venerdì 28 febbraio 2020

... E MI SOVVIEN L'ETERNO 3













“- Amate i bambini?
- Si – rispose Kirillov, con un tono, del resto, abbastanza indifferente.
- Sicché amate anche la vita?
- Si, amo anche la vita; ebbene?
- Ma se avete deciso di spararvi!
Ebbene? Perché le due cose insieme? La vita è una cosa e quello un’altra. La vita esiste, ma la morte non esiste affatto.
- Vi siete messo a credere nell’eternità della vita futura?
- No, non nell’eternità della vita futura, ma di questa vita. Ci sono dei momenti, voi arrivate a certi momenti in cui il tempo tutt’a un tratto si ferma e diventa eternità.
- Voi sperate di arrivare ad un momento simile?
- Si.
- Ai nostri tempi è un po’ difficile, - rispose, pur senz’ironia alcuna, Nikolàj Vsévolodovič, lentamente e come se meditasse.
- Nell’Apocalisse un angelo giura che non ci sarà più il tempo [Apocalisse, 10, 6].
- Lo so. Quel che è detto là è verissimo, è chiaro e preciso. Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più, perché non ce ne sarà bisogno. È un pensiero molto giusto.
- E dove lo ficcheranno?
- Non lo ficcheranno in nessun posto. Il tempo non è un oggetto, ma un’idea. Si estinguerà nella mente.
- Vecchi luoghi comuni filosofici, sempre gli stessi fin dal principio dei secoli, mormorò Stavrogin con un compatimento sprezzante.
- Sempre gli stessi! Sempre gli stessi dal principio dei secoli e non ce ne saranno altri! – replicò Kirillov con lo sguardo scintillante, come se in quell’idea si celasse quasi una vittoria.”.
(Fëdor Dostoevskij, I demoni, Parte Seconda, Einaudi, Torino, Capitolo Primo, pp. 220-221).













“Ancora una parola; e me la si conceda. Ciò che il nostro tempo esige – già, chi finirebbe di enumerare tutto ciò che esige ora che, in seguito ad un processo di autocombustione, la cui causa ed il cui motivo è stato l’attrito mondano della mondanità con se stessa, la mondanità è andata in fiamme? Invece ciò di cui il nostro tempo ha bisogno – nel senso più profondo – si può esaurientemente dire con una sola parola, ha bisogno di eternità. La disgrazia del nostro tempo è che non è diventato altro che “tempo”, temporalità, che, impaziente, non vorrebbe sentir parlare di eternità, che anzi, con buone condizioni o in preda a frenesia, vorrebbe rendere del tutto superfluo l’eterno con una artificiosa imitazione; il che però non gli riuscirà, in tutta l’eternità, perché quanto più si crede di poter fare a meno dell’eterno, quanto più ci si irrigidisce nel pensare che si può fare a meno di lui, tanto più, in fondo, si ha bisogno di lui”.
(Søren Kierkegaard, Gli scritti su se stesso, in La sinistra hegeliana, Laterza, Bari, 1960, pp. 463-464).












«Noi siamo Re che si credono Mendicanti. Non metto in discussione solo il Cristianesimo, ma tutta la civiltà occidentale e la sua filosofia, secondo la quale noi veniamo dal nulla e finiamo nel nulla. Questa è l'essenza del nichilismo. No, ognuno di noi è un dio con la convinzione di essere contingenza, ombra di un sogno. L'uomo è una povera cosa: lo dice Pindaro, lo dicono Shakespeare e Leopardi, è il clima creato da Bertolt Brecht. In realtà siamo l'eterno apparire del destino. I nostri morti ci attendono come le stelle del cielo attendono che passino la notte e la nostra incapacità di vederle se non al buio. Siamo destinati a una Gioia più intensa di quella che le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. Il mendicante è il nostro essere convinti, per esempio, che io stia farneticando, perché le cose reali sono questo mondo, l'Europa, l'Italia, i rapporti economici, giuridici, sessuali. Mentre il fondo dell’ uomo consiste nella sua permanenza assoluta. Con la morte noi superiamo lo stato di mendicità: la morte ci consente di oltrepassare il senso del nulla». (La risposta di Emanuele Severino alla domanda “Mi spiega, nel modo più semplice possibile, in cosa consiste la sua filosofia?” tratta da un'intervista a Corriere della Sera, 30 dicembre 2018).












