lunedì 20 marzo 2017

OGGI STESSO!








“Ascoltami come chi ascolta piovere,
né attenta né distratta,
passi lievi, pioviggine,
acqua che è aria, aria che è tempo,
il giorno non finisce di andarsene,
la notte non arriva ancora,
figure della nebbia
al voltare l’angolo,
figure del tempo
nell’ansa di questa pausa,
ascoltami come chi ascolta piovere,
senza ascoltarmi, ascoltando ciò che dico
con gli occhi aperti verso dentro,
addormentata con i cinque sensi svegli,
piove, passi lievi, rumore di sillabe,
aria e acqua, parole che non pesano:
ciò che fummo e siamo,
i giorni e gli anni, questo istante,
tempo senza peso, pesantezza enorme,
ascoltami come chi ascolta piovere,
lampeggia l’asfalto umido,
il vapore si alza e cammina,
la notte si apre e mi guarda,
sei tu e il tuo sembiante di vapore,
tu e il tuo volto di notte,
tu e i tuoi capelli, lento lampo,
attraversi la strada ed entri nella mia fronte,
passi d’acqua sopra le mie palpebre,
ascoltami come chi ascolta piovere,
l’asfalto lampeggia, tu attraversi la strada,
è la nebbia errante nella notte,
è la notte addormentata nel tuo letto,
è l’ondeggiare del tuo respiro,
le tue dita d’acqua bagnano la mia fronte,
le tue dita di fiamma bruciano i miei occhi,
le tue dita d’aria aprono le palpebre del tempo,
sgorgare di apparizioni e resurrezioni,
ascoltami come chi ascolta piovere,
passano gli anni, ritornano gli istanti,
senti i tuoi passi nella stanza vicina?
non qui né là: li senti
in un altro tempo che è proprio ora,
ascolta i passi del tempo
inventore di spazi senza peso né luogo,
ascolta la pioggia scorrere per la terrazza,
la notte è ormai più notte fra gli alberi,
fra le foglie si è annidato il fulmine,
vago giardino alla deriva
– entra, la tua ombra copre questa pagina”.
(Octavio Paz, Come chi ascolta piovere, da Albero interiore (1976-1987), in Octavio Paz, Il fuoco di ogni giorno, Garzanti).







“Uno dei malfattori appesi lo insultava, dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». Ma l'altro lo rimproverava, dicendo: «Non hai nemmeno timor di Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio? Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni; ma questi non ha fatto nulla di male». E diceva: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!» Ed egli gli disse: «Io ti dico in verità, oggi stesso tu sarai con me in paradiso».
(Luca 23,39-43).







È strano, talvolta succede qualcosa a centinaia di chilometri di distanza e intorno al posto in cui accade quasi non se ne accorge nessuno, mentre altrove questo fatto colpisce duramente; ma non colpisce mentre accade, bensì quando vieni a sapere che è accaduto.
È atroce tutto questo, perché per te che sei distante e non sapevi che fosse accaduto, è come se accadesse tutto per la prima volta, li davanti a te, e tu non lo puoi fermare, non puoi fare niente per impedirlo, perché tutto è già avvenuto.
“Ho un altro!”, dice lei, ma come puoi avere “un altro” se non avevi prima “uno”? “Ho un altro!”, dice lei, ma perché dirmelo, perché non segui quel detto aureo … cuore non vede, occhio non duole … “Ho un altro”, dice lei, ma quest’altro l’ha già avuto, mentre per te è come se questa cosa accadesse proprio li davanti a te, e tu non puoi interrompere il loro bacio e il loro abbraccio, perché lui l’ha già abbracciata e baciata, lui l’ha già avuta.
È normale, ti dice la tua mente, poteva succedere ti dice il calcolo delle probabilità, è successo ti dice il tuo cuore e si ferma un attimo perché non può respirare; mi serve un giorno … due … tre … stella … per metabolizzare questo fatto, per vedere cos’è questo per me, cosa significa e come mi cambia.
La macchina giunge all’improvviso, non rispetta lo stop, non rispetta le strisce, se avessi attraversato la strada avrebbe potuto ammazzarmi.
Cos’è successo: una catastrofe? Una di quelle cose irreversibili, che una volta accadute non puoi più tornare indietro? La fine di tutto? Ma tutto cosa, un tutto che non è mai stato niente? La pietra tombale posta su un cadavere mai trovato di un uomo mai nato? La fine di un incubo? Una liberazione?









