoscendo più cose.
Noi tutto sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia
Argivi e Teucri patirono per volere dei numi;
tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice»”.
(Omero, Odissea, Canto XII).








“In quale scuola fatata d’aprile
ci si chiede il colore, il colorito
delle gote e del crine, ci si chiede
se ha pensieri e quali amori il tonno,
il pescespada, il delfino, se a sera
la sirena nel suo sonno annusano.

Dove sono quei dolci flauti in gola,
quel gorgheggiare a colpi di coda?
Dove sono quelle voci, quei rauchi
motivi alla moda, quell’implorare
per acuti, in solitudine e fede?
Dove galleggiano squame, su quale
spiaggia s’interrogano le scaglie,
il pettine, i capelli, quelle brame?

Ora inermi, umane, mortali
l’altomare veleggiano sui tacchi
in una camera, sole o a schiere,
fiutano alle imposte la salsedine
delle quaglie migrate a pelo d’acqua.

Ora esistono in una conchiglia
souvenir le tempeste, i maremoti
che nella pece lievitano estivi
dove sono eterne le schiume, quelle nevi,
sotto pennacchi di fumo, vulcani.

Ora dice un lunario i giorni, i mesi,
quando i venti di scirocco e grecale
spirano fatalità su terraferma
per eventi d’infamia e d’onore
mutano destino, pettinatura.

Ora si legge sul giornale quando
scendono oggi semidei in terra
recando sul solino la Polare,
sulle spalle quel blu dell’oltremare.
Allora bruciano navi alla fonda,
una guerra finita ricomincia
e di passaggi sullo Stretto, a vita,
rimane un fazzoletto fra le dita.

Ora remigano da boa a boa, quelle,
accennano con lunghe ciglia al mondo,
persino un uomo le tocca con mano.
Di quelle polene s’indora la prua,
della loro bocca udita in famiglia
catturata con sapore di sale.

Oggi si segnano ignote, sicure
stelle azzurre nei tatuaggi fedeli,
Venere fra le mammelle si additano”.

(Stefano D'Arrigo, Codice siciliano, Scheiwiller 1957, e poi, ampliato, Mondadori 1978, infine Mesogea 2015).









«Tornò al corso, che si chiamava via Roma, e subito vitti un’insegna sulla quale stava scritto ” Trattoria San Calogero“. Raccomandandosi al Signuruzzu, trasì. Tutti i tavoli erano vacanti, di certo non era l’orario giusto, troppo presto. ”Si può mangiari?” spiò a un cammareri coi capelli bianchi che, sentendolo trasire, era nisciuto dalla cucina e lo taliava. “Non c’è bisognu di pirmissu” arrispunnì asciutto l’altro. S’assittò arraggiato con se stesso per la domanda cretina. “Abbiamo antipasto di mare, spaghetti al nivuro di siccia, o alle vongole o ai ricci di mare”. “Gli spaghetti ai ricci di mare bisogna saperli fare” fece dubbitativo Montalbano. “La laurea in ricci di mare mi pigliai” fece il cammareri. Montalbano avrebbe voluto mangiarisi la lingua a muzzicuna. Dù a zero. Dù frasi ‘mbecilli so’ e dù risposte intelligenti. ” E per secondo?”. “Pisci”. “Che tipo di pisci ?”. “Quello che vuole lei “. ” E com’è cucinato?”. ”A secundo del pisci che sceglie”. Meglio cucirisi la vucca. “Mi porti quello che vuole”. Capì d’aver pigliato la decisione giusta . Quanno niscì dalla trattoria s’era mangiato tre antipasti, un piatto di spaghetti ai ricci di mare bastevoli per quattro pirsone e sei triglie di scoglio fritte al millimetro, eppure si sentiva lèggio lèggio, pervaso da un benessere tale da stampargli un sorriso ebete sulla faccia. Si fece assolutamente pirsuaso che, una volta a Vigata, quello sarebbe stato il suo ristorante d’elezione».
(Andrea Camilleri, La prima indagine di Montalbano, Mondadori, Milano, 2004, pp. 117-118).