Per chiarire meglio questa faccenda possiamo mettere a confronto due opere molto simili, seppure scritte ad oltre duemila anni di distanza l’una dall’altra: l’Oreste di Eschilo e l’Amleto di Shakespeare; entrambi i protagonisti sono principi di sangue, ad entrambi muore il padre assassinato da un parente prossimo (Egisto era cugino di primo grado di Agamennone e Claudio era lo zio di Amleto, fratello di suo padre), entrambi sono chiamati alla vendetta (dal sangue paterno versato Oreste, dallo spettro del padre che si aggira per le mura del castello di Elsinore Amleto).
Ma, mentre Oreste sa perfettamente cosa deve fare, qual è il suo dovere di figlio, e uccide l’usurpatore e la sua stessa madre senza battere ciglio, affrontando così la collera delle Erinni, che sono divinità arcaiche poste a salvaguardia dei crimini di chi si macchia del sangue familiare, Amleto esita, non si risolve, non si decide a compiere un destino già stabilito che non gli appartiene, che non riesce a far proprio, e passa all’azione solo quando le circostanze non gli lasciano altra scelta.
Una tragedia è un lembo di eternità che si ricapitola e si ripropone sempre uguale e sempre diversa, ti attrae sempre tutte le volte che la vedi e non ti tedia anche se sai da sempre quale sarà lo spettacolo che si dipanerà davanti ai tuoi occhi.
Un dramma non ha la struttura semplice di una tragedia, sarebbe impensabile che rispettasse i precetti aristotelici dell’unità di tempo, di luogo e di azione, crea un incremento costante della tensione durante tutta la rappresentazione, per sfociare in un finale assolutamente inedito, non scontato, che rende tutta l’opera una merce che si deprezza nel momento in cui la si è fruita per la prima volta, e che precipita nell’arte lo spiacevole fenomeno dello spoiler, dell’attenzione cioè ad evitare di rivelare (o che ti venga rivelata) la trama o la conclusione di un’opera, perché questo rovinerebbe la fruizione dell’opera stessa.
Le lastre di tufo che costituiscono i templi antichi e gli edifici architettonici del barocco in tutto il sud dell’Italia, estratte da millenni dalle latomie adiacenti e che presentano cromatismi e compattezza lievemente differente ma che risulta comunque caratteristica da luogo a luogo, assorbono la luce durante l’arco del giorno e la rilasciano gradatamente in modo tale che al mattino esprimono un chiarore e un lucore quasi abbagliante, proiettandoti in un candore opalescente ed eburneo, col trascorrere delle ore si indorano, ingialliscono, diventano color miele e arancio, s’incendiano e s’infiammano sempre di più come se volessero riversare all’esterno tutto il calore accumulato durante il giorno.
Il tardo pomeriggio è il momento migliore per ammirare queste opere d’arte, perché si fanno più calde ed accoglienti, e ne cogli meglio il senso, lo scopo, perché è solo adesso che iniziano a parlarti, solo ora ti svelano la loro eternità, solo adesso ti accorgi che sei un lembo di infinito anche tu; perché l’eternità non si pensa, non si cattura, non si possiede, non ti appartiene se non per un istante, è un cadere, un precipizio, una vertigine, un annegare, un perdersi, un frammentarsi.