Riuscirà Astolfo a riportarmi il mio perduto senno dalla luna?
Mi muovo o mi fermo? Che dire? Che fare? Baciare? Cerco il suo numero freneticamente … no, non il suo di lei, lei è già morta nel momento stesso in cui m'ha detto che ha un altro, ho sentito il cristallo del mio cuore tinnire e infrangersi in mille pezzi, non è neanche immaginabile il rimetterli insieme … dell’altra … non sul mio cellulare, li in un impeto di rabbia ho cancellato tutto: il suo nome, il suo numero, i suoi messaggi, le sue foto e persino i suoi messaggi vocali in cui con voce calda e sensuale mi augurava la buona notte, ogni volta con parole diverse, e che invece di conciliarmi il sonno, agitavano le mie notti.
Succede, siamo facili all’ira, soprattutto in amore, basta un niente, un’offesa imperdonabile, un orgoglio ferito, uno smacco subito, un gesto maldestro, la mancanza di tatto, il non corrispondere alle aspettative dell’altro, e gridiamo, sbraitiamo, offendiamo anche talvolta, sbattiamo le porte in faccia e non ci parliamo più per ore, per giorni, per mesi, per anni, per decenni, per lustri, per saecula saeculorum, per millenni.
È più facile uccidere o morire che amare, spegniamo chi amiamo fino a renderlo una cosa insignificante, oppure spegniamo i nostri sentimenti, li soffochiamo, ricopriamo di ovatta il nostro cuore, ci mutiliamo delle nostre emozioni perché abbiamo paura di amare: soffriamo facendo finta di non amare perché abbiamo paura di soffrire amando.
Leggo i testi delle vecchie chat, quando mi diede il numero del suo telefono per la prima volta … che data era … è stato quella sera dopo la mezzanotte o accadde durante quella pausa di lavoro quando apparse all’improvviso? Eccolo, è questo! Non ho dovuto nemmeno cercarlo a lungo e non speravo neanche che dopo tutti questi anni e dopo che non uso più questa chat i testi fossero stati conservati.










È domenica mattina, sono in macchina verso i colli asolani (“Suole a’ faticosi navicanti esser caro, quando la notte, da oscuro e tempestoso nembo assaliti e sospinti, né stella scorgono, né cosa alcuna appar loro che regga la lor via, col segno della indiana pietra ritrovare la tramontana, in guisa che, quale vento soffi e percuota conoscendo, non sia lor tolto il potere e vela e governo là, dove essi di giugnere procacciano o almeno dove più la loro salute veggono, dirizzare; e piace a quelli che per contrada non usata caminano, qualora essi, a parte venuti dove molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da mettersi non scorgendo, stanno in sul piè dubitosi e sospesi, incontrare chi loro la diritta insegni, sì che essi possano all’albergo senza errore, o forse prima che la notte gli sopragiunga, pervenire” (Pietro Bembo, Gli asolani, Libro I, Cap. I, 1530), in una curva all’improvviso mi sbucano due ciclisti appaiati, mi butto alla mia sinistra per evitarli, altrimenti avrei potuto ammazzarli.
E se avesse cambiato numero? E se avesse cambiato vita? E se un principe alieno, proveniente da Alfa Centauri, fosse sceso sulla Terra con la sua bianca navicella stellare e l’avesse rapita su una nuvola di elettroni?
Com’era quell’antica poesia? Ti guarderei se avessi occhi, ti ascolterei se avessi orecchie, ti abbraccerei se avessi braccia, ti bacerei se avessi bocca, ti chiamerei se ricordassi il tuo nome … o forse non era esattamente così, forse non l’ho tradotta fedelmente dall’antico provenzale, dalla lingua d’Oc o da quella d’Oil, forse eo non sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti, forse il suono della cetra con cui il cantore accompagnava il suo canto mi ha impedito la perfetta ricezione delle parole, forse fu la damigella, che incurante del canto e del menestrello continuava a schioccarmi baci vicino alle orecchie che sembravano colpi di lupara.
Il bambino mi attraversò la strada all’improvviso sbucando da dietro una macchina, ho inchiodato di colpo, affondando il piede sul pedale del freno, ho sentito il colpo che mi proiettava in avanti, la cintura che mi stringeva il torace, ho visto che il bambino mi guardava spaventato come se fosse colpa mia che ero li in macchina proprio dove lui voleva attraversare, è una fortuna averlo visto in tempo, altrimenti lo avrei potuto ammazzare.
Il telefono suona una volta … due … tre … stella … e lei mi risponde, la sua voce è calda e sensuale come quando mi augurava la buonanotte (avrò il sonno agitato anche stanotte), mi chiama per nome e io non ho ancora parlato, forse mi ha riconosciuto dal respiro o forse lei non deve avermi cancellato dal suo telefono, come se avesse voluto chiamarmi da un momento all’altro, è emozionata, le trema un po’ la voce ed è anche stupita, non se l’aspettava anche se l’aveva atteso da anni.










