sabato 13 aprile 2019

DA PACHINO A PECHINO












“Or, mentre mangiavano, Gesù prese del pane, lo benedisse, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: ‘Prendete e mangiate, questo è il mio corpo’. Poi, preso il calice, rese grazie e lo diede loro dicendo: ‘Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, della nuova alleanza, il quale sarà sparso per molti in remissione dei peccati’. Rivolto a Giuda aggiunse: ‘Tu no, Giuda, per te solo tonno in scatola e crackers perché tua madre non ha pagato la retta!’ “.  (Matteo, 26, 26-29).









Forse il menù dell'ultima cena fu a base di pesce, dopo il restauro dell’affresco milanese di Leonardo si vedono abbastanza bene le portate: come primo piatto c’erano dei tagliolini allo scoglio, leggermente piccanti e come secondo dentice all’acqua pazza, la frutta, si vede benissimo, fu costituita da datteri e da cedri del Libano, e il dessert senza alcun dubbio un tiramisù ad effetto ritardato, infatti fece effetto tre giorni dopo la crocifissione. 











Era la prima metà degli anni ’80, l’anno preciso non lo ricordo, saranno state le 8 circa del mattino e stavo andando a scuola, a piedi perché mi è sempre piaciuto camminare e prendevo la moto solo se ero in ritardo; in prossimità della piazza principale del mio paese d’origine, le strade e le piazze erano invase da una colata di limoni che gli agricoltori avevano riversato all’interno dell’esagono che delimita il centro cittadino, in segno di protesta.
Era uno spettacolo surreale, metafisico, sublunare, dechirichiano, quell’enorme tappeto giallo che invadeva le vie del centro, altro che Biennale d’Arte di Venezia, altro che installazione artistica, altro che il The Floating Piers di Christo sul lago d’Iseo, Pollock, Duchamp, Warhol, Hirst, Basquiat, …, possono andare a nascondersi di fronte al sacro furore artistico di una colata di giallo limone che nemmeno Van Gogh avrebbe mai sognato, gettata così spontaneamente e con rabbia su un centro cittadino fino a paralizzarne la circolazione.
Per diversi giorni i produttori di limoni, gli agricoltori in generale, i proprietari terrieri, i braccianti, le aziende che trasformavano i prodotti della terra, gli studenti e i semplici simpatizzanti, bloccarono la statale 115, sia in direzione Siracusa (a nord), sia in direzione Noto-Ragusa (verso sud), paralizzando i trasporti, perché in quell’epoca l’alternativa era soltanto la via che attraversava i monti iblei, che è piuttosto impervia, l’autostrada E45 da Siracusa a Gela non era nemmeno iniziata (nemmeno ora, dopo quasi quarant’anni è finita, si ferma a Rosolini, nemmeno a metà percorso e non riscuote pedaggio) e i treni nemmeno a parlarne.
La faccenda creò così tanti disagi che persino i supermercati, i tabacchini e i distributori di benzina avevano difficoltà a rifornirsi, passavano soltanto le ambulanze e i servizi di emergenza, tutti gli altri erano bloccati; e creò tanto scalpore che alla fine, dopo diversi giorni si scomodò a venire persino il  ministro dell’Agricoltura in persona, che all’epoca, se non vado errato  e sono vittima di fausse mémoire, era un esponente della DC siciliana.
Un agrario dotato di molta ironia commentò così la discesa lampo del ministro fra la plebe sicula: “Vinni stu maccarruni … dice: ‘Che problemi avete?’ – ‘Signor Ministro, ma chi ci pari giustu a Lei ca veninu ca accattari i lumiuna e vonu sulu i virdeddi (verdelli N.D.R.)? L’autri lumiuna chi fa ni facemu a ‘nzalata?’ – ‘ E voi, se vogliono soli i verdelli, estirpate gli altri e producete solo quelli!’ – ‘Produciamo solo quelli … ma chistu chi è ammaccatu? Comu a san Franciscu parramu cu l’albiri e ci ricemu: ‘ M’arraccumannu peri i lumiuni, ri ora in poi fammi sulu virdeddi. Poi fici prumissi a urbi e a orbi, e ti salutu peri i ficu!’ “.
Il ministro dell’Agricoltura non sapeva che un albero di limoni (parlo della varietà “femminello siracusano”), se ben curato, produce tre o quattro raccolti all’anno: in inverno si raccoglie il primofiore, che è il frutto della prima fioritura, in primavera il bianchetto (o maiolino) e in estate il verdello, un limone di colore verde che col passare dei giorni dopo essere stato reciso dalla pianta ingiallisce, ma che è già perfettamente maturo nel momento del raccolto.
