venerdì 26 gennaio 2018

ORGOGLIO & PREGIUDIZIO










“Siete sulla spiaggia nel tardo pomeriggio. Il sole è già basso sull’orizzonte e spande morbida ambra intorno. C’è profumo di fiori dietro di voi, e fragranza di erba fresca. … E sulla vostra pelle una brezza vibrante e quasi tiepida. Guardate davanti a voi, il mare splendente negli ultimi raggi di sole … Centinaia di piccole onde che avanzano nella loro esistenza lampo … Ma … Guardatene una, splende più delle altre. E il suo incedere è placido e quieto, privo di paura. Quieta nel suo fluire senza sforzo. Guardatela meglio ancora, nel grembo baluginante dell’infinito mare: non è un’onda. È lo splendore del mare. Lei non è un Io-Onda nel mare. Lei è il mare”. (Gianfranco Damico, Piantala di essere te stesso! Liberarsi dei propri limiti ed essere felici, URRA Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2011, p. 4).









“Una volta Zhuang Zhou sognò di essere una farfalla.
La farfalla svolazzava lieta e spensierata e non sapeva di essere Zhou.
Improvvisamente si svegliò e si accorse con stupore di essere Zhou.
Ora non sapeva più se era Zhou
che aveva sognato di essere una farfalla
o se era una farfalla
che stava sognando di essere Zhou …”
(Dal Chuang Tzu o Zhuangzi, che insieme al Tao Te Ching è uno dei testi cinesi fondamentali del taoismo, Capitolo II: Sull’uguaglianza di tutte le cose).











“Chi sente ridere le farfalle conosce il sapore delle nuvole”.
(Novalis).









Paolo il diavolo era davvero brutto, brutto per antonomasia, apoditticamente brutto, l’apoteosi e il trionfo della bruttezza, persone appartenenti a qualsiasi società, a qualsiasi cultura, a qualunque strato sociale, dalla Nuova Guinea alla Papuasia,  dalla Groenlandia al Congo, dagli Appennini alle Ande, dal Manzanarre al Reno, chiunque lo avesse guardato lo avrebbe trovato sicuramente ed inequivocabilmente brutto, sarebbe stato brutto anche palpato in braille.
Se lo avesse visto Charles Darwin ne sarebbe rimasto perplesso e si sarebbe convinto di dover rimaneggiare la sua teoria dalle fondamenta: l’uomo non discende da un ceppo comune con le scimmie, ma sono le scimmie che discendono da noi; e non solo l’uomo di Neanderthal non si è estinto per far spazio al Sapiens, ma a guardare bene Paolo il diavolo è probabile che non si sia estinto neppure l’Homo Abilis, che è ancora li intento a scheggiare selci prima della caccia.
Se un antropologo fosse passato da quelle parti, avrebbe fatto i salti dalla gioia nel vederlo, avrebbe tirato fuori il craniometro tutto felice, avrebbe fatto ispezioni, rilievi, osservazioni in tutta la famiglia, avrebbe studiato le loro abitudini alimentari, i loro rapporti sociali, il linguaggio che usano per esprimersi, le loro credenze e le loro abitudini, la sfera spirituale e i costumi sessuali della famiglia diavolo e i loro rapporti con i popoli vicini…ma soprattutto a colpirlo sarebbe stata la loro colossale bruttezza.
Beh, va bene, non è che io sia Marlon Brando, però quando dico brutto non intendo di una bruttezza semplice, normale, qualcuno dotato di lineamenti irregolari o di qualche difetto fisico, o che so io, ma l’emblema stesso della bruttezza, se i brutti di tutto il mondo avessero voluto un simbolo, avrebbero sicuramente scelto la sua immagine come bandiera e Paolo il diavolo come loro ambasciatore nel mondo.
Ed era brutto lui, brutto suo fratello minore, brutta la sorella, brutto suo padre e brutta sua madre e, probabilmente saranno stati brutti tutti i suoi avi ed ascendenti ed erano destinati ad essere brutti anche i suoi discendenti, qualora ce ne fossero stati, perché una bruttezze così metafisicamente iperbolica non aiuta di certo ad ottemperare all’imperativo cristiano: “Crescite et multiplicamini".
Nessuno si chiedeva se Paolo fosse intelligente o meno, se fosse capace, quali sentimenti provasse, era talmente abituato fin da piccolo all’essere discriminato e allo scherno, che non mostrava alcun segno di attività intellettuale o di sentimenti; poiché voleva vivere era necessario che lavorasse, ma nessuno voleva affidargli un lavoro per cui occorresse capacità e talento e nessuno si sarebbe azzardato  ad assumerlo per un lavoro a contatto col pubblico, perché temeva di perdere la clientela, così Paolo faceva dei lavori come uomo di fatica, un po’ qui e un po’ là, dove capitava, dove qualcuno lo chiamava, sfruttato e sottopagato e forse anche sottostimato, ma lui era contento così ed aveva pochissime pretese.
Non era stato preso molto sul serio, era stato rifiutato quando si era offerto di portare in processione la Madonna la domenica di Pasqua, nessun barbiere prendeva soldi da lui per un taglio di capelli o per radergli la barba, non parliamo poi di quando si innamorò della figlia di Antonio il "Signorino" e le faceva la corte passando con la sua moto dalla casa di lei con la frequenza maggiore di un'ape che sorvoli il calice di un fiore.

















