venerdì 9 ottobre 2015

SENZA MEMORIA E SENZA DESIDERIO 1


Erwin Blumenfeld, Lisa Fonssagrives on the Eiffel Tower, Vogue, 1939

Erwin Blumenfeld, Lisa Fonssagrives on the Eiffel Tower, Vogue, 1939

Erwin Blumenfeld, Lisa Fonssagrives on the Eiffel Tower, Vogue, 1939

Robert Doisneau

Les filles de joie © Georges Thiry  courtesy of the Galerie Lumière des roses


“Non amavo altro che le parole … Avrei innalzato cattedrali di parole sotto l’occhio azzurro della parola cielo”.
(J.P. Sartre, Les mots, 1963).


Robert Doisneau - Un regard oblique (1948)

Robert Doisneau, La-dame-indignée, 1948

Elliott Erwitt, Brasilia, 1961

Les filles de joie © Georges Thiry courtesy of the Galerie Lumière des roses

Elliott Erwitt

Emile Savitry, La Coupole, Paris 1939


"Scomparirò nella nebbia come straniero a tutto, isola umana staccata dal sogno del mare, nave con un essere superfluo a bordo, a galla su tutto."
(Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine).


Richard Avedon, Untitled, 1957

Apache de Pigalle 1938

Robert Doisneau, Selezione per il Concert Mayal, 1952



Helmut Newton, The world famous “Folies Bergère” revue, ca 1953,



Ci sono amori che al loro esordio sono accompagnati da prodigi, da meraviglie, da fenomeni eccezionali, da segnali luminosi in cielo, da stelle comete o da altri fenomeni astrali che mettono sull’avviso i magi, dal carro del sole che abbandona la sua eclittica, la “… strada che mal non seppe carreggiar Fetòn” (Dante, Purgatorio IV, 71-72), sbandando paurosamente verso il cielo, creando così la Via Lattea, o verso la Terra, riducendo la Libia ad un deserto.
Ci sono amori che producono l’incepparsi delle meccaniche celesti, che fermano il moto delle sfere che si produce a partire dal motore immobile regolato dal diverso attrito che da a ciascuna sfera una velocità diversa, e dalla concomitante assenza del suono celestiale delle arpe eoliche, che in genere accompagna il placido movimento degli astri sui loro cardini.
Ci sono amori in cui i cieli partecipano con giubilo, gli angeli squarciano la volta celeste per venirli a sbirciare, le bestie e gli armenti sulla terra sono inquieti, gli alberi fremono e mulinano come neanche nelle più fiere tempeste, il suolo ondeggia con sbalzi tellurici come se Poseidone scuotesse la terra, e il cielo si incendia di scintille prodotte dal martello del dio Thor, che genera il tuono.
Ci sono amori per cui chi assiste ai loro inizi sente le membra sciogliersi in uno strano languore, la mente è incapace di pensare, il cuore si blocca, assediato da una strana angoscia, le gambe ti reggono in piedi a malapena, avverti addosso una strana ed inspiegabile agitazione, le donne mostrano scollature più audaci e gli uomini non finiscono più di ringraziare di poter godere di quei frutti del paradiso, e con occhi dolcissimi (che stanno un po' più in alto del loro seno) ti chiedono un calice di vino e tu porteresti loro l’intero vigneto
Ma niente di tutto questo avvenne quando iniziò l’amore che vi voglio raccontare, l’incontro fra quest’uomo e questa donna avvenne nel più banale dei modi, senza tanti fronzoli, senza che se ne occupassero i giornalisti, senza le foto della stampa scandalistica, senza il tintinnio di cucchiaini nelle tazze da the, il frenetico fruscio degli abiti di seta delle signore che denuncia una certa agitazione, senza quel mormorio nei salotti, il frinire incessante che ingigantisce qualsiasi cosa tanto più quanto più è sommesso e sottovoce, e lo distribuisce alla città intera.