Giovanni Guarnieri, chef e proprietario del Ristorante Don Camillo, Ortigia, Siracusa

Spaghetti delle sirene, Ristorante Don Camillo, Ortigia Siracusa

Camillo Guarneri non è (o meglio non era) un liutaio cremonese, era un signore che di mestiere faceva il cuoco, si esattamente, il cuoco, prima che diventasse di moda dirsi chef e che la posizione e l’eleganza di un locale venisse detta “location”, che era partito parecchi decenni fa dalla natia Palermo per approdare a Siracusa.
Giuseppe Savà, giornalista di Ragusanews, ci dice, sempre che riusciate a leggere fra la pubblicità che con una certa insistenza vi copre il testo, che lavorò “al ristorante dei fratelli Bandiera per poi aprire un proprio locale in Ortigia”; in realtà Attilio ed Emilio Bandiera erano troppo occupati a sollevare le popolazioni calabresi contro il regno di Ferdinando II, per istruire il giovane Camillo nell’arte culinaria, è più probabile che avesse lavorato presso le Sorelle Bandiera, locale storico e famoso ad Ortigia in prossimità del mercato, non gestito però dal trio comico lanciato da Renzo Arbore in L’altra domenica.
Camillo Guarneri a Siracusa fece fortuna, tanto da aprire, pochi anni dopo il suo arrivo nella città aretusea, un locale proprio, il Don Camillo, in via delle Maestranze, una delle più belle vie d’Ortigia, la zona più caratteristica e storica della città, che dalla Fontana di Artemide giunge fino al lungomare di levante.
Fu lui stesso, don Camillo in persona, ormai molti anni fa, a raccontarmi come andò; fa parte della squisita ospitalità del locale e dei suoi gestori (il padre Camillo e il figlio Giovanni) avere premura di informarsi direttamente dai clienti se hanno gradito i piatti, e scambiare qualche altra parola, con clienti che trovavano particolarmente simpatici e compatibilmente con le esigenze di sala e cucina, si lasciavano andare ad alcune confidenze.
Io fui fra questi fortunati, insieme ad altri miei commensali ed amici, di fronte alle naturali curiosità riguardo a quel piatto paradisiaco che è nel loro menù da 34 anni, ci raccontò come nacque; nel 1986 dopo il divieto di raccolta, di vendita e di consumo del dattero bianco di mare (lithophaga lithophaga e del pholas dactylus), un pescatore improvvisato di frutti di mare, che vendeva ai ristoranti e ai privati per arrotondare i suoi magri guadagni era sull’orlo della disperazione e aveva pescato solo un cesto di ricci di cui non era proibita la raccolta, ma che di certo erano meno pregiati dei datteri.
In realtà ora so che don Camillo equivocava, il primo divieto sui datteri di mare risale al 1965 ribadito e modificato nel 1988, a cui si aggiunse il decreto ministeriale del 1998, seguito dal Regolamento Europeo (CE) 1967/2006 secondo il quale la detenzione, il commercio e la pesca sono vietati in tutti gli stati dell'Unione europea ai sensi dell'art. 8, di conseguenza la data almeno del 1986 che fissa il suo racconto diventa dubbia, perché in quell’anno non fu varata nessuna misura di rilievo riguardo alla pesca in mare di mitili e molluschi.
E anche questo è sfuggito al giornalista Giuseppe Savà, oltre ai “fratelli bandiera”, che però non sfuggirono alla gendarmeria borbonica; io sarei stato più accurato nel verificare le fonti, fin dove è possibile, ma nonostante ciò e, forse proprio per questo, credo che gli stessi giornali che magari mi avevano assunto perché favorevolmente colpiti dalla prima impressione, avrebbero fatto a gara a licenziarmi dopo aver letto i miei primi articoli.