Questo suo innamoramento venne accolto dal sarcasmo, dagli sghignazzi, da franche risate come se una pulce si fosse messa in testa di far sesso con un elefante; la figlia del “Signorino” … la “Signorina” era molto bella, e molti giovani più belli e aitanti di Paolo il diavolo aspiravano alle sue grazie e fino ad allora nessuno era riuscito a coglierle, tranne forse, si mormorava, Peppe u Caliddu.
E qui bisogna aprire una parentesi perché quest’ultima affermazione non sembri l’ennesimo schizzo di fango che vuole macchiare l’onore di una ragazza, una cosa buttata li per insinuare il sospetto, per alimentare il dubbio, per proseguire una filama.
La filama in siciliano è la diceria, il pettegolezzo, che nasce sempre orfana, figlia di nessuno, perché si perde nella notte dei tempi chi è stato il primo a parlarne, chi ha iniziato, chi l’ha fatta circolare per primo, chiunque la veicola lo fa in maniera impersonale, introducendola con un “Si dice …”, “Ho sentito …”, ed ha dell’incredibile il fatto che anche le pettegole più curiose dimentichino di chiedere chi è il soggetto, cioè chi dice, chi ne ha parlato, che dovrebbe anche essere il testimone, chi ha visto qualcosa, quello che ha le prove, ingolosite certamente dal contenuto, dal piatto succulento che viene loro presentato davanti, e che darà loro da “campare” almeno per qualche giorno.
Da che cosa origina una filama? Si crede da qualcuno che abbia visto o sentito qualcosa, roba scandalosa, sconveniente, che avrebbe dovuto essere segreta, e che vuole che ciò che ha visto diventi pubblico senza assumersene la responsabilità diretta di essere stato lui il primo a divulgarla.
Ma non è necessario che alla base di una filama ci sia per forza un fatto accaduto o un detto, spesso basta la cattiveria o l’invidia di qualcuno, per divulgare qualcosa che possa danneggiare qualcun altro, ma c’è un godimento anche in chi la tramanda, appositamente anonima, dimenticando da chi l’ha sentita, talvolta se richiesto in tal proposito rimane sul vago, l’ho sentita in piazza, al bar, o a casa di …, mai un nome, un momento preciso, un indizio concreto che possano identificare l’ideatore del pettegolezzo.
In compenso da comare a comare, da compare a compare, la filama cresce, si arricchisce di dettagli, si taglia, si cuce, si aggiunge, si ricama a punto croce e si rinforza nei suoi punti deboli dotandola di argomenti inoppugnabili, almeno in apparenza, e in ogni caso essa
è dedicata a persone di bocca buona, non dotate di molto ingegno o di strumenti critici, o che metteranno da parte entrambi pur di crogiolarsi con quell’idea.
Diverso è il caso della tragedia, una tragedia dalle mie parti è quando qualcuno ti ordisce un inganno nell’ambito dei rapporti fra te e lui o fra te e qualcun altro, rapporti di cui egli stesso o qualche suo amico o mandante spera di poterne beneficiare in qualche modo, tragediatore è detto chi ordisce ed escogita la tragedia stessa.














L’esempio potrebbe essere quello di qualcuno che ti fa credere per vero ciò che non lo è, o per falso ciò che è vero, ma soprattutto chi insinua in te una miriade di dubbi che ti faranno soffrire più di qualsiasi verità o falsità; chi coglie qualche screzio fra te e un amico o una fidanzata, e molto subdolamente conquista la tua fiducia per insinuare calunnie e mettere zizzania fra te e il tuo amico o fra te e la tua ragazza.
Se è pure vastasi (cioè furbo, ma di una furbizia applicata esclusivamente ai rapporti umani, in particolar modo a quelli sentimentali e al sesso), sistemerà le cose in modo tale che anche le conferme che cercherai nell’amico o nella ragazza, anche i chiarimenti che cercherai di avere con loro, accresceranno i sospetti anziché fugarli e precipiteranno ancora di più il rapporto fra te e loro.
Il tragediatore molto spesso è interessato ad un rapporto privilegiato col tuo amico o a soppiantarti con la tua ragazza, oppure lo fa per favorire un suo amico interessato, o su mandato di un terzo da cui trarrà benefici, o ancora per odio o invidia nei tuoi confronti o per cattiveria pura come accade a Iago nell’Otello.
In questo caso siamo di fronte ad una ragazza, giovane, indubbiamente bella, senza alcun legame con qualcuno, sebbene siano in molti a girarle intorno, che non ha mai confessato ad anima viva i suoi desideri e sul cui comportamento, nessuno ha mai avuto niente da ridire, una situazione troppo intrigante per non essere tentati di giocarsi qualche filama.
E poiché non c’è niente di concreto a cui appigliarsi, per rendere minimamente credibile la voce, devi introdurre un jolly, e in questo caso il jolly è proprio Peppe u Caliddu, che è come dire la fusione fra l’abilità illusionistica di Mandrake e il genio criminale di Diabolik.
Peppe u Caliddu era un ragazzo di qualche anno più grande di me, quanto basta perché io e quelli della mia età lo avvertissimo già ad un altro livello, mentre io annaspavo ancora con le mie prime esperienze con le ragazze, ai primi baci, alle prime timide palpatine con le cosce di lei che si chiudevano pudiche e riluttanti, lui era noto perché aveva un certo successo con le donne.