Albert Camus al café “Les Deux Magots” (Parigi, 1945)

Robert Doisneau

Brassai Paris Taschen Brassai on Pinterest Paris

Brassai, Gipsy dancer

Brassai, La bande du grand Albert-1931-1932

Opera, Paris 1960, Jean Loup Sieff



Frequentavano gli stessi posti, avevano molti amici in comune, presenziavano agli stessi eventi, niente di strano, dunque, che finissero prima o poi per incrociarsi vis a vis; e forse tutto avvenne nel più banale dei modi, come capita alla maggior parte delle persone comuni, con un amico di entrambi che fa le presentazioni.
Così alcuni raccontarono che successe, assistevano entrambi alla prima del film di Jean Renoir Le Crime de Monsieur Lenge il primo gennaio del 1936 a Parigi, lui era stato invitato direttamente dal regista, lei era la fotografa di scena, un amico comune ad entrambi li presentò, e da li in poi seppero trovare da soli i pretesti per rivedersi.
In ogni caso non era la prima volta, quella, che le loro strade si intersecavano, era semmai l’ufficializzazione del loro incontro, ciò che fa pensare a ciascuno di noi che adesso che c’è stato il riconoscimento pubblico, adesso che io so ufficialmente chi sei tu e tu sai ufficialmente chi sono io, posso attendermi un saluto da te, o magari che ti fermi a fare due chiacchiere o, chissà, che possa accadere qualcosa fra di noi, visto che siamo stati insigniti di pubblica investitura.
È facile che si fossero visti altrove in precedenza, e che abbiano preferito rimanere due estranei, o abbiano preferito “studiarsi” ancora un po’ a distanza, oppure preferivano uno scenario diverso, un “galeotto” diverso (ricordate i versi famosissimi che Dante fa dire a Francesca? “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse …”) che li mettesse in contatto.
Il “galeotto” in questione poi era pure poeta e la poesia è ineliminabile in certi frangenti, seppure la poesia sia responsabile delle peggiori catastrofi sentimentali degli uomini, dove c’è poesia aspettati sempre di essere elevato fino al cielo e di ricadere inevitabilmente nella polvere … per questo gli uomini del passato si sposavano per contratto stipulato dai rispettivi genitori e relegavano la poesia nella più profonda intimità, oppure la bandivano dalle loro case come trastullo adolescenziale o melanconia senile.
Di certo sappiamo che lei aveva senza dubbio sentito parlare di lui, che già da un pezzo era famoso, ma non di una fama localizzata a Parigi o alla Francia intera, la sua fama varcava ormai ogni confine, ed era impensabile che una donna che frequentasse gli ambienti artistici parigini non sapesse chi fosse quell’uomo o non ne avesse mai sentito parlare, quando ormai il mondo intero parlava di lui.
Anche lei, pur non raggiungendo le vette di notorietà a cui si era elevato lui (il paragone è peregrino perché praticavano due arti diverse: lui un’arte che aveva una storia antica, lei un’arte tutta moderna, che si era affermata relativamente da poco), era abbastanza nota e molto stimata nel suo ambiente.
Lui vide per caso un ritratto di lei scattatole ancora una volta da un amico comune, una foto “solarizzata” in cui lei incorniciava il suo sguardo profondo con le bellissime dita della sua mano che cadevano maliarde sulla sua fronte, allo stesso modo di una piccola spilla che le pendeva sulla guancia sinistra e che mostrava il medesimo intreccio di dita … fu la folgorazione, si innamorò di quell’immagine, di quello sguardo e di quella posa forse ancor prima di vederla dal vivo, e fece di tutto per farsela regalare.


Dennis Stock, Cafe de Flore, Paris, 1958

Café de Flore at the corner of Boulevard Saint-Germain and Rue St. Benoit, in the 6th arrondissemen