È un limone che deriva da innumerevoli e secolari incroci e selezioni, esteticamente bello, di medie dimensioni, dalla buccia setosa, ricco di succo e con pochi semi, esalta qualsiasi pietanza (insalata, verdure, carne o pesce) come nessun altro, e le sue ghiandole oleifere secernono un’essenza molto aromatica, per cui i produttori inglesi e scandinavi di composte di frutta (le migliori al mondo), chiedono solo quello, e i profumieri svizzeri e francesi rastrellano ogni anno tutta la produzione estiva dei limoni e snobbano le altre.
Il mercato interno ed europeo in generale assorbe molto poco il rimanente prodotto, a causa della competizione israeliana, spagnola e nord-africana e della nostra incapacità quasi totale di distinguere i prodotti di ottima qualità dagli altri, a cui ci ha abituato la grande distribuzione.















La goccia che fece traboccare il vaso quell’anno, fu che di fronte ad un’eccedenza produttiva che rimaneva invenduta nei magazzini e che non potevi non raccogliere se volevi mantenere le piante in buona salute, il governo italiano impedì ai produttori siciliani e calabresi di stabilire un accordo commerciale con i russi, le cui navi erano già attraccate nel porto di Catania, che stabiliva nell’immediato l’acquisto di tutta la frutta disponibile, perché il maltempo e le gelate avevano compromesso gran parte del loro raccolto, e per il futuro un rifornimento a richiesta.
Gli inviati da Roma fecero presente ai coltivatori siciliani che non esistevano accordi commerciali con l’URSS, anzi era proibito per qualsiasi motivo vendere o acquistare merci d’oltrecortina, per cui si preferì far sfumare un affare che avrebbe risollevato le sorti del comparto agricolo siciliano, almeno per quell’anno.
In sostanza, i contadini della Sicilia sud-orientale rimproveravano al governo di non creare sbocchi commerciali per i nostri prodotti e di favorire anzi l’ingresso di prodotti esteri di qualità inferiore, perché meno costosi … era di quel periodo, mi pare, la polemica (strumentale, naturalmente) di un politico DC che aveva fatto un’interrogazione parlamentare chiedendo il motivo per cui nella bouvette di Montecitorio si servissero spremute fatte con agrumi Jaffa, israeliani, e non con quelli di nostra produzione.
Non avendo risposte serie, anzi non avendo risposte affatto, non trovarono altra soluzione che gettare per le strade del centro i limoni del loro raccolto invernale che giacevano nei loro magazzini a partire dalla piazza principale, letteralmente piastrellata di tasselli sferoidali di colore giallo.
Contadini … si sarebbero svenati piuttosto che gettare per le strade il frutto del loro lavoro, nottate ad abbeverare la terra in piena estate, a proteggere le gemme e la zagara dalle gelate notturne, giornate a zappare, rimunnari (potare), a passare la calce sui tronchi per proteggerli dagli insetti e dalle formiche, a raccogliere, a selezionare, a proteggere le piante dal malu siccu (si tratta di un fungo,  il Phoma tracheiphyl, che attacca il tronco e i rami degli alberi di limoni e mandarini, e se trascurato porta a morte l’intera pianta e può diffondersi in tutto il giardino), per poi portare il prodotto direttamente al macero, in piazza, calpestabile da chiunque.
Ma le cose negli anni 80 stavano cambiando, al nord era sorta la Milano da bere che era la risposta al “logorio della vita moderna”, i figli di questi nordici bevitori indossavano jeans Lewis e Moncler, calzavano Timberland col collo alto e gommato e credevano di essere più ganzi degli altri perché potevano permettersi di acquistare questi indumenti costosi e di marca estera, mentre chi non poteva permettersi i marchi originali acquistava sottomarche che li imitavano per sembrare anch’essi “galli” e non “tamarri”.
E c’erano anche quelli, pallidi e allampanati, che vestivano tutti di nero, persino le calze e le mutande erano nere e di tessuti che imitavano le ragnatele, che ascoltavano i The Cure o i The Smiths fino a sfinirsi, che sembravano sempre partecipare ad una veglia funebre e amavano la vita raminga e solitaria.