Non era propriamente bello Peppe u Caliddu, in paese c’erano parecchi giovani molto più belli di lui, proprio in quel periodo c’era un gruppo particolare che chiamavano “i belli del lido”, tutti ragazzi sui vent’anni o poco più, amici per la pelle fra di loro, di una bellezza straordinaria, che avevano molto successo con le donne e che non si sprecavano con le ragazze ordinarie, per quanto belle, ma ambivano a prede prestigiose: la donna sposata, la maliarda, la moglie di un notabile, che non avrebbe rischiato facilmente la sua reputazione con un giovane ventenne per di più residente in paese.








Ben presto questo tipo di selvaggina prestigiosa si esaurì e furono costretti a cercare altrove, nelle città, o anche fuori regione e talvolta tornavano a farsi vedere in paese con splendide donne, con abiti di lusso, piene di gioielli, raffinate, che sembravano parlare un linguaggio e vivere in un mondo agli altri sconosciuto.
Ma non era neanche brutto u Caliddu, era un tipo, ma soprattutto era enigmatico come una sfinge, non lasciava trasparire cosa gli girava per la testa né ti lasciava capire cosa stesse architettando e dove avesse la mente e le mani in quel periodo; delle numerose storie che ha avuto solo pochissime si sono sapute con certezza e nessuna di esse è trapelata da lui in nessun modo, sono state le protagoniste stesse a parlarne o a tradirsi … e proprio per questa sua discrezione totale Peppe era fra i ragazzi più ambiti, quello più richiesto dalle donne sposate.
Altra sua dote era quella di occultare le sue relazioni, in un paese dove ovunque vai, dal sentiero di montagna adatto solo per le capre e gli stambecchi, al fondale marino, c’è sempre la possibilità che incontri qualcuno, e nessuno si fa mai gli affari suoi, tutti impiccioni e ciarlieri, devi escogitare qualcosa se vuoi mantenere la tua privacy.
Un mio caro amico, che non avrà l’abilità del Caliddu, ma non gli è molto inferiore, mi raccontò scherzando che in una calda serata estiva aveva rimorchiato una bella signora in un locale della costa e l’aveva invitata a casa sua, ma la zona era presidiata dalla vicina impicciona, una vegliarda ottantenne con la lingua biforcuta come un serpente, che stava prendendo il fresco della sera seduta sulla sua veranda.
Alla signora non importava di essere notata da chiunque, non era del posto per cui se ne fregava delle dicerie, ma al mio amico scocciava che chiunque sapesse troppo dei fatti suoi, non gli piaceva essere visto una sera rincasare con una donna e la sera dopo con un’altra, proprio da quella vecchia poi, refrattaria ai condizionatori, ostinata a prendere il fresco in veranda per poter così monitorare attentamente il territorio.

Che ti guardava sempre come se ti augurasse che il giudizio universale si sarebbe abbattuto prima a poi su di te e che quanto prima saresti stato colto di sorpresa dall’angelo della prima tromba che annuncia la grandine e il fuoco misto al sangue, che avrebbero arsa la terza parte della terra, la terza parte degli alberi e tutta l’erba verdeggiante, e di certo non avrebbe lesinato qualche ustione ai peccatori impenitenti e lussuriosi, e lui, conoscendolo, le avrebbe certamente replicato: “Certo, signora, prima tromba …”.
Attese un bel pezzo sperando che le venisse sonno, macché era mezzanotte, la coppia in macchina sprigionava fiamme dal desiderio, e la vegliarda era ancora li, arzilla come non mai; così dovette risolversi a trovare un espediente, lui e la donna scesero dalla macchina e si recarono sul pizzo della cantoniera, acquattati al muro per vedere senza essere visti, poi lui col telefono cellulare chiamò il numero fisso della vicina, quando la vegliarda si alzò per andare a rispondere, loro due quatti quatti e radendo il muro che sembravano la Pantera Rosa o i Blues Brothers quando tentano di entrare nello stadio non visti dal presidio della polizia, felpando il passo sulle note di Minnie the Moocher di Cab Calloway, giunsero al portone e con un balzo felino finalmente furono dentro.
Peppe u Caliddu non si fidava di nessuno, non confidava con nessuno, e architettava stratagemmi ingegnosi perché i fatti suoi non li sapesse nessuno, non era mai stato visto insieme ad una donna da qualche parte, nessuno era mai riuscito a sorprenderlo, mai un marito l’aveva beccato con le mani nel sacco. Qualche marito, a dire il vero, sospettava che la moglie lo tradisse con lui, ma non era mai riuscito a coglierli sul fatto in nessun modo; poi incontrava il suo rivale e non poteva fare a meno di indagarlo con lo sguardo, di lasciar trasparire i suoi sospetti, mentre u Caliddu ricambiava quello sguardo con un sorrisetto sardonico e disarmante, che per il marito tradito era la certezza matematica del tradimento, ma era molto di più, era ironia pura, sfida, dileggio, ridurre l’altro all’impotenza, perché senza prove non poteva demolirlo a mazzate, era prendersi gioco di lui, dirgli che non li avrebbe mai sorpresi... un ragazzo di poco più di vent’anni… era molto umiliante sentirsi cornuto e mazziato. 