Il dattero di mare poteva essere consumato crudo, con un po’ di limone, ma erano squisiti, a detta di chi li ha assaggiati, con gli spaghetti, per questo motivo persino i ristoranti di lusso (anzi, soprattutto loro che potevano attrarre una clientela facoltosa e di un certo livello e frotte di turisti che avrebbero pagato qualsiasi cifra per un piatto che non avrebbero più ritrovato sotto il grigio cielo della città nordica in cui risiedevano), si accaparravano i frutti della pesca di alcuni baldi giovanotti che, armati di un solo coltello, si tuffavano nelle scogliere del mare adiacente per staccare questi  molluschi dagli scogli.
I ricci no, non furono proibiti, nonostante si raccogliessero nello stesso modo, staccandoli cioè con un coltello appuntito dagli scogli a cui erano aggrappati, causando non poco danno nell’ecosistema marino, li raccoglievano lo stesso e li portavano nelle osterie popolari o si improvvisavano venditori all’incanto per qualche turista o curioso gourmet di passaggio, per cui aprivano il carapace con le forbici, lo ripulivano all’interno delle spine e lo servivano in un piatto col succo di un limone, più un rituale apotropaico contro il tifo che un’esigenza di esaltarne il gusto al palato.
In ogni caso i ricci, come le cozze, venivano pagate ai pescatori una bagattella, mentre il dattero di mare era molto più pregiato, insieme ai murici e ai polpi di scoglio, con questi ultimi, rivenduti in pescheria così freschi che ancora si muovevano, mi ci sono ripagato, trent’anni fa, l’intera attrezzatura (muta estiva, pinne, mascherina, pallone, coltello, retina, ecc.).  
Per farla breve, fu per consolare un po’ quel pescatore che forniva loro prodotti prelibati freschissimi e di prima qualità, e anche un po’ per pietà, che gli comprarono quel cesto di ricci, prodotti da osteria piuttosto o da instant fast food, non certo da ristorante di un certo livello, molto rinomato a livello locale e che iniziava a farsi un nome pure nelle guide turistiche.
Ma che potevano farci con un cesto di ricci? Proporli così alla clientela sarebbe sembrato un sacrilegio e si sarebbero fatti ridere dietro da tutti i loro colleghi ristoratori se la cosa si fosse risaputa, non parliamo poi se fossero finiti sul giornale, perché la notizia era allora piuttosto curiosa, era come fare le arancine, un sacrilegio appunto; negli anni ottanta era netta la distinzione fra osterie, tavola calda (la gastronomia era al di là da venire ed è di fatto una nobilitazione della vecchia tavola calda che faceva pizzette, arancine, sfincioni, panini, ecc.) e ristorante.
Non rimaneva che inventare, ma inventare cosa, e come? Un ristorante all’epoca faceva antipasti, primi e secondi piatti e il dessert, dove potevano inserire i ricci senza che sembrassero una forzatura, sebbene non avrebbero potuto nasconderne la novità.
Non certo negli antipasti, che a quell’epoca, rispetto ad oggi erano un po’ ingessati e scontati, si proponeva l’insalata di mare tiepida, il famoso cocktail di gamberi che adesso è scomparso dai menù o presente in rivisitazioni improbabili che ne certificano vieppiù la morte e il funerale, il polpo col la cipolla cotto nel vino, le seppioline ripiene, i moscardini, le sardine grigliate o in “saor”, baccalà, dentice o spigola mantecati e spalmati sui crostini, pesce marinato o anonimi salmoni, pesce spada o tonni affumicati.