I primi si definivano “paninari”, i secondi “dark”, entrambi figli dell’idea che l’abito fa il monaco, in cui l’apparenza è essenza, scorciatoie esistenziali dove per essere basta avere l’abito adatto al contesto in cui sei e che ti definisce in termini identitari e ti da immediatamente la tua quotazione di mercato.
Generazione “wannabe” quella degli anni 80, se la generazione che ci ha preceduti (D'Alema, Veltroni, Fini, Bersani ...), allevati da Happy Day's, ha fatto tutti quei danni e se la generazione che ci è succeduta (Salvini, Renzi, Di Maio ...), cresciuta fra i quiz di Mike Bongiorno e i social network, sta finendo di distruggere ciò che era miracolosamente rimasto illeso, è stato un bene che la mia generazione abbia saltato il turno in politica.











Generazione triste gli eighties boys, siamo passati dalle compilation dei Cure ad organizzare Convegni sulla Famiglia, da Craxi a Milano ai revival fascisti, da “bella zio” al saluto romano, da Berlinguer a Renzi, da Moro a Salvini … mi sento come se avessi appena eseguito un triplo sarto mortale carpiato e avvitato, con squali che mi attendono in acqua e fossi uscito illeso, seppure con qualche braccio o qualche gamba in meno.
Io, dal mio scoglio sul mar Jonio, guardavo attonito tutto questo immondo traffico di esseri umani che trovavano Milano potabile e vestivano marche estere che all’improvviso avevano acquisito prestigio, ascoltavo orripilato lo slang che usavano, alcuni termini dei quali sono oggi fortunatamente in disuso perché troppo legati alle novità di quel tempo, tipo “compilation” che era una selezione di brani musicali scelti e riversati un una cassetta (non quella dei pomodori).
Altri termini invece sono, purtroppo sopravvissuti a quel contesto, come ad esempio “attimino” e la stupida consuetudine di usare il diminutivo in ino con molti termini di uso comune: caffettino, spaghettino, succhino …, e invece di comprare jeans e felpe Americanino, andavo a vestirmi al mercatino di paese settimanale  con poche migliaia di lire e invece di avere lo zaino Invicta avevo una vecchia tracolla militare verde bottiglia, originale della IIª guerra mondiale made in Fera ‘o Luny.
Ma il mondo stava cambiando, e con esso, seppure più lentamente che altrove, anche i contadini siciliani, che di certo non calzavano Timberland o vestivano Armani, ma da contadini stavano diventando imprenditori, non era un passaggio da poco, significava prendere le distanze dalla terra, non vederla più come una madre in cui affondano le nostre radici e da cui dipende la sussistenza non solo di chi la lavora ma di chiunque, qualcosa da rispettare, ma come un possedimento da sfruttare, qualcosa da cui trarre il massimo guadagno con qualsiasi mezzo, e i prodotti della terra non erano cibo o benedizione o frutto del sudore e della fatica, ma merci da vendere in cambio di piccioli sonanti.
Certo, il contadino trasformato in imprenditore agrario doveva affondare comunque le sue scarpe nella creta e bagnare i suoi gambali con la rugiada del mattino, ma forse poteva lavorare un po’ meno meccanizzandosi e chimichizzandosi, guadagnava quanto prima o forse anche meno, ma non era più un viddanu (villano), anche se la sostanza della sua villicità era rimasta inalterata, anzi si era persino degradata.
Una volta con mio padre ci siamo avvicinati al muretto di confine per salutare un vicino di campo, un giovane imprenditore agricolo che coltivava pomodori, era intento a spruzzare pesticidi sulle piante, senza guanti né maschera di protezione; mentre parlavamo stacca un pomodoro dalla pianta più vicina, lo sfrega un attimo sulla giubba, come a togliergli la polvere, e lo addenta.


“Che minchia fai Giuvà???”, lo aggredì mio padre, “ma come, con una mano pumpii e con l’altra mangi il pomodoro pumpiato? Quello che stai spruzzando sulle piante è veleno e tu hai ancora l’arma del delitto in mano, maccarruni!”, - “E che ci fa don Bastiano, avevo sete … questi pomodori vanno nelle case, nelle tavole, basta una lavata e tutti li mangiano” – “Appunto, Giuvà, sei peggio di uno spacciatore di droga: con la differenza che chi si droga lo sa che sta assumendo veleno, chi mangia i tuoi pomodori no, e neanche tu lo sai!”.
Giovanni non aveva idea di cosa stesse spruzzando, contro gli insetti, i funghi e quant’altro che potevano distruggere o rovinare il suo raccolto, gli altri contadini, quelli più furbi, gli avevano consigliato questi prodotti da diluire in acqua e da nebulizzare direttamente sulla pianta.