Se si fosse accontentato di frequentare una ragazza, non avrebbe sollevato alcun commento, se le ragazze con cui lo vedevano fossero state più di una o se non si fosse trattato di una ragazza ma di una donna sposata, le cose cambiavano radicalmente, e u Caliddu non si accontentava delle cose semplici, cercava sfide avventurose e sempre più difficili, voleva misurarsi con l’impossibile … e infatti la parola “impossibile” era quella che la gente esclamava quando trapelava suo malgrado qualcuna delle sue relazioni.
Se esisteva un uomo capace di realizzare l’impossibile in amore, o semplicemente nel sesso, quello era Peppe u Caliddu, ecco che per questo motivo poteva diventare il jolly di una filama incredibile che necessitava dell’uomo impossibile per essere creduta reale.
Ma che u Caliddu era capace di tutto lo scoprii mio malgrado quando mi misi con una ragazza di due anni più grande di me; frequentavo la sua casa perché ero amico/conoscente di suo fratello Lino, detto Linu u Pazzu perché era capace di fare cose incredibili e molto pericolose e di rimanerne miracolosamente illeso, come gettarsi dal balcone del primo piano di casa sua con l’ombrello come paracadute, o fare a gara col suo amico Manuele Capace a lanciarsi col motorino a tutta velocità dai gradini della chiesa madre, quest’ultimo si era rotto braccia, gambe, testa, mentre lui ne usciva con qualche graffio ma senza niente di rotto.
Una volta l’ho visto io che ero proprio dietro di lui, ha preso a gran velocità la curva di una stradina in discesa, che proprio non è riuscito a curvare ed è andato dritto impennandosi con la moto su un terrapieno; lui l’ho visto cadere a sinistra mentre la moto era andata a sfracellarsi a destra su un albero.
Ho pensato che fosse morto, vista la caduta, macché, era tutto pieno di terra, tutto lazzariato … ora dalle mie parti qualcuno deve aver riflettuto su quale aspetto potesse avere Lazzaro al momento della sua resurrezione dopo diversi giorni di putrefazione (e non parliamo poi dell’odore che doveva emanare), e sul presunto aspetto di Lazzaro ha coniato il neologismo “lazzariato” per intendere uno che abbia lo stesso identico aspetto di Lazzaro che sbuca dall’avello.
In quelle condizioni l’ho riportato a casa sua e sua madre in quell’occasione mi aveva “schedato” come compagno di giochi pericolosi del figlio, possibile cattiva compagnia, e non come quello che glielo riporta a casa quasi tutto intero; un’altra volta che ero andato a trovare Marian (così chiamerò la mia ragazza di allora), con la mia bella giacca di renna di cui andavo orgoglioso (a quei tempi si usava moltissimo, con buona pace degli animalisti), tutto ad un tratto senza aver sentito avvicinare nessuno, mi trovo due mani che mi battevano con forza con le palme sulle spalle, come un tappeto.
Quando mi sono girato ho visto un’autentica furia che si scagliava contro di me per picchiarmi gridandomi: “Mascalzone, maleducato, incivile, ti insegno io l’educazione, ti insegno io a suonare civilmente il campanello a casa della gente perbene, ti insegno io ad avere rispetto e non gridare ‘figlio di puttana’ a qualcuno e a casa sua!”.