All’improvviso i motivi per cui ci siamo sbattuti la porta in faccia reciprocamente non esistono più, si sono diradati, all’improvviso la rivedo com’era, come l’ho vista l’ultima volta, come la fata Morgana appena sbucata fuori dal bosco incantato di Broceliande dopo un lungo sonno, e davanti ho solo lei, i motivi per cui questa donna mi è piaciuta e i motivi per cui mi piace ancora.
“Vediamoci” le dico “oggi stesso!”.








“A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all'altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione”. (Jack Kerouac, Sulla strada, 1957).



9 commenti:

  1. Leggere la poesia con cui hai aperto questo post mi ha procurato un piacevole effetto di "assonanza". Dall'ora della pubblicazione del mio ho visto che tu lo hai pubblicato un'ora prima ma non avendolo letto solo ora mi ha sorpreso il tema dell'ascolto e non so se la poesia di Paz sia il migliore commento possibile al mio post o se il mio post è un contributo per commentare quella poesia!
    Straniante il tuo post, silenzioso direi, come il volto di Buster Keaton, chiuso a ogni emozione. Non perché non le faccia entrare, al contrario, per non farle uscire. Fin da bambino quel volto mi turbava. Keaton è l'ultima maschera tragica del teatro greco sopravvissuta fino al '900. Difficile parlare di fronte a un volto così silenzioso, sembrerebbe una violazione, difficile commentare il tuo post eppure ho sentito la necessità di farlo. Ti abbraccio.

    RispondiElimina
  2. @ Antonio,
    Questo post, come anche alcuni altri nel passato, è venuto fuori di getto, tutto d’un pezzo, come se preesistesse già dentro di me e aspettasse solo l’occasione opportuna per uscire, diversamente da altri post più lunghi, più tecnici, degli ultimi tempi, che sto scrivendo a puntate, come se aspettassi prima io di capire meglio ciò che intendo scrivere.
    Immaginavo già che non fosse così semplice da commentare, anche perché leggendo non sai mai cosa vai a toccare e ti rendi conto subito che la “leggerezza” con cui sembra affrontato l’argomento è solo apparente e non riesce a celare la rabbia profonda che tiene insieme i fili delle parole che compongono questo testo.
    Ma mi pare che tu abbia centrato perfettamente il problema, almeno a livello generale, che è quello dell’ascolto, anzi del mancato ascolto, della rabbia conseguente al non sentirsi ascoltato da chi hai scelto come possibile interlocutore, un interlocutore privilegiato, quello da cui avresti voluto essere compreso, sentito, riconosciuto.
    C’è la rabbia di almeno due persone … forse tre … oltre a quella del sottoscritto, che esplode in questo post, la rabbia di chi non si sente capito, valorizzato, apprezzato se non come un pezzo di carne dalle forme gradevoli e succulento da assaporare, consumare e di cui andar fieri perché qualcun altro potrebbe invidiartene il possesso, la rabbia di chi non vede riconosciute le proprie paure, la difficoltà ad amare, il rischio di fidarsi, la richiesta di rassicurazioni, di certezze, di vie di fuga, di ancore di salvezze, la rabbia di chi vorrebbe la chiarezza assoluta di essere amato, di essere importante, di aver davvero suscitato nell’altro un qualche sentimento, la scintilla iniziale, e poi c’è la rabbia ancora al di la da venire di chi sente solo il tepore e non la fiamma, di chi da qui a poco si accorgerà di essere stato solo un ripiego, un tranquillante, una boccetta di valium.
    La rabbia c’è, è forte, è profonda ed è in continua crescita perché nessuno intende affrontare i motivi veri che suscitano questo sentimento, però non è detto che sia riconosciuta, sentita, pensata come cosa che mi appartiene, forse si cerca anche di soffocarla, con palliativi più o meno assurdi, con strategie di distrazioni, con impegni di lavoro o svaghi di vario genere. È possibile che non le si dia diritto di cittadinanza a questa rabbia nemmeno quando si è da soli con se stessi, perché anche in tal caso ti permetti di sentire solo un vuoto, una mancanza, un languore, un vago desiderio, immediatamente subissato dal voler comprendere tecniche, strategie, dal far entrare in gioco il moralismo che attribuisce le colpe all’esterno e trancia giudizi poco lusinghieri.
    C’è chi reagisce col silenzio, totale, assoluto ostinato, un atteggiamento che evoca miasmi di palude e morte, o gli episodi di catatonia cerea dello schizofrenico, che irrigidisce tutti i muscoli del suo corpo non soltanto per evitare di essere ferito dall’esterno, ma per evitare di esplodere dall’interno, come la “maschera” di Buster Keaton, che serve più ad impedire l’espressione delle proprie emozioni e non a non farle entrare, come hai scritto tu (saresti stato un eccellente collega se solo ti fossi dedicato ad esercitare la mia professione).
    Un silenzio che vorrebbe esprimere noncuranza e indifferenza, ma paradossalmente esprime proprio il contrario, un amore totale, assoluto e ostinato, tanto assoluto e tetragono quanto assoluto e tetragono e il silenzio e tanto fragile che basterebbe che fosse l’altro ad infrangerlo che improvvisamente si dissolverebbe come se non fosse mai esistito, così come si dissolve all’improvviso, così com’è arrivata, la rigidità catatonica e così come il corpo rigido del catatonico diventa cereo se dall’esterno qualcuno supplisce alla volontà di movimento, piegano braccia, arti e muscoli con le proprie mani.
    (segue)