Tutta roba cotta in qualche modo, seppure con cotture delicate e non aggressive, in un momento in cui l’abbattitore termico era in là da venire (mentre adesso lo possiedono anche alcuni privati), quasi nessuno si arrischiava a proporre pesce crudo, per timore di veicolare pericolose malattie e la pubblicità negativa del proprio locale chiuso per aver diffuso la salmonella ai propri clienti.
Qualsiasi tipo di cottura avrebbe alterato il sapore del riccio fino alla rovina, bisognava che il riccio assaggiasse il fuoco appena appena, quando questo non morde, a fiamma spenta, così a don Camillo e al figlio Giovanni, che già gli dava un valido aiuto in cucina, venne in mente di proporre un piatto di pasta con i ricci.
Sulla scelta del tipo di pasta non si discute, al sud prevalgono di gran lunga le paste lunghe e gli spaghetti sono i re della tavola, fecero un sugo con i gamberi senza pomodoro, come se volessero proporre banalmente gli spaghetti con questi crostacei poi, a fuoco spento aggiunsero metà della polpa dei ricci, mentre l’altra metà viene versata sopra a guarnizione e rifinitura estetica, senza tanti altri fronzoli (basilico, menta, nepetella, origano verde, ecc.).
Il piatto fu chiamato “spaghetti delle sirene” e i due Guarneri, padre e figlio, si dicono certi di essere stati i primi a proporre l’uso dei ricci con la pasta, in tempi in cui nessun altro avrebbe osato farlo, per cui ritengono di meritare i dovuti riconoscimenti di primogenitura.
Il signor Giovanni ha ribadito questo loro primato anche in un articolo recente, egli dice, dopo aver effettuato le dovute verifiche, che: “Ho cercato prove, documenti, testimonianze in grado di confutare questa cosa: ma ad oggi posso affermare senza tema di smentita che la pasta coi ricci la inventammo io e mio papà, per sbaglio, e per caso, quella sera”.
Io ero scettico su questo primato già allora, quando lo sentivo dalla viva voce di don Camillo, so bene quanto noi siciliani amiamo vantarci delle nostre prodezze, sia di quelle che abbiamo realmente fatto sia di quelle che avremmo solo potuto fare, e quanto la verità sia come l’acqua che prende la forma di ogni suo contenitore e preferisce le vie più semplici e scorrevoli a quelle più ardite e controcorrente, mi pare semplicemente impossibile che un’idea così semplice, in un Paese con 7914 km di coste, col riccio di mare che prolifera dappertutto, a nessuno sia mai venuto al mondo di associare la pasta ai ricci, seppure per necessità se non per creatività.
Liguri, toscani, laziali, campani, lucani, calabresi, siciliani, pugliesi, molisani, abruzzesi, marchigiani, veneti e friulani abbiano preferito mangiare pane con cipolle di Tropea o con olive taggiasche o polenta e osei scampai, invece di condire la pasta con i ricci che una volta brulicavano sulle nostre coste insieme alle cozze che vedevi intere colonie dell’uno e dell’altro, molluschi ed echinoidei, già dalla riva e in acque in cui “toccava” anche un ragazzo.
Inoltre, nella ricostruzione ci sono alcune imprecisioni e un vago senso favolistico ed edulcorante (inteso in senso metaforico), per potercene fidare ciecamente e credere senza alcun dubbio a questo primato e a questa annessione unilaterale di merito; d’altra parte, però, in una mia superficiale ricerca non ho trovato smentite o altre persone che rivendicassero lo stesso merito.