Café de Flore, 1885


Robert Doisneau



Ma l’incontro fra uno che era già ritenuto una leggenda vivente già in vita, successo eguagliato in passato solo da Raffaello Sanzio e mai più raggiunto da altri, non a quelle proporzioni, e una donna dalla carriera molto promettente, quella che poteva elevarsi al suo livello fra tutte quelle che lui aveva avuto, quella che poteva starle al fianco, forse l’unica in assoluto, sul quale si sono scritti centinaia di libri, versate piogge di inchiostro, consumate parecchie cartucce del toner, non poteva essere così ordinario e deludente, bisognava che fosse straordinario, eccentrico come si conviene alla grandezza dei due protagonisti e fosse anche presago del loro futuro … che legioni di storici, storici dell’arte, giornalisti, psicologi e psicoanalisti potessero trovare materia su cui affondare i loro denti per parecchi secoli a venire.
Volete anche il prodigio? Eccovelo! Nel gennaio del 1936 la signorina Henriette Theodora Marković si incamminava a piccoli passi battendo sul marciapiede i suoi tacchetti non molto alti, col suo “portamento da sfinge e gli occhi persi in un altro mondo” (come fu definita) verso un tavolo del Café de Flore in Saint-Germain-des-Prés, a Parigi (altri giurano che avvenne, invece, al Deux Magots, poco distante dal Flore).
I café parigini, in particolar modo i due appena citati, sono sempre stati frequentati dal fior fiore dell’intelligenza e della sensibilità artistica, da quando Parigi si era affermata come polarità artistica e culturale in Occidente, da quando i francesi hanno iniziato a favorire il soggiorno di artisti, pensatori e scienziati nella loro capitale, questi locali divenivano centri imprescindibili di confronto, di crescita, di scambio e, perché no, luoghi in cui stabilire una volta per tutte competenze, priorità, vedere riconosciuto il  proprio lavoro, il proprio valore personale e il proprio posto nella gerarchia dei colleghi.
Erano centri di divulgazione della propria opera, punti per farsi conoscere, non di rado venivano frequentati da editori, critici e mercanti d’arte, possibili acquirenti, mecenati o semplicemente persone in grado di apprezzare un lavoro ben fatto, un concetto ben pensato un sentimento ben espresso; ma erano anche luoghi di relax, di ricerca del puro e semplice divertimento, dove poter fare qualche amicizia o dove poteva sorgere qualche amore o qualche liaison plus o moins dangereux.



Brassai La París de los perdidos

Edith-Piaf in a Parisian cafe ca. 1936. Photo by Jean Gabriel Séruzier.

FRANCE (Île-de-France) - Les Deux Magots in Paris, 1696 

George Brassaï An English girl in her dressing room at the Folies Bergère, 1932





Li frequentavano quasi tutti, dai grandi nomi affermati come Brassaï, Man Ray, Jeanloup Sieff, Henri Cartier-Bresson, Richard Avedon, Amedeo Modigliani, Paul Cézanne, Henri Matisse, Joan Miró, Albert Camus, Guillaume Apollinaire, Jean-Paul Sartre, Simone De Beauvoir, Antonin Artaud, Tristan Tzara, Max Ernst, René Magritte, Jacques Lacan, Paul Èluard, Lee Miller, Robert Doisneau, Maurice Merleau-Ponty, Jacques e Pierre Prevert, Luis Buñuel, Georges Bataille, Salvador Dalì, André Breton, Yves Tanguy, Léonor Fini, Giorgio De Chirico, …, fino agli autentici sconosciuti, che magari si faranno luce più in là, o rimarranno appunto sconosciuti.
Ma non per questo furono poco importanti, perché le grandi opere artistiche, le grandi cattedrali del pensiero, nascono da un terreno collettivo, da un ambiente fertile, in cui molte suggestioni, idee, illuminazioni, sorgono da più fuochi e da una comune kunstwollen (o volontà artistica) che permette ad una generazione di artisti di andare nella stessa direzione generale e di parlare lo stesso linguaggio, e il grande artista è quello poi capace di tirare i fili di questa immensa rete per trarne quei capolavori che caratterizzeranno quello stile, quel periodo artistico, quell’artista in particolare.
Ci si divertiva parecchio nel corso degli anni 30 a Parigi, la grande guerra era terminata e tutti credevano che non ci sarebbero state più guerre, non di quella portata almeno, non “mondiali”, la “grande depressione” del 29 era più recente della guerra e aveva lasciato tracce ancora visibili, forse per questo si era più invogliati a vivere, si respirava proprio questa “avidità” di vivere, la bramosia di esperienze, l’inquietudine fra il non perdersi un’occasione, la ribellione all’autorità normativa costituita, attraverso l’ironia, la provocazione o la franca distruzione del passato, e la malinconia profonda del nulla e del vuoto, sempre in agguato a  sussurrarti beffardamente sillabando le parole:
«O Zarathustra … tu, pietra filosofale! Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve – cadere! O Zarathustra pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, - ma ogni pietra scagliata deve cadere! Condannato a te stesso, alla lapidazione di te stesso: o Zarathustra, è vero: tu scagliasti la pietra lontano, - ma essa ricadrà su di te!» (F. W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, La visione e l’enigma).