I pomodori che ne venivano fuori non erano mai stati così belli, grossi, lucidi, polposi e succosi, senza un difetto, sembravano belli come quelle mele dipinte dai pittori più valenti nelle nature morte per dimostrare la loro bravura nei particolari, o la frutta martorana dei pasticcieri locali, che è tanto realistica fin nei minimi dettagli da sembrare falsa solo per questo.









Non aveva idea, Giovanni, che erano più simili alla mela che la strega offre a Biancaneve, non aveva idea che non bastava lavare il pomodoro per togliere il veleno, che il frutto lo assorbiva anche al suo interno, era pericoloso anche respirarlo o assorbirlo attraverso la pelle, e il terreno così trattato ne rimaneva contaminato per anni anche se non spruzzavi più niente.
Il nuovo imprenditore agricolo non era più il contadino di una volta, quello che passava le sue serate in piazza, nel quartino a lui destinato: la piazza è di pianta quadrata, esistono dunque quattro quartini e la consuetudine aveva decretato che uno fosse il punto di ritrovo dei contadini, con un bar avvezzo a servirli e a incontrare i loro gusti e i loro modi.
Un altro quartino era destinato a nobili (nonostante l'avvento della Repubblica che fece decadere il valore dei titoli nobiliari, la consuetudine e il rapporto gerarchico così stabilitosi si perpetuò ancora per anni, qui forse meno che altrove), notabili, possidenti, ...,
E li era insediata la migliore e più prestigiosa caffetteria e pasticceria, dove il caffé veniva sorbito e non bevuto, dove il gelato veniva servito in coppa, dove il servizio al tavolo era d'obbligo (noblesse oblige) e dove non era infrequente sentire il botto di qualche tappo di champagne che saltava.
Mai per festeggiare la conclusione di un accordo o di un affare, perché è da cafoni festeggiare con lo champagne qualcosa così prosaico o venale, sempre per festeggiare nascite, fidanzamenti, matrimoni, liasons e rendez-vous.
Negli altri due si incontravano rispettivamente i commercianti, che giravano sempre col loro ragioniere al seguito, che li coadiuvasse a calcolare immediatamente un profitto o una spesa, e che si rifocillavano al Bar dello Sport e gli artigiani, che invece non parlavano mai di affari, ma di arte in generale.
Alcuni di loro si dilettavano di pittura, di scultura, di poesia, nel tempo libero, anzi segretamente ciascuno si sentiva il Caravaggio, il Michelangelo o il Leopardi del borgo, costretto a celare il suo genio per via dell'invidia e dell'incomprensione dei suoi cittadini.
La stragrande maggioranza di loro, però, era solita suonare qualche strumento, in altri tempi erano chiamati per fidanzamenti e matrimoni, per battesimi e funerali, in generale quando si festeggiava o celebrava qualcosa, la più grande aspirazioni di ciascuno, prima che la televisione aprisse le porte ai dilettanti, era quella di suonare con la banda del paese.
Ora non ci si limitava più a frequentare solo il quartino o il bar di pertinenza, ma a seconda dei casi e dell’estro personale si poteva spaziare da una parte e dall’altra senza che alcuno si scandalizzasse o lo ritenesse uno sconfinamento (in altri tempi se un contadino fosse entrato nella caffetteria di lusso, lo avrebbero guardato come un bramino indiano guarderebbe un intoccabile entrato in casa sua), non si offriva solo il consueto caffè, o la birretta bevuta direttamente dalla bottiglia rifiutando ostinatamente il boccale come spreco o inutile orpello.
Indottrinato dalla pubblicità delle tv commerciali, l’ex contadino non solo aveva una vasta scelta di bevande “giuste” da consumare in qualsiasi occasione, ne conosceva la marca e sapeva perfettamente il prestigio che ciascun prodotto dava al suo consumatore, inoltre era perfettamente edotto sulla occasione ed anche sulla modalità di consumazione della bevanda….se era Cynar, ad esempio, pretendeva di sorbirlo immancabilmente in un tavolino al centro della piazza in mezzo a traffico e al logorio della vita moderna.
Che poi sapesse distinguere uno scotch whisky da un bourbon, un single malt da un blended, è molto dubbio, quel che è certo è che mentre il contadino avrebbe mandato giù un torcibudella qualunque, servito su un dozzinale bicchiere di vetro e fatto scivolare sul bancone del bar, come se si trovasse in un saloon del far west, magari asciugandosi le labbra con la manica della giacca e scoccando la lingua subito dopo, l'imprenditore agricolo beveva solo whisky di marca pubblicizzato in tv, proprio come il paninaro calzava solo Timberland.