    RispondiElimina
  3. C’è chi reagisce oscillando fra gli opposti eccessi in cui le cose e le persone diventano estremamente importanti in alcuni frangenti e subito dopo possono diventare insignificanti, e questo vale anche per ciò che riguarda se stessi, in base a quanto possono presumere possa farli soffrire ammettere quella parte di sé o dell’altro, esprimerla, accoglierla, riconoscerla, accettarla.
    A volte mi sovviene che la vita è come un tuffo, puoi cercare di farlo bene, con grazia, con eleganza, puoi cercare il divertimento, l’impatto piacevole e rigenerante col tuo corpo, puoi farlo guardandoti con gli occhi degli altri e non con i tuoi, come se tutti stessero li per valutarti, puoi averne paura tanto da non avvicinarti all’acqua, o puoi fermarti sul bordo, senza immergerti, limitandoti a bagnarti solo i piedi.
    Quest’ultimo è il caso di chi oscilla fra un tutto che non è mai completo e non dura altro che un lampo, perché è una luce che non si può sostenere, un impatto che non si può affrontare senza temere di spezzarsi, e il nulla, che non è mai assoluto perché ogni nulla ti avvicina alla morte.
    L’oscillatore finisce per essere un moralista, per addossare la colpa sugli altri, finisce per essere molto feroce verso se stesso e verso gli altri, con un atteggiamento che è sostanzialmente passivo-aggressivo, in cui ti sferra dei calci tremendo con la soavità e la seraficità di chi ti sta facendo una carezza, ti accoltella alle spalle mentre crede di porgerti fiori o ramoscelli di ulivo, ti dice finalmente che ti ama quando stai per morire, così muori anche col rammarico, o ti dice che non ti ama, o che ama un altro, subito dopo aver risvegliato il tuo interesse e averti illuso.
    Così come vive lui sospeso in questa perenne oscillazione fra il rischio che deve correre se vuole inseguire i propri sogni e i propri desideri e la necessità di sicurezza, di tranquillità, di serenità, fra amare ed essere amati, pone l’altro all’interno di questa sua infernale aphoria fra l’essere e il non essere, per cui questo non può mai fare affidamento sulle parole o sui sentimenti che l’altro prova, su ciò che farà, su ciò che desidera veramente, potrà provare a dedurlo, sempre in seconda battuta e quando si convince che le cose stiano in un modo, l’altro fa subito qualcosa che contraddice questa convinzione e ti fa credere invece nell’opposto.
    Con una persona così puoi solo allontanarti, mettere in atto tutta una serie di rituali di controllo dell’altro, della sua vaghezza, che ingabbiano e intrappolano il rapporto fino a soffocarlo, o tollerare le oscillazioni facendo da contrappeso, assumendo cioè la polarità opposta, accendendo il sogno e il desiderio quando l’altro è chiuso nella gabbia protettiva della sicurezza e rassicurandolo quando viene assalito dalle sue paure di osare.
    Poi c’è la rabbia di chi ha bisogno di essere amato per amare, vuole sapere che è importante per l’altro per realizzare di essere importante per se stesso e concedersi di rischiare, quando si convince di questo allora è pronto a darti tutto, ma se ha qualche dubbio reagisce male, se il dubbio è continuo, amletico, la sua rabbia può diventare esplosiva, ma non violenta, diretta a distruggere il rapporto e non l’altro, a tagliare ogni collegamento fra sé e l’altro.
    Infine, c’è la rabbia di chi in un futuro più o meno prossimo si sentirà usato, strumentalizzato, sentirà che il posto che pensava di occupare è di un altro o più facilmente di nessuno, si sentirà come molti altri prima di lui si sono sentiti quando è stato il loro turno, quando hanno realizzato che c’è stato un equivoco fin dall’inizio, uno scambio di persona, in cui è difficile essere la persone che ti viene richiesta di essere, perché non sei tu e perché quella persona non esiste.
    (segue)