Stanley Kubrick

Robert Doisneau, La derniere valse du 14 juillet, 1949 

Willem van de Poll Café de la paix Paris 1935




E davvero non esisteva nessuno in tutta Parigi che non volesse lanciarsi in alto, che non fosse convinto di essere lui l’unica vera e autentica pietra filosofale, il migliore di tutti, nessuno che non volesse avere riconosciuto il predominio che nella sua mente si profilava netto; non bastava essere fra i grandi, ciascuno voleva essere il più grande di tutti, non bastava vivere bene, ciascuno voleva vivere meglio di tutti gli altri, possedere ciò che gli altri non hanno, esperire tutto ciò che gli altri non potranno mai esperire, provare e sentire cose che nessuno mai prima aveva provato e sentito, eseguire il capolavoro dei capolavori.
Non stupisce allora che i momenti di scoramento, di malinconia, di rabbia, di impotenza si alternassero a momenti di esaltazione, che si rincorressero periodi di frenesia di vivere, di fare, di immergersi in ogni cosa, con periodi di profonda tristezza e scoramento, di depressione, di autodistruzione, il consumo di alcol e di droghe era smodato, si conosceva l’assenzio, il laudano, l’oppio e se ne faceva largo uso, oltre ad ogni tipo di bevande alcoliche.
Quasi del tutto tramontata l’attrattiva delle danseuses del Moulin Rouge e del Café de Paris, la Troupe de Mlle Églantine, le chahuteuses con le gonnelle rosse e gialle che ballano la quadriglia all’Elysée-Montmartre, le filles de joie, le donnine di Henri de Toulouse-Lautrec, la Goulue, Nana-la-Sauterelle, la Grille-d’Égout che rideva mostrando una fessura fra i denti, o Rosa-la-Rouge, la sua modella preferita, che passerà alternativamente dalle sue tele alle sue lenzuola e che gli regalò la sifilide oltre alla pietà di qualche momento d’amore.
Divertimenti che appartengono alla generazione precedente e che ritorneranno in auge nel secondo dopoguerra, in concomitanza con il turismo soprattutto giapponese e statunitense, che va in vacanza a Parigi sperando di ritrovare l’atmosfera di fine ‘800, la Belle Epoque, e di incontrare ancora Monet, Degas, Renoir, Bazille o Caillebotte, come chi veniva in Italia sperava di incontrare Fellini, via Veneto, i paparazzi, la Dolce Vita, Anita Ekberg che fa il bagno nella fontana di Trevi (magari nuda, stavolta) e il pizzardone che ti fa la multa perché hai lasciato la macchina in doppia fila con la scritta "mo' a levo, sto a parlà ch'amici!"  .
Si ascoltava musica dai ritmi sincopati negli anni ‘30, il jazz, lo swing, il fox-trot, il ragtime, che provenivano dall’America, si poteva vedere Josephine Baker muoversi come una pantera, Juliette Gréco che scendeva le scale del Tabou, Edith Piaf con la sua voce tremula intonare melodie francesi accompagnata da una fisarmonica, o La bella Otero al Folies Bergère, Cléo de Mérode, Anna Fougez e Lina Cavalieri esibirsi nei vari locali della capitale francese, o nei teatri o nelle sale cinematografiche.



Le Tabou club

La Galerie Lumière des Roses présente «Georges Thiry et les filles de Joies»

Robert Doisneau

Robert Doisneau Au saint Yves, Saint germain des-pres, Paris, 1948

Robert Doisneau



Dai locali notturni uscivano anche suoni di melodie latine, napoletane e spagnole vista la nutrita rappresentanza italiana e spagnola in terra di Francia, mischiarsi  con la musica popolare francese, anche quella dei quartieri malfamati, dove la malavita brulicava e faceva i suoi affari, quella ballata a suon di strattoni e di schiaffoni dagli “apaches”, quei tizi col basco calato fino alle sopracciglia, i basettoni lunghi che terminavano a punta, l’immancabile maglia a righe e l’eterna sigaretta in bocca, che avevano il loro harem di protégées nel quartiere di Pigalle.
Si discuteva, si scherzava o si ballava fino all’alba nei tabarin, nei café chantant, nei café charmant, nei café séduisant, plaisant, fascinant … nei cafè insomma, nei cabaret, nei locali equivoci dei quartieri equivoci (i peggiori bar di Marais …), dove potevi trovare tutti gli stimoli che volevi (e anche quelli che non volevi) e fare incontri di ogni tipo, da quelli fortunati che ti fanno entrare in cerchie elitarie di persone fino a quelli sfortunati, che ti ripuliscono delle tue magre sostanze, ti malmenano e ti gettano malconcio in qualche vicolo o in qualche canale della Senna.
Per pochi franchi potevi trovare un pasto decente, sollievo ai fastidi del giorno, un po’ di svago, qualsiasi tipo di sostanza lecita o proibita potesse modificarti in meglio il tuo stato di coscienza, fino a darti pace, beatitudine ed ebbrezza, e un qualche surrogato dell’amore nelle sembianze di qualche ragazza parigina dei quartieri malfamati.