Ero più sbalordito che spaventato, era la madre della mia ragazza, nonché madre di  Linu u Pazzu, che aveva intenzione di picchiarmi, anzi lo stava già facendo, spolverandomi come un tappeto, ma non avevo la minima idea del perché lo stesse facendo, che le era preso? Anche le sue due figlie, Marian e Matilda erano interdette, mentre chi sembrava sapere qualcosa era proprio Lino, che infatti era provvidenzialmente intervenuto per fermare quella furia di sua madre.
Le diceva: “Non è lui … non è lui … l’altro aveva i capelli neri, questo è biondo, non vedi?”, la Furia dovette arrendersi all’evidenza e smise per un attimo di picchiarmi perché permeata dal dubbio, comunque mi guardava in cagnesco ed era pronta a riprendere se non la convincevamo.
Lino le confessò cos’era veramente successo, lui aveva litigato con un ragazzo, questo infuriato l’aveva inseguito fin sotto casa, ma Lino era staro più svelto ed era riuscito a rifugiarsi nel portone di casa sua prima che l’altro lo acciuffasse, così quello si era messo a suonare con violenza il campanello e non avendo risposta l’aveva apostrofato con: “Scendi se hai coraggio, figlio di puttana!”; la madre di Lino, allertata dal suono del campanello e da quelle grida, era venuta a vedere dal balcone cosa stava succedendo e aveva visto quel ragazzo andarsene con le ultime imprecazioni ancora in bocca.
A questo punto però la madre, ancora sospettosa, aveva esclamato: “E la giacca?”, e aveva ragione, va bene che erano molto di moda, ma la mia era particolarmente bella e di uno straordinario colore bruno, che diventava un nocciola chiaro al caldo sole della Sicilia, e poi era rifinita in modo molto raffinato, ma per questo avrebbe dovuto guardarla con più attenzione e non di sfuggita, ma le donne non si sa mai, magari sono capaci di cogliere e memorizzare cose che al resto del genere umano …
”La giacca” – spiegai io – “era proprio la mia”, quel ragazzo di cui Lino aveva fatto il nome era un mio caro amico, a cui piaceva molto la mia giacca e io talvolta gliela prestavo, come anche lui mi prestava qualcuno dei suoi vestiti, un maglione, una giacca, un paio di jeans che mi piacevano particolarmente … la signora, delusa che non fossi io personalmente il malfattore, non volle darsi per vinta così facilmente ed esclamò: “ … e comunque sei un suo amico …”, come  per dirmi: “Scusami se ti ho aggredito, non sarai tu il colpevole, però sei amico del colpevole e probabilmente non sarai molto migliore di lui!”.
Replicai: “Che c’entra, sono anche amico di suo figlio, e quel ragazzo è anche amico di suo figlio  … “, “Che è anche lui un manigoldo…”, “… e sono il ragazzo di sua figlia Marian…”, “ …che anche lei, beh, lasciamo perdere …”, e se ne andò via col fumo che ancora le usciva dal naso e dalle orecchie.   
Qualche tempo dopo accadde che Matilde entrò in camera della sorella, che stava insieme a me in un momento diciamo … intimo e la porta non era chiusa come avrebbe dovuto, come una furia e farfugliava cose che inizialmente non capimmo perché erano incomprensibili, sembrava una lingua sconosciuta, poi pian piano mettemmo a fuoco ciò che stava esclamando: aveva saputo che anche Marian aveva avuto in passato una storia col suo ex ragazzo a sua insaputa e proprio mentre quel ragazzo stava assieme a lei.









Marian, per niente turbata dal fatto che la sorella la stesse accusando di essersi fatta il suo ragazzo mentre stavano ancora insieme, di aver cioè acceso una storia parallela con lui a sua insaputa, e ancora meno turbata che io avessi ascoltato tutto, replicò: “Se sai questo vuol dire che hai frugato nelle mie cose, come ti sei permessa?”, ed iniziarono a prendersi per i capelli.
Il ragazzo di cui parlavano, inutile dirlo, era proprio Peppe u Caliddu, che era riuscito nell’impresa di “farsi” entrambe le sorelle contemporaneamente, anche se una delle due, Marian, sapeva della loro relazione perché era stata proprio Matilde a confessarglielo; inutile dirvi anche che la mia storia con Marian fu una storia lampo, ero stufo di essere picchiato, spolverato come un tappeto, di assistere a feroci litigi fra sorelle e di vedere gente che si butta dalla finestra con l’ombrello. 
Ma ciò che più di ogni cosa mi convinse a chiudere quella storia fu la delusione che provai quando seppi con certezza che lei non aveva mai letto Schopenhauer, vi rendete conto? Nemmeno una pagina del suo Il mondo come volontà e rappresentazione, per questo non avevamo niente da dirci nei nostri momenti di intimità; ma nemmeno sotto dettatura era capace di dirmi qualcosa di stimolante, quando le chiedevo di ripetere: “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me!”, non era convincente, per lei non era filosofia, ma posizioni del kamasutra, la prima parte, il cielo stellato … andava ancora bene ma nella seconda era proprio una frana, aveva la legge morale moscia,
Se Peppe u Caliddu era credibilissimo come amante segreto della figlia del Signorino, e giustificava il fatto che questa storia finora non avesse fatto alcun clamore, data la riservatezza dell’uomo, Paolo il Diavolo invece, brutto com’era, era il più improbabile, per questo ridevano e lo schernivano, come poteva credere che una ragazza così bella, che aveva rifiutato tanti bei pretendenti, potesse posare lo sguardo su uno come lui, così brutto, ma così brutto che se ti appare al buio all’improvviso lo scambi per Lucifero in persona.
Uno “povero e pazzo”, come si dice da queste parti di chi non ha né tarì né talenti, senza un soldo in tasca, senza un lavoro vero (anche se lavorava sempre perché era di buona lena e la gente lo chiamava perché per qualsiasi cosa non si tirava mai indietro ed era affidabile), e all’ultimo posto nella scala sociale e nella stima delle persone, in un paese dove la stima che gli altri hanno di te è tutto, e chiunque la coltiva con più impegno di come coltiva il suo campo.
Per questo qualche deficiente arrivò a gettargli addosso secchiate d’acqua quando lui con la moto passava dalla casa del “Signorino” per corteggiare la sua bella, con la segreta speranza che lei si affacciasse dalla finestra.
Non solo lui, ma nessuno nella sua famiglia veniva preso sul serio in tutto eccetto per il loro diritto di vivere, se i miei paesani li avessero visti laceri ed affamati li avrebbero vestiti e sfamati, ma voler sembrare più bello o anche solo più “ordinato” con un taglio di capelli o col radersi la barba no, era lo smacco per qualunque barbiere vedere uscire un cliente tanto brutto come quand’era entrato, la disperazione dei Figaro locali, per questo non lo facevano pagare, non puoi pretendere niente se non hai cambiato di una virgola la situazione iniziale, non è professionale farsi pagare per nulla e in questo modo, gratuitamente, era come se volessero alleggerirsi la coscienza per non aver ottenuto alcun risultato apprezzabile.