    RispondiElimina
  4. Un post che voglia dire tutte queste cose non può dirle così, semplicemente, deve usare un linguaggio immaginifico, onirico, delirante, deve avvertire della confusione che si porta dentro (ecco la citazione di Kerouac), deve giocare sulla maestria melodica di Bill Evans perché si sentano anche tutti i toni dolci che la rabbia rischia di offuscare, deve preparare ad un ascolto diverso, né attento né distratto, come chi ascolta piovere, e deve prepararsi geometricamente ad affrontare una questione che non è solo duale, di coppia, ma triangolare e quadrilatera, come la citazione dell’evangelista Luca in cui Cristo sta fra due ladroni e il quarto è la croce su cui sta appeso.
    Un abbraccio a te
    P.S. ammazza quanto ho scritto, il mio commento è più lungo del post, non mi resta che confidare sulla tua pazienza ;-)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Invece io sono contento del tuo lungo commento, una rassegna della rabbia nella quale ognuno può trovare più o meno agevolmente frammenti di sé, in ordine sparso o variamente mescolati. Mi chiedo quale possa essere il moto di questo racconto onirico, da quale esperienza attinge e di chi. Tua, di altri? Potrebbe non essere poi così rilevante la differenza. Il pensiero fluisce rapido. Non è il river of consciusness di Joyce ma poco ci manca, il commento intendo. Sento forte l'esigenza di svuotarsi. E' un transfert quello che sta avvenendo? Io mi riconosco qui e lì liberandoti di un peso? Grazie per la tua stima ma non posso spingermi in un territorio in cui sarei solo un dilettante balbuziente. A presto.

      Elimina
    2. Io sicuramente sono presente come soggetto narrante, ma non avrei mai potuto raccontarlo senza provare in prima persona tutto ciò che sto raccontando, senza compartecipare ad ogni moto emotivo di ciò che ho scritto, senza sentire mie tutte queste declinazioni della rabbia e tutte le modalità di reazione ad essa. Più specificatamente in questo caso mi riconosco nella rabbia impotente di che non può più far niente perché ciò che si temeva è già avvenuto e di non aver saputo superare unilateralmente i propri limiti sperando che questo semplice fatto potesse avere qualche effetto positivo. Per il resto, c’è la rabbia che sfocia nel fatalismo, che mi fa dire che tutto ciò che accade ha un senso, anche se non sempre lo scorgiamo e che, anche se non sempre ciò che avviene è positivo, ciò che non avviene invece potrebbe esserlo: in altre parole, non sempre ciò che vogliamo è un bene, ma è meglio evitare ciò che non vogliamo. Riguardo al transfert: dipende da cosa intendi per transfert; ti rispondo di si se ne limiti il significato allo sforzo di vivere tutti i sentimenti dei protagonisti in gioco. È più un ululato alla luna di rabbia e di impotenza e una manifestazione d’affetto verso le persone coinvolte e verso chi potrebbe identificarsi in questa vicenda.
      Ciao