È sentirsi come se il cielo e la terra non fossero state create, la luce non fosse emersa dalle tenebre, il giorno distinto dalla notte, la terra separata dalle acque, le stelle e i pianeti non ancora posti sul firmamento, le piante non ancora germogliate e animali e uomini non popolassero ancora la Terra.












“In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era deserta e vuota; le tenebre ricoprivano l’abisso e  sulle acque aleggiava lo Spirito di Dio. Iddio disse: «Sia la luce»; e la luce fu. Vide Iddio che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e nominò la luce «giorno», e le tenebre «notte»”. (Genesi, 1, 1-5), ricordate queste parole della Genesi? Tutta la creazione divina è il precipitare l’eternità e la caoticità del Verbo (pensiero, idee) nella finitezza della materia e della distinzione.
L’eternità è come abitare una realtà fluida, eterea, vaporosa, evanescente, una realtà che non è ancora diventata, carne, terra, che non sa essere calorosa come una sciarpa di cachemire, avvolgente come un mantello poggiato sulle spalle: l’eternità è un velo gettato sull’abisso.
Il senso dell’eterno ti assale nei momenti più inattesi, come quando da ragazzo provavo quel senso di languida malinconia di fine estate, fra gli ultimi di agosto e i primi di settembre, quando i turisti se n’erano andati via quasi tutti, e l’estate stava per finire, perché in Sicilia l’estate, quella vera, coincide con l’arrivo e la partenza di chi viene a farsi le vacanze, e non viene determinata dal clima mite e dalle belle giornate, perché altrimenti durerebbe quattro o cinque mesi.
Quelle serate di fine estate, in riva al mare, organizzando gli ultimi nostalgici falò in spiaggia, solo fra di noi amici, perché le amicizie balneari sono tutte ripartite, quando i bonghi e la chitarra non si accordano più alle parole di “le bionde trecce gli occhi azzurri e poi le tue calzette rosse … oh mare nero oh mare nero oh mare ne … ti eri chiaro e trasparente come me”, per fare spazio a “Appocundria me scoppia ogne minuto 'mpietto pecchè passanno forte haje sconcecato 'o lietto appocundria 'e chi è sazio e dice ca è diuno appocundria 'e nisciuno appocundria 'e nisciuno”.
Poi la malinconia prende il sopravvento e domina il silenzio, chitarra, voce e strumenti giacciono sulla sabbia, nessun altro suono o rumore umano è udibile in tutto il paese, in tutta la Sicilia, forse nel mondo intero, persino il mare cessa ogni respiro; percepisco solo ciò che è visibile, la vampa del fuoco del falò, lo scintillio delle onde lambite dalla luna, le luci fioche del centro abitato in lontananza, il brillare degli occhi dei miei amici, la giovane età che pulsa e risplende in loro e in me, la luce emanata da stelle e pianeti lontani…uno spettacolo che è stupore, incanto e meraviglia.
E guardo tutta quella bellezza e penso ad alta voce se davvero esiste tutto questo o lo immagino soltanto, se stelle e pianeti sono davvero da qualche parte o c’è soltanto la luce, traccia iridata della loro esistenza, mentre loro non esistono più oppure non sono mai esistite e la luce è soltanto una mia proiezione, i bagliori della mia malinconia che irradio nel cielo; più che chiamare le stelle col loro nome, calcolare le distanze, stimare massa, composizione, velocità orbitazionale, ecc., mi sarebbe piaciuto capire il senso di quello spettacolo e godermelo così ancora di più.
D’altra parte, è vero che molte delle stelle che crediamo di vedere non esistono più, è rimasta solo l’ultima loro luce emessa, mentre i loro corpi, le loro masse si sono estinti o sono stati ingoiati da un buco nero, noi possiamo scorgere dunque soltanto la scia luminosa che hanno emesso mentre erano ancora in vita, che viaggia ad una velocità costante (300 mila km al secondo) e che ci permette di calcolare la distanza fra noi e quella luce (non più stella), se la vediamo a mille anni luce da noi significa ad esempio che la stiamo osservando com’era mille anni fa.