Non era inconsueto, con l'avvento della nuova era, trovare due amici ex-contadini e neo imprenditori agricoli nella caffetteria più lussuosa della piazza in cui l’uno aveva condotto l’altro per offrirgli qualcosa: “Che ti pigghi, Nicò?”, e Nicola rivolto al cameriere: “Garson? A mia ‘nCevas!”, il cameriere lo guarda desolato e gli risponde in italiano (questo perché siamo nella caffetteria di lusso, fossimo stati nell’altra ti avrebbe risposto in dialetto stretto con forme arcaiche e gutturali che non avrebbe capito nemmeno mia nonna): “Mi dispiace, il Civas l’abbiamo appena terminato …”, - “Ah, nun ci n’è? Allura nu ngrengrà!” – “Glen Grant? Perfetto, ottima scelta, messieur (questo perché l’altro l’aveva appellato con garçon)”.
Queste cose, invero barbariche, come il riversamento per terra dei prodotti della terra e della natura o il calpestare il pane pur di non darlo che so io agli immigrati o ad una comunità rom, per fortuna oggi non potrebbero più accadere, distruggere ciò che la natura e l’uomo hanno creato, disperdere, calpestare e frantumare gli alimenti primari per l’uomo come il pane, il latte, l’olio o il succo della vite è molto penoso e avvilente, è indice di un profondo degrado e di imbarbarimento sociale e personale.
Oggi che abbiamo il governo del cambiamento, che siamo sovranisti, che siamo padroni a casa nostra e aiutiamo gli altri a casa loro (cioè nei lager libici dove in questo momento imperversa una sanguinosa guerra civile), in cui la parola onestà è il termine più usato, dove se sei senza lavoro puoi usufruire del reddito di cittadinanza, se hai difficoltà a pagare le tasse vieni sollevato dalla flat-tax, se sei stato truffato dalle banche ti risarciscono immediatamente, se trovi che la benzina sia troppo cara ti eliminano le accise.
In un Paese in cui la povertà è stata abolita e in cui ti basta chiedere e ti risponde un ministro, un sottosegretario, un portavoce, un passaparola, un usciere, uno stagnino, tutti molto preparati e notevolmente qualificati … non potrebbero più accadere.











Oggi non potrebbe accadere che ad esempio si facciano accordi con la Cina … ma non perché sono comunisti o perché fanno parte del blocco sovietico … perché lo sanno tutti che non c’è più alcun blocco sovietico dopo l’abbattimento del muro di Berlino, c’è solo Putin, che ci condiziona più di prima, occultamente, tanto da mettere il suo zampino pure sulle elezioni americane e attrarre nella sua orbita innumerevoli imbecilli anche qui in Europa … secondo L’Espresso c’è stato un abboccamento pure col nostro ministro dell’Interno Salvini … ma non credete all’Espresso, è un giornalaccio comunista.
È da mo’ che si fanno affari con la Cina, se guardate i container di un qualsiasi porto italiano, vi renderete conto che la maggior parte recano scritte in lingua cinese, se vi trovate per caso nei porti di Napoli o di Genova senza sapere dove siete, dalle scritte sui container potreste dedurre di essere ad Hong Kong o a Shanghai; chissà quali regali ci giungono dalla Cina, chissà in quale degli oggetti che usiamo o nei cibi che mangiamo c’è qualcosa di cinese, da qualche parte tutti i contenuti dei container cinesi devono andare a finire.
Io personalmente ne so meno di voi, so solo che ad esempio parecchi anni fa il signor Petti di Parma e il signor Russo di Napoli, non so se in concomitanza, o ognuno per sé, decisero di far produrre tramite joint-venture pomodori ai cinesi; ma ci pensate? I cinesi non conosco il pomodoro, non esiste nella loro dieta, nei loro menù, non c’è un piatto tradizionale in Cina che preveda il pomodoro, nemmeno per sbaglio.
I due boss dell’industria conserviera italiana (non i maggiori produttori di pomodori, badate bene, ma certamente i maggiori trasformatori) furono molto convincenti, dissero ai cinesi pressappoco queste cose, logogramma in più logogramma in meno: noi vi insegniamo come fare, vi diamo gli strumenti per farlo, vi diamo i macchinari, le tecniche, vi diamo i fondi iniziali per farlo, la competenza necessaria, i nostri tecnici agrari verranno in Cina a sovrintendere ogni passaggio dalla semina alla produzione e dalla produzione alla trasformazione.