      Elimina
  5. @ Giamba,
    se c'è una cosa che mi fa incazzare più di usare il mio blog per pubblicizzare il proprio, è la superficialità con cui si banalizza ciò che si legge o la strumentalizzazione di prendere a pretesto il mio testo per dire cose che con questo non c'entrano niente. Credo sia evidente a tutti che con la citazione di Luca non volevo affrontare un problema dottrinale che riguarda il cristianesimo, né volevo fare la psicopatologia di una religione. Mi interessavano soltanto due parole: "Oggi stesso" che sono il titolo del post, e raffigurare qualcuno che in condizioni di profondo dolore e in procinto di morte si trova di fronte a tre dilemmi, rappresentati da ciò che gli dicono i due ladroni e dalla croce. Per il resto, delirio il cristianesimo, delirio il tuo anticristianesimo ...

    RispondiElimina
  6. "Cuore non vede, occhio non duole"...se si riuscisse ad applicarlo in modo cosciente forse gli esseri umani vivrebbero meglio, ma quel "forse" già da solo è di per se garanzia di discussione. Per certi aspetti è un po' come quel detto "Vivi e lascia vivere" o quanto meno direi che gli assomiglia molto.

    La parabola dei due ladroni ho sempre avuto la tendenza a leggerla come colui che non crede veramente (il ladrone che dice a Gesù: se sei veramente Gesù salva te stesso e salvaci tutti), mentre l'altro ladrone non solo è comprensivo (cioè capisce la figura di Gesù, capisce quale era il suo scopo) ma, come dire, si affida a lui perché ci crede. Quest'ultima lettura fa parte di quel modo di intendere la religione come qualcosa che a volte non vedi (ma non per questo non esiste) e ci credi anche se non in modo fideistico.

    Le foto di Buster Keaton in pochi attimi mi hanno fatto fare un balzo indietro negli anni, quando ero bambino e insieme ai soliti amici al sabato si guardava in TV "Oggi le Comiche" e si rideva a più non posso...

    ...alla fine di tutto mi verrebbe da dire che siamo simbolicamente dei Jack Kerouc confusi nella notte come a volte lo siamo nella vita di ogni giorno. E non è per niente facile divincolarsi, salvo quegli aspetti della vita che conosciamo ma anche su quelli siamo portati al cambiamento e il cambiamento a volte può anche spaventare.

    RispondiElimina
  7. @ Accadebis,
    il testo del motto l’ho invertito di proposito, il “cuore che non vede” è il cuore che non ama e “l’occhio che non duole” è l’occhio che non si accorge; al motto “vivi e lascia vivere” preferisco il detto di Agostino “Ama e fa ciò che vuoi”, che a differenza del primo mette l’amore in ciò che fai e anche nel valutare ciò che fanno gli altri.
    Io non mi sono posto il problema dei due ladroni a livello religioso, ma a livello esistenziale: per me Cristo è diviso, alla fine della sua esistenza terrena, quando non puoi rimandare più oltre la questione del senso che hai dato alla tua vita, fra il far dipendere tutto ciò che sei e ciò che è stato dall’esterno (da un Dio che dovrebbe salvarti, da un Dio che ti ha dimenticato sintetizzato dal suo grido: “Eloì Eloì, lamà sabactani, o da una giustizia degli uomini che ti condanna innocente), o da chi ha coscienza di ciò che è (“noi siamo ladri e meritiamo tutto questo) e, infine, dalla croce, che rappresenta la morte e la fine di tutto. La differenza fra chi è consapevole di sé e della morte e chi invece si pensa in balia di forze esterne è semplicemente che il primo parte sempre da se stesso, dalla sua soggettività, quando si muove e giunge all’altro nella sua soggettività quando incontra qualcuno; mentre il secondo si vede più o meno come una biglia in un campo di biliardo e vede gli altri come biglie al pari di lui da sfiorare, da colpire, da far entrare in buca …
    Da bambino adoravo la figura di Keaton, per le comiche preferivo lui e Stanlio e Ollio, mentre per i film preferivo Charlot.
    Prendere coscienza della nostra confusione e condividerla è il primo punto di luce nella vita, pensare di sapere, di avere le idee perfettamente chiare è sicuro segno che vivi nel crepuscolo.
    Ciao

    RispondiElimina