Emerite teste di rapa, di bietola e di cipolla di Giarratana, uscivano tutte impennacchiate e impomatate dai saloni da barba cittadini, ciascuno di loro dopo il taglio e la rasatura poteva sembrar quasi un essere umano, ma nel caso di Paolo il diavolo la situazione era senza speranza, così come entrava, usciva: a vederlo così era orribile, ma più tagliavi e più scoprivi altri difetti, più radevi più il suo volto sembrava irregolare, così accidentato che nemmeno la cava di Spaccaforno (oggi Ispica)…
Nessuno prendeva sul serio la tragedia che viveva questa famiglia in un paese che li isolava, li discriminava, che li considerava appena come facenti parte del gruppo e nessuno prendeva sul serio persino i fatti drammatici che potevano capitare loro; un giorno accadde che il fratellino più piccolo di Paolo, il Diavolicchio, si fosse allontanato da casa per giocare e, poiché abitavano vicini ai binari del treno, il bambino ignaro del pericolo si mise a rincorrere le lucertole su un muro adiacente alle rotaie, proprio mentre passava la littorina.
Non ho mai saputo di preciso cosa accadde in quel momento, o meglio, non ho mai saputo come accadde ciò che accadde, il fatto ha in sé qualcosa di miracoloso anche per me che non credo ai miracoli, il bambino uscì fortunatamente illeso dall’impatto frontale con la littorina, riportò soltanto qualche graffio, qualche scalfittura e un notevole spavento, le signore che assistettero all’incidente lo davano per morto e urlavano come pazze, la madre del bambino si precipitò fuori richiamata dalle vicine e vedendo il figlio per terra, il treno fermo, le donne agitate ed urlanti, lo credette morto.
Quando più tardi raccontarono questa cosa, chiunque ne parlava si diceva certo che non poteva finire altrimenti che così, qualunque altro bambino preso in pieno da un treno sarebbe morto, ma non così un “diavolo”, quelli sono speciali tutta la famiglia ed anche la morte teme di imprimere loro l’ultimo bacio; una storia così avrebbe potuto raccontarla solo Giovanni Verga che riassume lo sconcerto dai minatori della cava per il fatto che mentre il padre mastro Misciu è rimasto travolto dal crollo della volta della miniera ed ha fatto la fine del sorcio, il figlio Malpelo che era con lui è rimasto illeso, con le parole: “- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... “.
Nello stesso modo, con lo stesso sconcerto dei minatori di Verga, i miei compaesani commentavano l’incidente avvenuto al Diavolicchio, come se solo in una famiglia che era già di per sé straordinaria, poteva accadere qualcosa di straordinario, mentre qualsiasi altra famiglia sarebbe andata incontro al più ordinario degli esiti nello scontro fra un bambino e un treno: la morte.
Paolo il diavolo a dire il vero aveva però una passione che gli altri non schernivano, una passione che tolleravano e che ritenevano lecita: il calcio; non che lo giocasse, e forse personalmente non era molto bravo con la palla al piede, ma era un tifoso sfegatato della squadra locale, un ultras, non si perdeva una partita e ben presto presenziava anche agli allenamenti quando non aveva impegni lavorativi.
E quando c’era si rendeva utile, se poteva far qualcosa, mettere a posto gli spogliatoi, mettere via i palloni, ripulire gli spalti, portare acqua o asciugamani ai calciatori, portar da mangiare al cane che stava di guardia, o qualsiasi altra cosa, lo faceva molto volentieri; ben presto divenne la mascotte del campo, benvoluto da generazioni di calciatori, simpatico ad allenatori e alla presidenza, riconosciuto quasi come un’autorità costituita dal vivaio dei “pulcini” che si allenavano con i grandi e un fedele compagno per gli altri tifosi.







