venerdì 9 ottobre 2015

SENZA MEMORIA E SENZA DESIDERIO 2


Jacques-Henri Lartigue (French, 1894-1986) 'The Crystal Ball'

Robert Frank, Mary With Large Daisy In Her Hair


Man Ray, Kiki de Mountparnasse

Brassai,  Lovers in the Latin Quarter, 1932



"Non potrei dire chi sono, non ne ho la minima idea! Sono qualcuno che non ha origini, né storia, né paese e ci tengo! Sto qui, sono libera, posso immaginarmi tutto. Tutto è possibile. Non ho che da alzare gli occhi e ridivento il mondo."
(Marion, Il cielo sopra Berlino, 1987,  Wim Wenders).


Da sx: Tristan Tzara, Paul Éluard, André Breton, Hans Arp, Salvador Dalí, Yves Tanguy, Max Ernst, René Crevel e Man Ray

Lee Miller, Selfportrait in headband, 1932

Paul e Nusch Eluard mimano un bacio osservati da Ady Fidelin, Man Ray e un terzo amico di cui non so il nome, in una scampagnata, 1937

Man Ray, Kiki

Maurice Louis Branger, Terrasse de cafc, Paris, 1925


Jacques-Henri Lartigue


"Imagination is not a gift. It must be conquered."
(André Breton).

Man Ray e Louise de Vilmorin

Nusch e Paul Eluard

Brassaï - Woman dressing in costume in front of mirror, ca. 1936

Ady Fidelin e Nusch Eluard


Henri Cartier-Bresson, Paris 1952



Era un mondo aperto, in continua evoluzione, molte cose nascevano e morivano a Parigi e il resto del mondo cercava poi di copiarle maldestramente, sul versante tecnologico e della modernità era già insidiata dalle grandi città americane: New York, Boston, Washington, Los Angeles …, sul versante dell’istruzione superiore non soltanto Parigi e la Francia, ma l’Europa intera stava cedendo il primato.
Alle storiche e prestigiose università della Sorbonne, di Orléans, di Avignon, di Bologna, di Padova, di Napoli, di Oxford, di Cambridge, di Salamanca, di Valladolid, di Heidelberg, di Lipsia e di Tubinga, la nuova alta borghesia americana preferiva ora le università di Stanford, Berkeley, Yale, Harward, Princeton, New York, Columbia, come luoghi di pari livello, se non proprio superiori e più adatti, per formare la nuova classe dirigente americana.
Se ancora ad inizio secolo le università americane avevano quella sorta di soggezione e di reverenza verso la cultura e i centri culturali europei, nel giro di pochi decenni la situazione si capovolse completamente tanto da ribaltarsi di 180°.
Ciò fu possibile grazie a due rovinose guerre combattute prevalentemente in Europa da europei, che fermarono ogni tipo di sviluppo che non fosse quello bellico, e quello della chirurgia d’emergenza e dell’uso degli anestetici, agli scambi culturali (loro si tenevano in contatto con noi, mentre noi li snobbavamo) e alla migrazione di massa delle più grandi menti del nostro continente, che li arricchirono unilateralmente, ai massicci investimenti nella ricerca che giustificano ampiamente la loro supremazia scientifica, culturale e tecnologica.
Se Parigi infine era riuscita a prevalere nella competizione con città altrettanto agguerrite come Berlino e Vienna per il predominio tecnico, scientifico e culturale, fra la fine del XIX° e gli inizi del XX° secolo, pian piano inizia a perdere terreno su tutti i fronti; in pratica si ripropone la stessa situazione che aveva visto il declino delle città italiane, che fino a tutto il ‘600 mantengono un certo primato, ma che poi sono costrette a cedere il passo ai più grandi, più organizzati e più potenti stati europei come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale il predominio dell’America (e della Russia) nei confronti dell’Europa è netto, Parigi negli anni trenta (molto meno oggi) deteneva ancora la fama di capitale mondiale dell’arte, del buon vivere, del gusto, della raffinatezza, del buon vino, della buona cucina, del saper vivere e del divertimento.