Dunque, fino a prova contraria, Camillo (don) e Giovanni Guarneri hanno inventato gli spaghetti ai ricci di mare nel lontano 1986 (come sostengono e, per ciò che ne sappiamo, sono stati i primi e mantengono tuttora una qualità culinaria notevolissima, tanto da essere meta di turisti (ma io li chiamerei meglio “pellegrini”) del gusto non soltanto per la fama che si sono fatti, ma anche perché la squisitezza del loro piatto può essere stata eguagliata, ma non superata, sebbene quell’insistere con l’accoppiamento con i gamberi io lo trovi oggi ridondante e fuori luogo frutto, forse, allora del mancato coraggio di presentare ricci di mare e basta, novità assoluta che potevano sperare ma non prevedere che sarebbe stata accolta così favorevolmente.     



Lighea



A Palermo ... ma non ricordo dove.



Bevo un calice di questo nettare, Perla Marina, l’ultimo nato (2016) nel Feudo Ramaddini di Marzamemi , uno spumante brut ottenuto da uve moscato bianco vinificate secondo il metodo Charmat (lo stesso procedimento usato per produrre il prosecco), che a parere di alcuni produce vini leggeri di straordinaria freschezza e che esaltano meglio i profumi primari che può sviluppare il vitigno.
Colore giallo-paglierino brillante con sfumature verdi. L’olfatto è intriso di salvia, di pesca e di sentori di zagara, al palato prevalgono i gusti fruttati, con un gradevole residuo zuccherino e una sensazione di briosa freschezza, perlage fine e persistente.
Ideale per accompagnare forti amicizie o amori non impegnativi … ah, sta bene pure con i ricci … e con le sirene ...
Ma non lo bevo da solo, ho sempre un altro calice accanto a me per chiunque voglia gradire e condividere questo momento di nostalgia per niente triste anzi, quasi gioiosa.






9 commenti:

  1. Buono il bianco "Donna Fugata"! Bevuto con tutte le leccornie che ci hai mostrato, come gli altri vini, fa sempre la sua bella figura in tavola. Ma molto bello è far scorrere il post guardando e lasciando arrivare i pensieri. Il senso della vicinanza del mare e le foto di Camilleri, oltre al tuo scritto, fanno molto pensare alla Sicilia ma penso anche alle zone dove sono adesso in Liguria, dove di ricci in mare ne vedo sempre tanti.

    Ma questo post mi ha fatto anche molto pensare all'estate, a questa strana estate che stiamo vivendo almeno qui in Liguria con blocchi e lavori in autostrada senza fine (ma forse si tratterà ancora di qualche giorno) pochi turisti stranieri in giro (qualche tedesco insieme a francesi, olandesi, svizzeri e alcuni dal Belgio) e tanti italiani, anzi la maggioranza.

    Ottima musica, gran bella scelta con Dave Brubeck
    Un salutone e buona estate

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    1. Il riccio ha il sapore del mare e dell’estate, di una stagione che trasfigura e trascolora la nostra abituale esistenza; solo in estate alcune cose possono capitare e l’impensabile diventare reale, solo in questa stagione può succedere di incontrare una sirena, mentre declami versi in greco antico, e lei ti risponde in quella stessa lingua.
      Solo Tomasi di Lampedusa può scrivere questa scena facendoci sognare, solo Stefano D’Arrigo poteva pensare i meravigliosi versi, più in basso, del Codice siciliano e solo Camilleri può farci sorridere inventando di sana pianta un giovane commissario di polizia che si butta a capofitto senza esitazione nelle azioni più rischiose, mentre per entrare in un ristorante per la prima volta si raccomanda al “Signuruzzu”.
      In Liguria, se ben ricordo, dovreste essere abituati ai blocchi, alle code e ai lavori in autostrada, già negli anni ottanta ci svegliavamo alle cinque del mattino per andare al mare, ed era un problema non da poco trovare un parcheggio; ma forse adesso è anche peggio di allora …
      Ho postato due versioni di Take Five, dello straordinario Dave Brubeck, una dal vivo, fresca come un riccio di mare e spumeggiante come una sirena, l’altra registrata in studio, con un’esecuzione che mi pare quasi perfetta, per coloro che hanno l’orecchio più raffinato.
      Auguro una buona estate anche a te, ciao.

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    2. Beh, in questo ultimo periodo stanno finalmente mettendo a posto alcune delle gallerie autostradali. Hanno iniziato a levante, dalle mie parti, e stanno finendo il ponente. Con una marea di disagi. Domani riaprono il ponte Morandi...
      Un salutone

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  2. Grazie per questo aromatico viatico per la mia vacanza siciliana.

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    1. Ti auguro una buona vacanza, allora, aromatica e non solo … se non hai pregiudizi e sei curiosa la Sicilia saprà stupirti.
      Io finora ho fatto solo un lungo fine settimana a Vipiteno, per avere una breve tregua dal caldo, ma le ferie le farò più in là: non so ancora quando né dove, certamente a Sud … ho voglia di mare, come si può arguire da questo post.
      Ciao

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  3. È un post pieno di sapori, dopo averlo letto e guardato ne esci sazio ma leggiu leggiu 😊 ti saluto dal treno che mi porta a casa dove i Rizzi li ho conosciuti da bambino.

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    1. Molto bella la similitudine fra l’esperienza gastronomica di Montalbano e la tua lettura di questo post, mi fa piacere il fatto che, nonostante le pietanze in tavola siano tante e, si spera, buone, entrambi ne usciate “leggi leggi” :-)
      Ciao e buone vacanze

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  4. Non sono un'esperta di vini, ma dalla descrizione deduco che deve essere proprio delizioso questo Perla Marina.
    Perchè non sorseggiarne un goccio? Ce l'hai ancora quel calice vuoto accanto al tuo? Si, lo so, non credo sia l'ora giusta, non sono neanche una forte amicizia, ma che importa, due persone che non si conoscono non possono sorseggiare insieme un vino così speciale? Cin Cin Garbo! Alla tua! Alla nostra!
    Ah, se hai anche una forchetta, non disdegno un'assaggino anche di quei spaghettini ai ricci di mare. E vabbè, sono lì, come faccio a non assaggiarli, uffa!
    Post STUPENDO. E poi, i ricci con me sono di famiglia. No quelli di mare. I capelli. ^_^
    Bello Bello Bello questo post. Si.
    Bevuto ho bevuto. Mangiato ho mangiato. Adesso posso andare a nanna.
    Notte Garbo.

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    1. Nemmeno io sono un esperto di vini, ma in questo caso non serve essere esperti per accorgersi che è delizioso, sono sicuro che ti farà dimenticare per un po’ il tuo Astoria, nonostante anche questo sia gradevole al palato ed abbia la bottiglia fighetta.
      Ok, scartiamo la forte amicizia, gli amori non impegnativi poi non ne parliamo proprio, gli amori sono tutti “impegnativi”, e chi ama lo sa benissimo, ti rimangono i ricci o la sirena, le altre due categorie con cui questo vino si sposa bene.
      Non ho mai provato a fare gli spaghetti ai ricci, perché qui in Veneto mi manca la materia prima per comporre il piatto, mi dico sempre, eppure so che non è così, perché anche in Sicilia dove in estate trovo i ricci in ogni angolo di via, ancora vivi, oppure posso pescarli personalmente, non mi è mai venuto in mente di farli, eppure sono piuttosto bravo a cucinare i primi “marinari”, persino gli spaghetti alla “busara”.
      Per questo quando posso vado a mangiarli in qualche localino, naturalmente nella mia Sicilia (o in tutto il sud in genere), perché al nord li troverei, forse, a Milano, ma dubito che a Bologna mettano un piatto simile in menù, e se lo facessero, molto probabilmente si tratterebbe di polpa di riccio conservata nel vasetto, e non fresca come dovrebbe essere.
      Ben volentieri ti concedo l’assaggio di questi spaghetti, intercettati nel mio girovagare per la Penisola, che meritano tutti una lode e il fatto stesso di menzionarli e mostrarli; e, poi, non vorrai mica bere a digiuno, e a quest’ora di notte … :-)
      Meno male che hai precisato, da com’eri partita ti credevo discendente di una famiglia di “rizzari” (pescatori di ricci) ... per “ricci” intendevi i capelli, e anche quelli come vedi in questo post sono presenti e graditi da queste parti
      Grazie per i tuoi complimenti sperticati, fa piacere essere apprezzato di tanto in tanto
      Ti auguro una buona estate, fresca come una bolla di cartizze nel suo cestello.

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