Mettiamo noi i fondi, i macchinari, la tecnologia, la competenza, voi metterete la terra, l’organizzazione, e la forza lavoro, dal pomodoro giungeremo ad un super concentrato ottenuto da  frutti già selezionati industrialmente, di non eccelsa qualità, pomodori di battaglia, con buccia spessa che non si frantuma, per evitare che nelle procedure di lavorazione industriale si aprano e inizino a inacidirsi mutando il sapore di tutto il prodotto finale, visto che saranno macchine a far ruotare i pomodori, macchine a lavarli, macchine a frangerli, macchine non a cuocerli, perché non saranno cotti, ma disidratati ad altissime temperature e in tempi brevissimi.
Se ne ricaverà una crema densissima, le cui alte temperature di cottura hanno già bruciato del tutto il contenuto vitaminico, crema che giungerà in Europa (a Parma e a Napoli soprattutto), come risarcimento con gli interessi alle aziende conserviere italiane che hanno investito nella Cina.
Ora, è vero che il nostro commercio con la Cina prevede il pagamento di dazi piuttosto elevati, per cui sarebbe stato anti-economico produrre in Cina per vendere in Italia, ma esiste una norma europea secondo cui se tu acquisti pomodoro o derivati di pomodoro in Cina e rivendi solo in mercati extra-europei, il dazio solito che pagano le merci cinesi viene by-passato.
Ma una volta acquisito il prodotto trasformato e tenuto conto che tu produci conserve italiane, chi ti controlla davvero su ciò che fai col triplo concentrato cinese? La dicitura nei vasetti è “pomodoro italiano” e molto probabilmente lo è, ma la salsa dei san marzano  è quasi sicuramente cinese, anche perché niente ti vieta di farlo.









Provate voi a fare dei pomodori pelati in casa, sbollentate anche solo due pomodori in acqua bollente, fateli raffreddare un po’ e poi sbucciateli, ora aprite una lattina di pelati industriale, una a caso, estraetene tutti i pomodori e chiedetevi da dove origina tutta quella salsa di pomodoro che vi rimane il lattina, non dai pomodori stessi, visto che i vostri fatti a mano non la producono, quindi la aggiungono, prendendola da dove: dal triplo concentrato cinese diluito in acqua!
Certo, quello che trovate nelle lattine che vengono vendute in Italia e in tutta Europa è relativamente una salsa di qualità discreta, quella prodotta con gli scarti, le bucce, i semi, i piccioli del pomodoro e se non bastasse anche con l’aggiunta di amido e di soia, chiamata in gergo “black ink” (inchiostro nero), finisce, opportunamente speziata, zuccherata, acetata, smaltata e ricolorata nei mercati africani, in quelli asiatici e nei prodotti a base di pomodoro (ketchup, salsa rosa, vari tipi di senape e moderni insaporitori per carne e pesce) dei grandi marchi mondiali che riforniscono le altrettanto grandi catene di fast food … in definitiva nei vostri hamburger.
Pensate, ad insaporire la pessima carne con cui fanno hamburger e wurstel (fidatevi molto poco di tutto ciò che viene tritato al punto che non sapete più di che carne si tratta o se si tratta ancora di carne), usano un prodotto cinese che definire di pessima qualità sarebbe nobilitarlo, perché talvolta è pure scaduto o mal conservato, opportunamente condito perché nemmeno il sapore dell’insaporitore così ottenuto abbia gusti naturali ben riconoscibili.
Il passaggio successivo è stato l’affrancamento, naturale ed ovvio, dei cinesi dagli italiani, e l’esportazione del modello dalla Cina in Africa, stavolta un progetto a guida cinese: i cinesi ci mettono i capitali, fanno accordi con i governi locali per acquisire terre coltivabili, per smaltire le scorie industriali potendo inquinare in tutta economia senza tante storie, usando anche veleni potenti come il clorpirifos etile, che può creare anomalie cerebrali nei bambini fin dalla vita fetale.
Ci mettono la competenza, i macchinari che nel frattempo hanno anche iniziato a produrre e forse anche a migliorare, e sono in grado di far produrre in Kenya, in Nigeria, al Togo, in Ghana, in Senegal e altrove un sestuplo concentrato di pomodoro, che il black ink al confronto è un manicaretto uscito dalle cucine di Chez Maxim, in latte enormi con scritte come Gino e magari il faccione di Dante impressovi sopra, quasi a dotarlo di una sorta di Made in Italy truffaldino, attraverso nomi e simboli che tutti nel mondo possano conoscere.