Uno della presidenza, affetto da poliomielite fin da bambino perché nato in un periodo in cui non erano ancora diffusi i vaccini,  iniziò a rivolgerglisi come un amico, forse perché anche lui si sentiva diverso dagli altri e poteva capirlo più di altri, forse perché entrambi erano accomunati da una passione il cui scopo era la compensazione di un deficit e il sentirsi uguali agli altri.
Paolo iniziò così a frequentare i circoli calcistici, il bar dello sport sulla piazza principale, lo si vedeva spesso con la Gazzetta rosa sotto braccio, parlava di contropiede, di catenaccio, di assist, di dribbling e di modulo 4-4-2 come se fosse un mister e da lui dipendesse l’esito della partita.
La sua voce quando parlava di calcio e commentava partite veniva ascoltata come quella di chiunque altro, con la stessa autorevolezza, nel mondo del calcio Paolo era uguale a tutti gli altri, appena fuori da quegli ambienti tornava ad essere il “diavolo” e ad avere gli stessi problemi di prima.
Finì col conquistarsi il rispetto di tutti e iniziò anche ad allenare squadre di ragazzini che partecipavano ai tornei cittadini e di zona, vincendo anche ambiti premi e anche quando non vinceva, le sue squadre erano comunque temute e lui era stimato per la sua competenza.
Stupiva allora la doppia vita di quest’uomo, sottovalutato, sottopagato, sfruttato al lavoro, poco stimato nella vita di tutti i giorni, nel suo quotidiano, per cui era impensabile rivolgere uno sguardo ad una ragazza senza affrontare non tanto il rifiuto (che quello sarà capitato almeno una volta nella vita a chiunque di noi), ma proprio il disprezzo, leggere negli occhi della ragazza la superbia, il: “Ma come ti permetti, come osi alzare il tuo sguardo su di me, come puoi anche solo sognare …”.
Quando nell’82 l’Italia vinse i mondiali io avevo sedici anni e con i miei amici facevamo il carosello per le strade gridando felici che eravamo i campioni del mondo, orgogliosi della nostra squadra, orgogliosi di essere italiani, ci sentivamo i più grandi, i migliori e tutto questo era stato conquistato rocambolescamente, con una squadra in cui all’inizio non credeva nessuno, che avrebbe dovuto sfidare per vincere il Brasile di Zico, di Falcão, di Socrates, di Eder, la Germania di Lothar Matthäus e di Hansi Müller, l’Argentina di Passarella, di Maradona e di Kempes.
All’inizio abbiamo faticato a qualificarci, poi stentavamo a passare il turno, però quando abbiamo iniziato ad affrontare le grandi squadre abbiamo tirato fuori il meglio di noi stessi, crescevamo sempre di più di partita in partita e la vittoria precedente ci dava la grinta e la voglia di vincere la successiva.







Alla fine eravamo tutti convinti davvero di essere stati i più forti, di aver meritato quella vittoria, cosa che non è successa dopo la vittoria dei mondiali in Germania del 2006, con una serie di partite non eccellenti, e con le ultime partite definitive quelle della semifinale e della finale molto deludenti: con la Germania abbiamo vinto ai supplementari, con due gol segnati uno al 119’ e uno al 120’, il primo un colpo di culo e il secondo quando la Germania era ormai allo sbando.
Con la Francia va ancora peggio, una partita senza storia che finisce in pareggio, con molto nervosismo in campo, si passa ai supplementari dove accade il famigerato gesto in cui Zidane atterra con un colpo di testa Materazzi e si fa espellere, vinciamo ai rigori con la sensazione inconfessabile di aver rubato un mondiale e che, comunque, nessuno meritava di vincerlo.
Durante quegli interminabili festeggiamenti per la vittoria in Spagna, in cui abbracciavi, salutavi gente che conoscevi appena o che non conoscevi affatto, ballavi per le strade per sfogare la gioia, Paolo il diavolo era li, il più felice di tutti, il più incontenibile, sorrideva col viso, con gli occhi, con tutto il suo corpo, i lineamenti gli si erano addolciti, il colore della pelle era meno scuro del solito, sembrava un po’ più alto e … quasi bello in quell’attimo di felicità.
Più tardi, volendo far capire ad alcuni studenti di psicologia il concetto di Assoluto di Hegel, feci l’esempio di Paolo il diavolo, che in quel momento non era il povero disgraziato che era sempre stato, tenuto ai margini della società, sfruttato e che non poteva guardare una bella ragazza, ma era l’Italia stessa, l’Italia vittoriosa, era come se non la squadra di calcio della Nazione in cui siamo nati avesse vinto i mondiali, ma come se lui stesso, Paolo il diavolo, avesse vinto, come se fosse stato lui a segnare i tre gol alla Germania, come se fosse lui ad avere in mano la coppa del mondo, come se fosse lui il campione, il più grande calciatore sul pianeta.
Ogni frustrazione svanita, ogni affanno dileguato, ogni umiliazione fugata, ogni amarezza nebulizzata, le pesanti ombre nere che coprivano il suo presente e il suo avvenire dileguate, la sensazione di essere diverso e inferiore svanita, c’era posto solo per la felicità della vittoria; attraverso la sua profonda identificazione con la nazione e con la squadra vincente, attraverso la sua forte passione per il calcio, egli era diventato un campione del mondo.
Così, semplicemente, d'emblée, con uno schiocco delle dita, con una facilità incredibile, senza aver dovuto faticare più di tanto, senza sudare dietro ad un pallone per molte ore al giorno da quando sei adolescente o addirittura bambino, senza tornei, partite, senza contrasti, cadute rovinose, tendini spezzati, senza l’ansia della partita e senza la pressione per la vittoria … solo perché era nato in Italia era diventato campione del mondo e con lui altri 56 milioni di abitanti (questi sono i dati ISTAT al 1° gennaio dell’82).
 La facilità con cui questa identificazione può avvenire spiega in parte perché i razzisti di tutto il mondo, i disperati, gli imbecilli e chiunque non abbia alcun talento … e qui non sto più parlando di Paolo, che in fondo è un povero diavolo e che non identifico con nessuna di queste categorie … abbiano la tendenza a sentirsi superiori a qualcuno perché possiedono delle caratteristiche in modo assolutamente casuale.