Gisèle Prassinos Reading her Poems to the Surrealists (1934). Photo by Man Ray. Silver gelatine print. National Galleries of Scotland.

Man Ray, Lee Miller

Lee Miller in Lamb Creek

Robert Doisneau, 1950

Erwitt




E fintanto che la bussola dell’arte si ispirerà ai principi del bello e del tragico, di ispirazione greco-romana, le opere d’arte non potevano non nascere ed essere ispirate da una cornice bella (come Roma, Firenze, Venezia, Parigi), e tragica nello stesso tempo, perché il tragico è il paradosso del bello; e l’artista era in genere bello e dannato, dotato di esprit maudit … come Modigliani … o soltanto dannato, che però produceva cose belle.
Paradossalmente sono proprio le ultime generazioni di artisti parigini, dagli impressionisti, alle avanguardie, passando per Picasso, Cezanne, Matisse e Van Gogh, che spezzano la linea retta, criticano il concetto di forma, di prospettiva, di simbolo, tracciano linee di forza e di energia, puri segni che non esprimono concetti ma sensazioni, che rompono ogni legame col passato e sostengono che l’arte non ha storia, non ha genitori, non ha tradizioni, non ha progresso o regresso, non ha alcuna universalità, ma è il sorgere istantaneo del genio che interpreta il suo tempo, a far si che l’arte possa nascere anche in una città quasi del tutto priva di storia e di bellezza, come New York.
Ma in attesa dei grattacieli più alti del mondo, dei palazzi di vetro, di vie dove è difficile guardare il cielo, del sorgere delle prime tecnologie, della sede del nuovo impero economico e politico del mondo, e della completa trasformazione dell’opera d’arte come merce che abbia un prezzo sul mercato e dell’artista il cui nome è un marchio al pari della Campbell’s tomato soup, la vecchia Parigi ancora attraeva e ispirava spiriti randagi.
Non solo pittori o scultori, romanzieri o letterati, storici e filosofi, Parigi brulicava letteralmente di cineasti e di fotografi, dopo le provocazioni e la follia pantoclastica dei dadaisti, cominciarono a far capolino sulla ribalta della città più celebre al mondo alcuni individui che si caratterizzavano come appartenenti ad una delle più folli concezioni artistiche che abbia mai imbrattato i manuali di storia dell’arte: il surrealismo.
Per fortuna Philippe Pinel aveva liberato gli alienati dalle catene nel sanatorio di Bicêtre a Parigi fin dal 1793, altrimenti molti dei cosiddetti surrealisti sarebbero stati internati e sarebbe stata buttata via la chiave; quando Sigmund Freud incontrò Salvador Dalì, che apparteneva a questa corrente artistica, commentò che era matto da legare, seppure geniale.