Qui in Italia siamo passati dalla dicitura “prodotto in Italia”, che non vuol dire niente, perché prodotto potrebbe voler dire solo incapsulato o inscatolato, a “pomodoro italiano”, e tu ti chiedi: e la salsa? A “pomodoro 100% italiano”, a italiani pure i produttori, gli inscatolatori, i raccoglitori, italiani anche i mezzi su ruote che l’hanno trasportato e i macchinari che l’hanno lavorato, italiano il sale e l’olio che l’ha condito … troppo e spesso non veritiero.
Perché basta andare dove il pomodoro lo producono, a Pachino, a Portopalo, a Bisceglie, a Sarno, a Battipaglia, a Nocera Superiore, in Toscana e a Parma e trovi che chi lo raccoglie il pomodoro è fin troppo abbronzato per essere italiano, di colore spesso sono anche i cosiddetti caporali e di colore sono la maggior parte degli operai nelle industrie conserviere.
E tutti quei containers dalla Cina? Solo prodotti che trasformiamo, imprimiamo il nostro marchio ed esportiamo altrove? E non è già criminale questo? O qualcosa ci rimane pur sempre impigliata all’interno delle nostre lattine smaltate e dei nostri vasetti accattivanti? Non esistono tutti questi campi coltivati a pomodori che possano giustificare l’entità della nostra industria conserviera.










È lo stesso Petti figlio, Pasquale, a dire che in ciò che produce suo padre puoi trovare pomodori provenienti da diversi continenti, le parole precise sono state: “La vedi questa scatola [rivolto a Jean Baptist Malet che lo stava intervistando]? La vedi? Mio padre, in una scatola come questa, può mettere tre concentrati di tre paesi diversi. Mio padre compra una marea di pomodori cinesi. perciò tu non devi confondere quello che fa mio padre con quello che faccio io!”(Rosso marcio. Piemme 2017. p. 76).
Pasquale Petti se la prende con la grande distribuzione se oggi si produce pomodoro di dubbia qualità, dice: “Ci ammazziamo per fare un prodotto di qualità, cento per cento toscano, e tutti questi tizi della grande distribuzione pensano solo al prezzo. Cercano di strapparti ogni centesimo possibile. Se ne fregano totalmente dei nostri sforzi. […] Vuoi sapere cosa ti chiede la grande distribuzione, se sei un industriale? […] Quello che vogliono è un prodotto il meno caro possibile, che assomiglia alla salsa di pomodoro e che non ammazza la gente che lo mangia” (Ibidem, p. 74).
E subito dopo da al giornalista che ha di fronte una dimostrazione pratica della differenza fra un concentrato di pomodoro qualsiasi e una delle sue salse di pomodoro, una prova che sembra convincere Jean-Baptist Malet, ma non me; non nego che il prodotto di Petti figlio abbia qualche qualità, ma prima di meritare davvero il nome di salsa di pomodoro devi convincere davvero il mio odorato e le mie papille gustative.
Petti dichiara negli ingredienti delle sue salse che il 99,75% è composto da pomodoro, il rimanente 0.25% da sale, e nient’altro, se questo è vero ne sono sollevato, così dovrebbe essere fatta una vera salsa di pomodoro e qualsiasi altra aggiunta è superflua o serve a coprire sapori forse poco piacevoli o a nascondere procedimenti di cottura troppo aggressivi.
Ma provate voi a fare una salsa semplice di pomodoro, comprando dei pomodori da sugo maturi, li lavate accuratamente immergendoli per almeno mezzora nel bicarbonato, li risciacquate accuratamente, li tagliate eliminando la parte del picciolo e della sua attaccatura, e li cucinate per tutto il tempo che occorre a fuoco bassissimo aggiungendovi una manciata di sale marino, poi gli fate fare un giro di valzer col passaverdure a maglie strette.
Ora aprite un vasetto di salsa Petti da una parte e la vostra salsa dall’altra, odorate l’una e l’altra, assaggiatele alternativamente e capirete che forse l’industria non potrà mai fare una vera salsa di pomodoro, solo una sa approssimazione: “qualcosa che assomiglia alla salsa di pomodoro e che non ammazza la gente che la mangia”, almeno non subito.