O qualcuna che era giunta dalla provincia per amore o con tante belle speranze e che si era ritrovata a battere i marciapiedi o a girare per i locali in cerca di clienti,  o una qualche ragazza proveniente da chissà dove (dalla Russia dopo la rivoluzione, o da altre zone d’Europa del sud o dell’est, o una ragazza dalla pelle ambrata, proveniente dalle colonie francesi e che parlava il francese molto meglio delle parigine, perché lei era andata a scuola dai missionari, mentre tante ragazze francesi povere erano totalmente ignoranti).

SENZA MEMORIA E SENZA DESIDERIO 2


Jacques-Henri Lartigue (French, 1894-1986) 'The Crystal Ball'

Robert Frank, Mary With Large Daisy In Her Hair


Man Ray, Kiki de Mountparnasse

Brassai,  Lovers in the Latin Quarter, 1932



"Non potrei dire chi sono, non ne ho la minima idea! Sono qualcuno che non ha origini, né storia, né paese e ci tengo! Sto qui, sono libera, posso immaginarmi tutto. Tutto è possibile. Non ho che da alzare gli occhi e ridivento il mondo."
(Marion, Il cielo sopra Berlino, 1987,  Wim Wenders).


Da sx: Tristan Tzara, Paul Éluard, André Breton, Hans Arp, Salvador Dalí, Yves Tanguy, Max Ernst, René Crevel e Man Ray

Lee Miller, Selfportrait in headband, 1932

Paul e Nusch Eluard mimano un bacio osservati da Ady Fidelin, Man Ray e un terzo amico di cui non so il nome, in una scampagnata, 1937

Man Ray, Kiki

Maurice Louis Branger, Terrasse de cafc, Paris, 1925


Jacques-Henri Lartigue


"Imagination is not a gift. It must be conquered."
(André Breton).

Man Ray e Louise de Vilmorin

Nusch e Paul Eluard

Brassaï - Woman dressing in costume in front of mirror, ca. 1936

Ady Fidelin e Nusch Eluard


Henri Cartier-Bresson, Paris 1952



Era un mondo aperto, in continua evoluzione, molte cose nascevano e morivano a Parigi e il resto del mondo cercava poi di copiarle maldestramente, sul versante tecnologico e della modernità era già insidiata dalle grandi città americane: New York, Boston, Washington, Los Angeles …, sul versante dell’istruzione superiore non soltanto Parigi e la Francia, ma l’Europa intera stava cedendo il primato.
Alle storiche e prestigiose università della Sorbonne, di Orléans, di Avignon, di Bologna, di Padova, di Napoli, di Oxford, di Cambridge, di Salamanca, di Valladolid, di Heidelberg, di Lipsia e di Tubinga, la nuova alta borghesia americana preferiva ora le università di Stanford, Berkeley, Yale, Harward, Princeton, New York, Columbia, come luoghi di pari livello, se non proprio superiori e più adatti, per formare la nuova classe dirigente americana.
Se ancora ad inizio secolo le università americane avevano quella sorta di soggezione e di reverenza verso la cultura e i centri culturali europei, nel giro di pochi decenni la situazione si capovolse completamente tanto da ribaltarsi di 180°.
Ciò fu possibile grazie a due rovinose guerre combattute prevalentemente in Europa da europei, che fermarono ogni tipo di sviluppo che non fosse quello bellico, e quello della chirurgia d’emergenza e dell’uso degli anestetici, agli scambi culturali (loro si tenevano in contatto con noi, mentre noi li snobbavamo) e alla migrazione di massa delle più grandi menti del nostro continente, che li arricchirono unilateralmente, ai massicci investimenti nella ricerca che giustificano ampiamente la loro supremazia scientifica, culturale e tecnologica.
Se Parigi infine era riuscita a prevalere nella competizione con città altrettanto agguerrite come Berlino e Vienna per il predominio tecnico, scientifico e culturale, fra la fine del XIX° e gli inizi del XX° secolo, pian piano inizia a perdere terreno su tutti i fronti; in pratica si ripropone la stessa situazione che aveva visto il declino delle città italiane, che fino a tutto il ‘600 mantengono un certo primato, ma che poi sono costrette a cedere il passo ai più grandi, più organizzati e più potenti stati europei come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale il predominio dell’America (e della Russia) nei confronti dell’Europa è netto, Parigi negli anni trenta (molto meno oggi) deteneva ancora la fama di capitale mondiale dell’arte, del buon vivere, del gusto, della raffinatezza, del buon vino, della buona cucina, del saper vivere e del divertimento.