La luce lambisce i corpi e trasporta la loro immagine lontano molto velocemente, dal momento che essa si propaga in linea retta, se solo potessimo architettare un veicolo più veloce di lei, potremmo anticiparla e catturarne i raggi con una telecamera immensa e leggere il passato, la storia, i misteri, l’ignoto, la preistoria, i primordi, potremmo spingerci fino ad oltrepassare i tredici miliardi di anni fa (quella è la data stimata dagli scienziati) e assistere alle origini dell’universo , e allo stesso modo … potremmo catturare tutta quella luce che sta andando a disperdersi nelle tenebre, quel velo gettato sull’abisso.
Con meno fatica (la velocità del suono è di 331 m/s, pari a 1.191,60 km/h, a 0 °C e di 343,8 m/s, pari a 1.237,68 km/h, a 20 °C), potremmo ricaptare tutti i suoni emessi e abbinarli alle immagini come se stessimo montando un film: pellicola e sonoro.
Certo, non mi sfugge che il grande Albert Einstein considerasse tale velocità come una costante fisica universale, indipendentemente dal sistema di riferimento utilizzato, il tempo più rapido in cui qualsiasi informazione può viaggiare nell’universo; nella sua celebre formula E=mc² la c che indica tale velocità è usata in senso assoluto, come valore inalterabile, eterno, insuperabile … impossibile anche solo immaginare un veicolo che superi tale velocità.
Cosi, anche se la velocità della luce (299 792 458 m/s) è ancora considerata una costante in tutti i sistemi di riferimento ed è intesa come la velocità limite consentita nel mondo fisico, la velocità massima che un ente fisico come energia e informazione può raggiungere nello spaziotempo di Minkowski; anche la scienza tende a stabilizzare i grandi risultati che crede di aver raggiunto e a sacralizzare chi le ha permesso di raggiungerli.
Per questo nessuno finora aveva osato sfidare il dogma della velocità della luce della Teoria della Relatività di Einstein progettando grandi esperimenti di fisica delle particelle per testarlo, solo in maniera collaterale, nell’ambito di uno studio atto a verificare l’oscillazione dei neutrini, il gruppo di scienziati dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso in collaborazione col CERN di Ginevra, ha scoperto che fasci di neutrini muonici ( cioè un neutrino che si lega al muone formando la seconda generazione di leptoni) viaggerebbe (il condizionale è d’obbligo in attesa di ulteriori conferme) ad una velocità sensibilmente superiore a quella della luce, e ciò anche tenendo conto dell’incertezza della misurazione, calcolata in un possibilità di errore su 40.000.
I risultati di questi esperimenti vengono resi noti nel 2012, quando i fisici che li stavano effettuando ritengono siano corredati da solide basi sperimentali e da un’adeguata mole di evidenze scientifiche; se questi risultati fossero veri la Teoria della Relatività ne sarebbe minata dalle fondamenta, oppure andrebbe rivista in profondità, ma nel 2017 Gianfranco D’Anna pubblica un romanzo (Il neutrino anomalo, Dedalo, Bari), in cui raccoglie tutti i dubbi della comunità scientifica internazionale al riguardo, dubbi che si concentrano nello specifico della metodologia adottata e dell’impianto sperimentale seguito, che avrebbero fatto registrare una falsa anomalia circa la velocità dei neutrini imputabile ad un errore di misurazione.












Io credo che la scienza, così come il pensiero e la fantasia umana, non debbano avere limiti e non debbano contemplare valori assoluti, perché dietro ogni limite ed ogni assoluto si cela il dogma, e dietro ogni dogma c’è un Dio, che sembra saziare per sempre ogni curiosità ma in realtà la spegne per sempre, quel Dio che punisce Adamo ed Eva perché mangiano del frutto della Conoscenza … il peccato originale è un peccato di conoscenza, che il cristianesimo imputa a superbia e che io ritengo essenziale per vivere.