La differenza la faranno sempre i pomodori, l’industria usa pomodori industriali, non può permettersi quelli artigianali, che di fatto stanno quasi scomparendo, perché i costi del pomodoro sono proibitivi, non trovo da queste parti niente di buono a meno di 6 euro al chilo (e possono arrivare fino a 12), anche quelli che trovo non sono raccolti a regola d’arte: il pomodoro da sugo deve essere “siccagno”, cioè raccolto dopo una settimana in cui non viene irrigato, perché non sia gonfio d’acqua, questi che compro sembrano i pomodori di Gigi Di Maio, composti dal 90% di acqua.
E la fa la lavorazione, l’industria non cucina, disidrata ad altissime temperature il prodotto in pochi minuti, in ciò che ti rimane le vitamine e parte del sapore te li sei giocati irrimediabilmente, la cottura a bassissima temperatura ti da un prodotto più ricco, che conserva meglio i suoi tesori, più aromatico, ma quanti hanno il tempo di star dietro per qualche ora ai pomodori che si cucinano sui fornelli?   









Per fortuna che abbiamo il governo del cambiamento a proteggerci dall’Europa, dall’Asia, dai migranti, dalla mafia Nigeriana, dal terrorismo islamico, dai pomodori cinesi e dai furbi nostrani, oggi non potrebbe accadere che rifacessimo accordi con la Cina senza prendere le dovute precauzioni: ad esempio, sarebbe impossibile che siglassimo nero su bianco il permesso per la Cina di usare i nostri porti per il loro commercio.
Sapendo quanto i porti italiani siano infiltrati dalla mafia altro che padroni a casa nostra, sarebbero padroni a casa nostra i cinesi e la mafia, gli unici a controllare cosa arriva e cosa gira nei nostri docks, e dove va a finire, i cinesi potranno invadere l’Italia e l’Europa di qualsiasi cosa senza che noi possiamo controllarla.
E in cambio di ciò cosa potremmo chiedere, direte voi: la Città Proibita, i diritti a sfruttare turisticamente il la Grande Muraglia? Acqua … acqua … La ricetta del pollo alle mandorle? Fuochino… La possibilità di esportare da loro, per via aerea badate bene (perché per nave potevamo già farlo) le nostre arance siciliane (e siccome siamo i più furbi del pianeta, quasi certamente potremo far passare per siciliane anche le arance calabresi)? Fuoco, hai fatto centro.
Immagina, in un colpo solo tutta la nostra produzione verrà assorbita dai cinesi, che siccome sono tanti non venderemo più le arance al chilo e nemmeno singolarmente: le venderemo a spicchiiii! Uno spicchio uno yen … dare sposa vedere cammello … come ci hanno insegnato i nostri amici arabi.
Ma ti pare che uno come Di Maio, ministro dell’Onestà potrebbe siglare un contratto di questo genere? Siamo mica il PD! Ma lo sai quanto ci costerebbe far viaggiare le arance in aereo da Pachino fino a Pechino? Roba che una volta atterrati dovresti farle pagare più del tartufo d’Alba, appena giunta a terra l’arancia siciliana andrebbe direttamente nelle gioiellerie e non nei mercati ortofrutticoli.
E poi, vuoi che lo staff dei Cinque Stelle, così attento ed oculato, non abbia preso informazioni sul fatto che vendere arance ai cinesi sarebbe come vendere ghiaccio agli esquimesi o wurstel e crauti ai tedeschi, lo sanno tutti che la Cina è il secondo produttore mondiale di agrumi al mondo subito dopo il Brasile… hai presente i mandarini cinesi? Bene, si sono ampliati! Visto che l’accordo è bilaterale, per ogni arancia siciliana che noi esportiamo in Cina e che verrà valutata in carati, visto il prezzo, loro ci manderanno migliaia di tonnellate di prodotti cinesi a basso costo che spazzerebbe via in breve la nostra agricoltura.
Ma noi adesso non siamo così coglioni, vero? Salvini e Di Maio sono buonisti (Salvini in particolare saluta sempre con un bacino su twitter sia i suoi fans, sia soprattutto i suoi oppositori), ma non fino a questo punto, sarebbero capaci di chiudere i porti a chiunque e di mettere una bambina di origini marocchine a tonno e crackers prima che si dica che critichiamo l’euro e l’Europa per accettare lo yen e la Cina; col governo del cambiamento insediato saldamente noi oggi viviamo nel lebnitziano “migliore dei mondi possibili”, e ciascuno di noi può vantarsi di essere una “monade” sovranista … una mona-de … una mona…