Si sentono superiori agli altri perché sono nati bianchi, europei, occidentali, maschi, biondi, con occhi azzurri, alti, belli, ariani, padani, eterosessuali, discendenti di Cesare (come se fossero stati loro a conquistare la Gallia e a creare il più potente impero dell’antichità), provenienti dalla stessa patria di Dante, di Leonardo e di Michelangelo (come se avessero scritto loro la Commedia, dipinto la Gioconda o la Cappella Sistina e scolpito il David).
Cercano di dividere il mondo in luoghi che possono essere più o meno privilegiati e più o meno shithole, come se fosse stato un merito per loro essere nati li e non altrove, dividono l’umanità con assurde categorie razziali, in base a presunte differenze genetiche, senza neanche immaginare quanto il loro codice genetico sia simile a quello degli scimpanzé, dei gorilla e dei babbuini, postulano una presunta superiorità della civiltà occidentale come se ciò fosse vero e come se in ogni caso dovessimo ringraziare loro per questa presunta superiorità.
Si arrogano diritti che non possiedono, come considerarsi appartenenti ad una nazione per sangue e non per nascita; quale sangue poi, da questa terra di mezzo sono passati tutti, prima perché siamo al centro del Mediterraneo, poi perché Roma era il centro del mondo, poi perché ondate di barbari hanno calpestato il nostro suolo ed hanno lasciato tracce del loro passaggio nei caratteri somatici degli abitanti, poi perché con le nostre divisioni interne abbiamo subito la conquista dei nostri vicini che si sono costituiti come Stato molto prima di noi e, infine, perché siamo un popolo di santi, poeti, naviganti, filibustieri e figli di buona donna che non sanno star fermi e se viaggi trovi più italiani in giro per il mondo che in Italia.
Siamo tutti bastardi, in 301.338 km² di territorio c’è una macedonia di gruppi sanguigni, colori di capelli, degli occhi, della pelle, siamo dei mosaici genetici che fino all’avvento della televisione non parlavano nemmeno la stessa lingua e non si capivano molto bene fra di loro; mio nonno che ha combattuto durante la Prima Guerra Mondiale al confine orientale non capiva una sola parola dei suoi commilitoni veneti e friulani e loro non capivano lui.
Gente che si da una identità col fatto di essere italiano, bianco, europeo, occidentale, industrializzato, eterosessuale, maschio ,…, come Arlecchino indossa un costume con ritagli di stoffa multicolore e ne è orgoglioso, orgoglioso di nulla, orgoglioso di vento, orgoglioso di vanto; un pagliaccio insomma, una maschera che si inchina e riverisce qualsiasi padrone e che tenta di approfittare di chiunque vede al suo stesso livello, o ad un livello inferiore.
Io sono nato nella stessa terra di Pirandello, Vittorini, Sciascia, Archimede, Empedocle, Federico II, Majorana, Bellini, Scarlatti, Antonello da Messina, Quasimodo, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Bufalino, Camilleri, Antifonte, Teocrito, Filemone, Epicarmo, Simonide, Gorgia da Lentini, Bacchilide, Ibn Hamdis, Verga, De Roberto, …, ne sono molto orgoglioso, eppure non voglio che mi ringraziate per questo, non voglio che mi facciate i complimenti e non pretendo di vincere un concorso o una gara d’appalto, o di avere diritti e privilegi, solo perché mia madre, siciliana, ha voluto partorirmi in Sicilia e non si è avvalsa dello Ius Soli vigente in quel tempo in Uganda.
Penso che chi rivendica diritti e privilegi non per meriti o per bisogno ma per caratteristiche che possiede solo per caso, sia una persona che in fondo teme di non valere niente e che sa che nella sua vita non ha mai fatto niente per meritare e godere di quelle cose.