Gisèle Prassinos Reading her Poems to the Surrealists (1934). Photo by Man Ray. Silver gelatine print. National Galleries of Scotland.

Man Ray, Lee Miller

Lee Miller in Lamb Creek

Robert Doisneau, 1950

Erwitt




E fintanto che la bussola dell’arte si ispirerà ai principi del bello e del tragico, di ispirazione greco-romana, le opere d’arte non potevano non nascere ed essere ispirate da una cornice bella (come Roma, Firenze, Venezia, Parigi), e tragica nello stesso tempo, perché il tragico è il paradosso del bello; e l’artista era in genere bello e dannato, dotato di esprit maudit … come Modigliani … o soltanto dannato, che però produceva cose belle.
Paradossalmente sono proprio le ultime generazioni di artisti parigini, dagli impressionisti, alle avanguardie, passando per Picasso, Cezanne, Matisse e Van Gogh, che spezzano la linea retta, criticano il concetto di forma, di prospettiva, di simbolo, tracciano linee di forza e di energia, puri segni che non esprimono concetti ma sensazioni, che rompono ogni legame col passato e sostengono che l’arte non ha storia, non ha genitori, non ha tradizioni, non ha progresso o regresso, non ha alcuna universalità, ma è il sorgere istantaneo del genio che interpreta il suo tempo, a far si che l’arte possa nascere anche in una città quasi del tutto priva di storia e di bellezza, come New York.
Ma in attesa dei grattacieli più alti del mondo, dei palazzi di vetro, di vie dove è difficile guardare il cielo, del sorgere delle prime tecnologie, della sede del nuovo impero economico e politico del mondo, e della completa trasformazione dell’opera d’arte come merce che abbia un prezzo sul mercato e dell’artista il cui nome è un marchio al pari della Campbell’s tomato soup, la vecchia Parigi ancora attraeva e ispirava spiriti randagi.
Non solo pittori o scultori, romanzieri o letterati, storici e filosofi, Parigi brulicava letteralmente di cineasti e di fotografi, dopo le provocazioni e la follia pantoclastica dei dadaisti, cominciarono a far capolino sulla ribalta della città più celebre al mondo alcuni individui che si caratterizzavano come appartenenti ad una delle più folli concezioni artistiche che abbia mai imbrattato i manuali di storia dell’arte: il surrealismo.
Per fortuna Philippe Pinel aveva liberato gli alienati dalle catene nel sanatorio di Bicêtre a Parigi fin dal 1793, altrimenti molti dei cosiddetti surrealisti sarebbero stati internati e sarebbe stata buttata via la chiave; quando Sigmund Freud incontrò Salvador Dalì, che apparteneva a questa corrente artistica, commentò che era matto da legare, seppure geniale.

Philippe Pinel à la Salpêtrière

Salvador Dalì e Man Ray

Man Ray, Nusch Eluard


Lee Miller Fashion Assignment - Girl on bike in front of Eiffel Tower, Paris

Luxembourg gardens Jean Arty Paris 1950s



Loro, invece, i surrealisti, adoravano Freud,  sostenevano che tutto ciò che proviene dall’inconscio, attraverso i sogni, i deliri, gli automatismi mentali, la stessa follia, è autentico, il resto è soltanto convenzione sociale, adattamento al mondo; il pittore e il fotografo devono cercare di catturare i momenti di estrema spontaneità degli individui, ciò è più facile con i poveri, i derelitti, gli ubriachi, gli artisti, i delinquenti, i bambini, gli stranieri appartenenti a popolazioni più primitive rispetto a quelle europee, tutti coloro che erano in qualche stato alterato di coscienza: gli innamorati, i mistici, gli infelici.
Parigi era la citta più fotografata al mondo, e non c’erano ancora i turisti giapponesi, si fotografava la gioia e il dolore, si fotografava la vita e il divertimento, si fotografava la gente al lavoro, un artista nell’istante della sua creazione, si fotografavano abbracci, baci, danze, come mai si era fatto prima d’allora e come non si faceva altrove.
C’era nell’aia una voglia di esprimersi, di mostrarsi per ciò che si è, di manifestare i propri pensieri e i propri sentimenti, non era raro vedere sul lungosenna, sulla rive droite o sulla rive gauce, una coppia che si stringeva in un bacio, non era raro che accadesse nei café, questo mentre in Italia, ad esempio, un bacio era considerato ancora un atto osceno se dato in un luogo pubblico … oggi alcuni lo considerano ancora osceno se a darselo è una coppia omosessuale, a me pare che l’oscenità stia soltanto nel considerare osceno un bacio, o l’amore in generale.
Si fotografavano anche fra di loro, nella loro creatività e nella loro intimità, parafrasando Quasimodo (Acque e terre, 1930): « Ognuno sta solo sul cuor della terra/trafitto da un raggio di Sole: ed è subito selfie», per questo abbiamo una quantità sterminata di documentazioni fotografiche e delle testimonianze circa le reciproche invidie, gelosie, intrecci di amore e di passione fra i protagonisti di quello scorcio di secolo che ci hanno lasciato la loro impronta umana e artistica più o meno profonda.
Amici, testimoni e materiale pittorico, scultoreo e fotografico cercano di renderci conto del milieu di quell’epoca, almeno fra i suoi protagonisti più noti, e dei giri mirabolanti di infiammazione amorosa o artistica che potevano posarsi ora sull’uno ora sull’altro degli oggetti o delle persone che gravitavano in quell’ambiente sociale.
Nonostante la presenza di donne fra gli artisti era maggiore all’epoca precedente, a quella degli impressionisti, quello era pur sempre un ambiente maschilista; si sperimentavano nuove soluzioni amorose, c’era certamente più libertà sia per l’uomo che per la donna, ma ciò non vuol dire  che sentimenti come la gelosia e il tradimento fossero banditi.
Spesso, anzi, si accendevano vere e proprie risse per questioni di corna, anche se in alcuni casi era tollerato il triangolo o la coppia aperta.

Salvador e Gala Dalì

Photograph of Lee Miller at Hotel Vaste Horizon, Mougins, France September 1937

Brassai (Gyula Halasz) - Picasso at the Café de Flore, Paris

Dennis Stock, Café de Flore  -  Paris 1958



Adrienne Fidelin e Lee Miller

Elena Dmitrievna D’jakonov, che fu chiamata Gala dal poeta francese Paul Éluard, che fu il suo primo marito, durante il matrimonio con lui fu musa ispiratrice di altri artisti ed ebbe qualche relazione extraconiugale con alcuni di loro, in particolare Gala e il marito Paul giunsero a condurre un ménage à trois con Max Ernst.
Questo durò finché Gala non i invaghì perdutamente del giovane pittore catalano Salvador Dalì, ma questo amore sconfinato che lei sembrava provare per lui non le impedì certo di avere le sue numerose relazioni con altri uomini, la cosa era talmente strutturata ormai che lei faceva da sola le sue vacanze in Italia o in Spagna finalizzate appositamente agli incontri amorosi con i suoi amanti.
Man Ray, uno dei più attivi e più noti fotografi surrealisti, incontrò Alice Prin allora ventenne,  una giovane figlia illegittima scappata dalla madre che viveva facendo da modella a pittori e a scultori, col suo fisico strepitoso, o esibendosi in qualche locale oppure, occasionalmente, prostituendosi, anche se lei preferiva comunque far l’amore per piacere e non per bisogno.
Alice, quella che divento poi Kiki de Montparnasse, quella ritratta in molte pose da fotografi e artisti,  quella del Violon d'Ingres dello stesso Man Ray, in cui viene ripresa di schiena, completamente nuda, con un turbante o un asciugamano in testa, e sulla schiena, perfettamente simmetriche, ha le due f che indicano le aperture della cassa armonica di un violino.
Il titolo che Man Ray da a questa foto, Violon d’Ingres, cioè il violino del pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres, fa esplicito riferimento a notorio passatempo preferito di questo pittore, che era appunto il violino, a cui dedicava un impegno e una passione maggiori della pittura.
È un modo ironico e intelligente per dirci che per lui il fondoschiena di Kiki era ciò che il violino rappresentava per Ingres; certo, una donna difficilmente avrebbe potuto essere un violon, la sua dimensione ne fa almeno une viole de gambeou miex d’amour (perché la viola è lo strumento d’amore per eccellenza), o anche un contrebasse, dipende dalla grandezza.
Difficile a questo punto non notare la somiglianza esplicita, l’omaggio reso dal fotografo al grande pittore, fra la sua Violon d’Ingres e La Baigneuse de Valpinçon, del 1808, esposta al Louvre e quindi facilmente accessibile ad un fotografo che si dilettava anche di pittura come Ray; molto probabilmente quest’ultimo vuole suggerirci che anche Ingres apprezzasse i fondoschiena femminili, almeno quanto gli piaceva suonare il violino … lo tradiscono la sensualità che imprime nelle linee che determinano la figura, l’estrema attenzione alla luminosità e ai dettagli, quel fondoschiena sembra quasi che parli e non ci dice solo quanto è bello, ci dice anche quanto dovesse piacere a chi lo dipinse e pure a chi lo osserva.

Man Ray. 'Self-portrait with the lamp' 1934

Man Ray, Le Violon d’Ingres, 1924

Man Ray (1890-1976) 'Kiki de Montparnasse' 1923 .

Ed van der Elsken, Paris 1950s,

Elegant women Paris circa 1930 Albert Harlingue

Uncredited veiled nude, 1930s pour huit jours a Trebaunec, George Hugnet


La donna come strumento musicale, il culo della donna da suonare come fosse una viola, c’è ovviamente molta ironia in questa foto, come era tipico di Man Ray, che filtrava la sua spontaneità attraverso l’ironia, che rappresentava un salutare momento di distacco fra lui e l’emozione suscitatagli da ciò che stava osservando.
Nella sua autobiografia Alice scrisse che durante quell’incontro lei era seduta al tavolino di un caffè insieme ad un’amica, il cameriere era riluttante a servire quelle due signore, Alice realizzò che ciò avvenisse perché erano senza il cappello (segno che non si trattava di gentildonne) e, rivoltasi a lui esclamò: “Non ci vuole servire perché pensa che siamo due puttane?”. Così dicendo i sfilò le scarpe e appoggiò un piede sul tavolino e uno sulla sedia di fronte. Man Ray, appena giunto a Parigi dagli stati Uniti per unirsi al movimento dadaista, era presente a quella scena e chiese a quella signorina se voleva posare per lui, dopo essersi presentato come fotografo.
Lei non accettò subito, aveva già esperienza come modella per pittori, ma era riluttante perché temeva che la macchina fotografica esaltasse i suoi difetti fisici; lui, tuttavia, dovette essere molto convincente se soltanto qualche minuto dopo i due si trovavano in una camera d’albergo e lei era completamente nuda, ma contrariamente a ciò che avevano pattuito in quella sessione fotografica non si udì alcuno scatto dell’otturatore, si ritrovarono ben presto avvinghiati nel letto.

Edouard-Boubat

Pablo Picasso, Il bacio, 1969

Kiki vertical mask Noire et blanche, 1926 Man Ray

Kiki

Man Ray, Kiki

Robert Doisneau, Il Bacio dell'Hotel de Ville, 1950 ©-atelier Robert Doisneau


Da quel momento i due fecero coppia fissa per ben sei anni, lui diventava sempre più famoso con le sue fotografie, lei si esibiva al Jockey, un locale notturno di dubbio gusto dove si ballava il can can; ballava e cantava, ma era sempre ubriaca, dimenticava le parole delle canzoni, che del resto non importavano a nessuno, e per salvare lo spettacolo saliva su un tavolo, piegava la testa e la schiena all’indietro ed alzava le gambe fra il visibilio dei presenti, visto che non indossava le mutande.

Una ragazza senza padre, con una madre che si era occupata di lei e l’aveva cresciuta senza mai una carezza, da cui si era smarcata precocemente perché non accettava autorità alcuna, che non riusciva ad essere fedele nemmeno all’uomo che diceva di amare, e che con esibizioni come questa o con gesti di dubbia affettuosità verso clienti ed amici seminava dubbi, incertezze, provocazioni nell’uomo che amava, non stupisce che accadessero continue liti fra lei e Man Ray, che era molto geloso e che assisteva a tutti i suoi spettacoli, spesso si scatenavano liti furibonde fra loro due, dove lui la picchiava in presenza di tutti, e lei replicava con calci, morsi, pugni e lanci di piatti e di bicchieri che erano lo spettacolo dentro lo spettacolo.

(continua).

Ringrazio il mio carissimo amico Armando per avermi fatto conoscere, molti anni fa ormai, questa bellissima canzone nelle diverse versioni in cui è stata interpretata.