Philippe Pinel à la Salpêtrière

Salvador Dalì e Man Ray

Man Ray, Nusch Eluard


Lee Miller Fashion Assignment - Girl on bike in front of Eiffel Tower, Paris

Luxembourg gardens Jean Arty Paris 1950s



Loro, invece, i surrealisti, adoravano Freud,  sostenevano che tutto ciò che proviene dall’inconscio, attraverso i sogni, i deliri, gli automatismi mentali, la stessa follia, è autentico, il resto è soltanto convenzione sociale, adattamento al mondo; il pittore e il fotografo devono cercare di catturare i momenti di estrema spontaneità degli individui, ciò è più facile con i poveri, i derelitti, gli ubriachi, gli artisti, i delinquenti, i bambini, gli stranieri appartenenti a popolazioni più primitive rispetto a quelle europee, tutti coloro che erano in qualche stato alterato di coscienza: gli innamorati, i mistici, gli infelici.
Parigi era la citta più fotografata al mondo, e non c’erano ancora i turisti giapponesi, si fotografava la gioia e il dolore, si fotografava la vita e il divertimento, si fotografava la gente al lavoro, un artista nell’istante della sua creazione, si fotografavano abbracci, baci, danze, come mai si era fatto prima d’allora e come non si faceva altrove.
C’era nell’aia una voglia di esprimersi, di mostrarsi per ciò che si è, di manifestare i propri pensieri e i propri sentimenti, non era raro vedere sul lungosenna, sulla rive droite o sulla rive gauce, una coppia che si stringeva in un bacio, non era raro che accadesse nei café, questo mentre in Italia, ad esempio, un bacio era considerato ancora un atto osceno se dato in un luogo pubblico … oggi alcuni lo considerano ancora osceno se a darselo è una coppia omosessuale, a me pare che l’oscenità stia soltanto nel considerare osceno un bacio, o l’amore in generale.
Si fotografavano anche fra di loro, nella loro creatività e nella loro intimità, parafrasando Quasimodo (Acque e terre, 1930): « Ognuno sta solo sul cuor della terra/trafitto da un raggio di Sole: ed è subito selfie», per questo abbiamo una quantità sterminata di documentazioni fotografiche e delle testimonianze circa le reciproche invidie, gelosie, intrecci di amore e di passione fra i protagonisti di quello scorcio di secolo che ci hanno lasciato la loro impronta umana e artistica più o meno profonda.
Amici, testimoni e materiale pittorico, scultoreo e fotografico cercano di renderci conto del milieu di quell’epoca, almeno fra i suoi protagonisti più noti, e dei giri mirabolanti di infiammazione amorosa o artistica che potevano posarsi ora sull’uno ora sull’altro degli oggetti o delle persone che gravitavano in quell’ambiente sociale.
Nonostante la presenza di donne fra gli artisti era maggiore all’epoca precedente, a quella degli impressionisti, quello era pur sempre un ambiente maschilista; si sperimentavano nuove soluzioni amorose, c’era certamente più libertà sia per l’uomo che per la donna, ma ciò non vuol dire  che sentimenti come la gelosia e il tradimento fossero banditi.
Spesso, anzi, si accendevano vere e proprie risse per questioni di corna, anche se in alcuni casi era tollerato il triangolo o la coppia aperta.