Quando uno scienziato o un filosofo giungono ad idee o a concetti assoluti stanno inserendo il divino nell’ordine del loro pensiero o della loro teoria scientifica, stanno cercando di farti credere che loro sono giunti sulla vetta ed oltre non c’è niente, hanno fatto ciò Descartes con le sue idee chiare e distinte, Kant col soggetto trascendentale, Hegel con l’assoluto e Einstein con la velocità della luce che diventa invariabile.
Si giunge a questi espedienti teorici per nascondere in genere le anomalie teoriche del proprio pensiero, e gli altri tendono a prenderle per buone perché è più facile credere che osare andare oltre ed esporsi in prima persona.
Dietro la Teoria della Relatività c’è Dio, nascosto in quella c², il suo spettro aleggia in tutta la fisica moderna, e viene fuori ingenuamente in certe dichiarazioni non scientifiche, perché non verificate, ma che sono intrise nell’idea di scienza che ha il suo autore, come ad esempio quando Albert Einstein dichiarò che Dio non gioca a dadi.
Il contesto di questa affermazione, replicata in più occasioni, è quello di salvaguardare un disegno di creazione divina alla base dell’Universo, disegno mirabile e razionale, che essendo divino noi non possiamo comprenderlo agevolmente, ma in cui sono inaccettabili i tentativi della meccanica quantistica di mettere in discussione questa sublimità di fondo e l’idea stessa che preesista un disegno razionale che regoli il tutto.
Come potete ben comprendere da una delle tante versioni di questo discorso riferito al famoso scienziato tedesco da più fonti, tutte attendibili (ha detto veramente questo, non l’ha detto? Di certo le sue formulazioni scientifiche sono compatibili con questa visione dell’Universo):
“La meccanica quantistica è degna di ogni rispetto, ma una voce interiore mi dice che non è ancora la soluzione giusta. È una teoria che ci dice molte cose, ma non ci fa penetrare più a fondo il segreto del Grande Vecchio. In ogni caso, sono convinto che questi non gioca a dadi col mondo”. (4 dicembre 1926).













C’è da chiedersi a che gioco stava giocando Dio ad Auschwitz o quando gli americani hanno lanciato le bombe a Hiroshima e Nagasaki, dov’è adesso mentre ogni giorno muoiono centinaia di innocenti in Siria e molti altri annegano nel Mediterraneo nel tentativo di scappare dalle condizioni di vita del loro Paese di origine, diventate insostenibili, per tentare la sorte nel mondo occidentale ricco e agiato, dov’è mentre il 20% circa di persone facenti parte del mondo tecnologizzato sfrutta fino alla fame il resto del mondo, vivendo come un parassita in cima alla piramide, razziando e sprecando le risorse invece di condividerle.
Dico tutto ciò senza animosità, né verso quel Dio indifferente ai fatti del mondo in cui non credo, né verso chi crede in lui e gli attribuisce un’intelligenza divina nella creazione del mondo, un’infinita bontà e il suo puntuale intervento sui fatti della vita per ripristinare la giustizia infranta dalla cattiveria dell’uomo, ma solo come constatazione; del resto un discorso su questo tema sarebbe necessariamente lungo ed esula dall’argomento qui trattato.
Preferisco di gran lunga il pensiero di Giordano Bruno, arso sul rogo perché con un tale pensiero il cristianesimo non può venire a patti, sono reciprocamente incompatibili, quando teorizza l’esistenza di un universo infinito e di infiniti mondi, microscopici e macroscopici, apparteniamo cioè ad un universo infinitamente grande sopra di noi e conteniamo universi infinitamente piccoli dentro di noi.