Salvador e Gala Dalì

Photograph of Lee Miller at Hotel Vaste Horizon, Mougins, France September 1937

Brassai (Gyula Halasz) - Picasso at the Café de Flore, Paris

Dennis Stock, Café de Flore  -  Paris 1958



Adrienne Fidelin e Lee Miller

Elena Dmitrievna D’jakonov, che fu chiamata Gala dal poeta francese Paul Éluard, che fu il suo primo marito, durante il matrimonio con lui fu musa ispiratrice di altri artisti ed ebbe qualche relazione extraconiugale con alcuni di loro, in particolare Gala e il marito Paul giunsero a condurre un ménage à trois con Max Ernst.
Questo durò finché Gala non i invaghì perdutamente del giovane pittore catalano Salvador Dalì, ma questo amore sconfinato che lei sembrava provare per lui non le impedì certo di avere le sue numerose relazioni con altri uomini, la cosa era talmente strutturata ormai che lei faceva da sola le sue vacanze in Italia o in Spagna finalizzate appositamente agli incontri amorosi con i suoi amanti.
Man Ray, uno dei più attivi e più noti fotografi surrealisti, incontrò Alice Prin allora ventenne,  una giovane figlia illegittima scappata dalla madre che viveva facendo da modella a pittori e a scultori, col suo fisico strepitoso, o esibendosi in qualche locale oppure, occasionalmente, prostituendosi, anche se lei preferiva comunque far l’amore per piacere e non per bisogno.
Alice, quella che divento poi Kiki de Montparnasse, quella ritratta in molte pose da fotografi e artisti,  quella del Violon d'Ingres dello stesso Man Ray, in cui viene ripresa di schiena, completamente nuda, con un turbante o un asciugamano in testa, e sulla schiena, perfettamente simmetriche, ha le due f che indicano le aperture della cassa armonica di un violino.
Il titolo che Man Ray da a questa foto, Violon d’Ingres, cioè il violino del pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres, fa esplicito riferimento a notorio passatempo preferito di questo pittore, che era appunto il violino, a cui dedicava un impegno e una passione maggiori della pittura.
È un modo ironico e intelligente per dirci che per lui il fondoschiena di Kiki era ciò che il violino rappresentava per Ingres; certo, una donna difficilmente avrebbe potuto essere un violon, la sua dimensione ne fa almeno une viole de gambeou miex d’amour (perché la viola è lo strumento d’amore per eccellenza), o anche un contrebasse, dipende dalla grandezza.
Difficile a questo punto non notare la somiglianza esplicita, l’omaggio reso dal fotografo al grande pittore, fra la sua Violon d’Ingres e La Baigneuse de Valpinçon, del 1808, esposta al Louvre e quindi facilmente accessibile ad un fotografo che si dilettava anche di pittura come Ray; molto probabilmente quest’ultimo vuole suggerirci che anche Ingres apprezzasse i fondoschiena femminili, almeno quanto gli piaceva suonare il violino … lo tradiscono la sensualità che imprime nelle linee che determinano la figura, l’estrema attenzione alla luminosità e ai dettagli, quel fondoschiena sembra quasi che parli e non ci dice solo quanto è bello, ci dice anche quanto dovesse piacere a chi lo dipinse e pure a chi lo osserva.

Man Ray. 'Self-portrait with the lamp' 1934

Man Ray, Le Violon d’Ingres, 1924

Man Ray (1890-1976) 'Kiki de Montparnasse' 1923 .

Ed van der Elsken, Paris 1950s,

Elegant women Paris circa 1930 Albert Harlingue

Uncredited veiled nude, 1930s pour huit jours a Trebaunec, George Hugnet


La donna come strumento musicale, il culo della donna da suonare come fosse una viola, c’è ovviamente molta ironia in questa foto, come era tipico di Man Ray, che filtrava la sua spontaneità attraverso l’ironia, che rappresentava un salutare momento di distacco fra lui e l’emozione suscitatagli da ciò che stava osservando.
Nella sua autobiografia Alice scrisse che durante quell’incontro lei era seduta al tavolino di un caffè insieme ad un’amica, il cameriere era riluttante a servire quelle due signore, Alice realizzò che ciò avvenisse perché erano senza il cappello (segno che non si trattava di gentildonne) e, rivoltasi a lui esclamò: “Non ci vuole servire perché pensa che siamo due puttane?”. Così dicendo i sfilò le scarpe e appoggiò un piede sul tavolino e uno sulla sedia di fronte. Man Ray, appena giunto a Parigi dagli stati Uniti per unirsi al movimento dadaista, era presente a quella scena e chiese a quella signorina se voleva posare per lui, dopo essersi presentato come fotografo.
Lei non accettò subito, aveva già esperienza come modella per pittori, ma era riluttante perché temeva che la macchina fotografica esaltasse i suoi difetti fisici; lui, tuttavia, dovette essere molto convincente se soltanto qualche minuto dopo i due si trovavano in una camera d’albergo e lei era completamente nuda, ma contrariamente a ciò che avevano pattuito in quella sessione fotografica non si udì alcuno scatto dell’otturatore, si ritrovarono ben presto avvinghiati nel letto.

Edouard-Boubat

Pablo Picasso, Il bacio, 1969

Kiki vertical mask Noire et blanche, 1926 Man Ray

Kiki

Man Ray, Kiki

Robert Doisneau, Il Bacio dell'Hotel de Ville, 1950 ©-atelier Robert Doisneau


Da quel momento i due fecero coppia fissa per ben sei anni, lui diventava sempre più famoso con le sue fotografie, lei si esibiva al Jockey, un locale notturno di dubbio gusto dove si ballava il can can; ballava e cantava, ma era sempre ubriaca, dimenticava le parole delle canzoni, che del resto non importavano a nessuno, e per salvare lo spettacolo saliva su un tavolo, piegava la testa e la schiena all’indietro ed alzava le gambe fra il visibilio dei presenti, visto che non indossava le mutande.

Una ragazza senza padre, con una madre che si era occupata di lei e l’aveva cresciuta senza mai una carezza, da cui si era smarcata precocemente perché non accettava autorità alcuna, che non riusciva ad essere fedele nemmeno all’uomo che diceva di amare, e che con esibizioni come questa o con gesti di dubbia affettuosità verso clienti ed amici seminava dubbi, incertezze, provocazioni nell’uomo che amava, non stupisce che accadessero continue liti fra lei e Man Ray, che era molto geloso e che assisteva a tutti i suoi spettacoli, spesso si scatenavano liti furibonde fra loro due, dove lui la picchiava in presenza di tutti, e lei replicava con calci, morsi, pugni e lanci di piatti e di bicchieri che erano lo spettacolo dentro lo spettacolo.

(continua).

Ringrazio il mio carissimo amico Armando per avermi fatto conoscere, molti anni fa ormai, questa bellissima canzone nelle diverse versioni in cui è stata interpretata.


3 commenti:

  1. E' davvero incantevole questa Amapola.
    E' bello ascoltarla con gli occhi chiusi. Fa sognare.

    (Accidenti, questi due si amavano a suon di pugni,calci, morsi,e piatti rotti... si, insomma, una coppia invidiabile :-)))
    Comunque aspetto il seguito del racconto. E vabbè, uffa, sono curiosa.)
    Ciao Garbo.
    Buonanotte.
    Cri

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  2. Bellissima davvero, “amapola“, pensa che amapola in spagnolo è il papavero; sismo nel 1924 e un certo José María Lacalle García (detto semplicemente Joseph Lacalle) chiama “amapola” la sua fidanzata e le dedica questa bellissima canzone:

    Amapola, lindísima Amapola,
    Será siempre mi alma tuya, sola.
    Yo te quiero, amada niña mía,
    Igual que ama la flor la luz del día.
    Amapola, lindísima Amapola,
    No seas tan ingrata, y ámame.
    Amapola, Amapola,
    ¿Cómo puedes tú vivir tan sola?
    Mi amor en los hierros de tu reja
    mi amor eschuché mi triste queja
    de amor que todo en mi corazón
    diciendome asi
    con su dulce cancion.

    Da allora l’hanno interpretata tutti i grandi della musica (quella che ti propongo io è la versione di Ennio Morricone che ne fa il leitmotif nel 1984 del film Once Upon a Time in America), persino in Giappone con Ryuichi Kawamura.
    … pugni, calci, morsi e piatti rotti? Ma no! Ho sospeso l’incontro al ticchettio dei tacchi sul marciapiede della signorina Henriette Theodora Marković, prima di andare oltre ho ritenuto opportuno fare un tuffo in quel tempo, e Man Ray e Kiki de Mountparnasse facevano parte di quel tempo, lui poi era amico di entrambi i protagonisti, bisogna calarsi un po’ in quell’atmosfera, lasciarsene incantare, immergervisi dentro, per partecipare a questo incontro e per capire questo amore.
    Ciao, buona notte a te.

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  3. Non ho ancora letto il terzo e lo farò al più presto, mi voglio gustare anche l'attesa, ma già qui devo dirti che questi post sono una passeggiata in una mostra fotografica e non solo con una guida straordinaria. La ricchezza di aneddoti biografici, intrecci a quella Parigi che fu crogiolo di arte e pensiero ne fa un racconto a puntate appassionante. Il titolo che gli hai dato mi resta ancora oscuro ma forse in seguito mi diverrà chiaro, quando Dora e Pablo cominceranno la loro relazione. Un saluto.

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