E che, molto semplicemente e senza alcuni sofisticazione, che poteva permettersi visto che era l’uomo più erudito del suo tempo, chiede ai suoi interlocutori cosa succederebbe se lui andasse all’estremo limite dell’universo e cercasse di sporgere il suo braccio al di fuori, come un tempo facevano i camionisti che sporgevano il loro braccio dal finestrino quando non esistevano i climatizzatori, intendete bene che qualsiasi risposta gli avessero dato i sostenitori della finitezza universale, egli avrebbe vinto la partita.
Perché, se può sporgere ancora il braccio, l’universo non è finito, e se non può sporgerlo, vuol dire che esiste un confine, un limite, un muro, ma cosa separa questo muro, cosa c’è oltre? Se non ci fosse nulla, il muro non sarebbe affatto necessario.
Preferisco anche la teoria epistemologica di Paul Feyerabend al falsificazionismo popperiano, alle rivoluzioni scientifiche kuhniane, al problem-solving di Larry Laudan, al neopositivismo viennese …      a Beethoven e Sinatra preferisco l'insalata, a Vivaldi l'uva passa che mi dà più calorie.







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Il Feyerabend che nel suo libro Contro il metodo scrive: “Anything goes”, in particolare: “è chiaro, quindi, che l’idea di un metodo fisso, o di una teoria fissa della razionalità, poggia su una visione troppo ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale. Per coloro che non vogliono ignorare il ricco materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo per compiacere i loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’ ‘obiettività’, della ‘verità’, diventerà chiaro che c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene”. (Feltrinelli, Milano, 1981, corsivo nel testo).
E qualche pagina prima aveva detto: “l’idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica. Troviamo infatti che non c’è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell’epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza. Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, che non sono il risultato di un sapere insufficiente o di disattenzioni che avrebbero potuto essere evitate. Al contrario, vediamo che tali violazioni sono necessarie per il progresso scientifico. In effetti, uno fra i caratteri che più colpiscono delle recenti discussioni sulla storia e la filosofia della scienza è la presa di coscienza del fatto che eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della dispersione; stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ‘ovvie’ o perché involontariamente le violarono”. (Ibid,).
Così come in letteratura mi piace Andrea Camilleri, il quale  è ricco della più grande ricchezza che esista sulla terra: la fantasia; in genere parte da un piccolo dettaglio di realtà, un fatto di cronaca, delle parole pronunciate da qualcuno, a volte anche da meno, e ti apre davanti un mondo straordinario, ricco di personaggi, dialoghi, accadimenti, colpi di scena, paesaggi, fatti storici e non o fatti “storicamente inventati”.
Sentite come racconta la nascita di uno dei suoi romanzi più belli La stagione della caccia (Sellerio, 1992): “Questo romanzo nacque dal fatto che lessi negli atti dell’inchiesta parlamentare sulla Sicilia del 1875: due grossi volumi da Cappelli, che io ho studiato attentamente. Arrivato ad un certo punto, il senatore Cusa [Niccolò Cusa, senatore del Regno d’Italia durante l’XIᵃ legislatura, nato a Corleone nel 1821 e morto a Palermo nel 1893], presidente della commissione, chiede a un sindaco di un piccolo paese del nisseno: «Signor sindaco, recentemente ci sono stati fatti di sangue nel suo paese?». E il sindaco testualmente risponde: «No, eccellenza, no. Fatta eccezione per il caso di un farmacista che per amore ha ammazzato sette persone». Questa risposta, oltre a farmi molto ridere, mi diede un input e l’indomani iniziai a scrivere il romanzo, in cui c’è appunto un farmacista che uccide sette persone per amore”. (Micromega, 5/2018, Camilleri sono, p. 13).
Capite? Inchiesta parlamentare sulla Sicilia del 1875 … voleva accertare la verità sull’esistenza della mafia, o cosa nostra, o mano nera o comunque si chiamasse nell’isola … un piccolo paese del nisseno … un farmacista ha ammazzato sette persone … per amore … per amore … non per mafia … ammazzare per amore non è un fatto di sangue … no, eccellenza, no … fatta eccezione… e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare.