lunedì 24 agosto 2015

GASSA D'AMANTE 1




"Voglio un carico di vino di rubino,
e un libro di versi.
M’occorre appena lo stretto necessario,
e un pezzo di pane.
Poi io e te seduti in un luogo deserto
Questa è una vita superiore al potere d’ogni sultano".

(Gialal al-Din Rumi).

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"Cedo alla tentazione di toccare i petali
e le mie dita scoprono
il contatto della seta,
il contatto delle tue labbra
quando baci le mie spalle".
(Amalia Bautista, Falso pepe).


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Se mi chiedessero di nominare ciò che mi piace mangiare di più in assoluto, quello che salverei se dovessi scegliere un alimento fra tutti, l’unico da salvare rinunciando a tutti gli altri, certo mi troverei in grave difficoltà perché: "Ogni scelta ha un rovescio cioè una rinuncia, e così non c’è differenza tra l’atto di scegliere e l’atto di rinunciare". ( Italo Calvino - Il castello dei destini incrociati).
Con l’aggravante che con questa scelta unica dovrei rinunciare a tutto il resto, se non ci fossi costretto, sarebbe una scelta masochistica, per quanto stupido possa essere l’uomo, non ci sono esempi di un comportamento così svantaggioso, in cui per avere una cosa si perde tutto il resto … o forse si, il matrimonio.
Vediamo, cosa mi viene in mente per primo? Un bel piatto di spaghetti col pomodoro e basilico, o le trenette al pesto, o le tagliatelle col ragù, o i bigoli in salsa, un’amatriciana o una buona norma o pasta con le sarde? E perché no, invece, una parmigiana di melanzane o la migliore caponata? E perché dovrei rinunciare a quel gusto irrinunciabile e inesprimibile di una buona fiorentina, croccante e ben cotta all’esterno, quasi bruciata, e tenera come il burro e rossa all’interno? O al profumo e al sapore del pesce appena grigliato condito semplicemente con olio d’oliva, aglio, sale e menta tritata? Al tonno grigliato servito con delle strisce di peperoni arrostiti alla griglia pelati e conditi con olio, sale e limone?
O a tutti quegli antipastini ideati in molte parti del mondo costituiti da verdure, affettati, formaggi, pesce, frutta, variamente amalgamati, crudi o cotti, freddi o caldi, che sono il trionfo di una buona produzione alimentare, dei sapori e della fantasia?
E il pane, come si fa a rinunciare al pane che da solo fa un pasto, che è il simbolo stesso della tavola imbandita, che basta davvero pochissimo per apprezzarlo: ad esempio condirlo, fumante appena uscito dal forno, con olio d’oliva, sale e origano; e il vino, che magari non fa “sangue”, come si credeva una volta, ma di sicuro mette allegria, scioglie le lingue che faticano a parlare e trova la strada per esprimersi alle idee più recondite e ai sentimenti più intimi e rende ardita anche la mano più timida.
Dei dolci non ho niente da dire, non mi piacciono molto e se dovessi rinunciarci del tutto non mi mancherebbero molto, così come non mi mancherebbero le frattaglie di animale, i tagli particolari, le anguille, le murene, le lumache di ogni genere, per cui alcuni vanno matti ma che per me proprio non esistono come alimenti.
Tolte, dunque, le cose che non mi piacciono, devo ammettere che anche fra quelle che mi piacciono e molto, giungerei ben presto alla saturazione e persino alla nausea se dovessi nutrirmi sempre e solo di quelle; una cosa però c’è che mi piace sempre allo stesso modo, oggi come ieri e come domani. la pizza.
Purtroppo vivo in una zona barbara del mondo, in una regione in cui il capoluogo, Venezia, è governato da un tizio che ha impegnato l’intera  la giunta comunale, con tutti i problemi serissimi che questa città ha, non ultimo la sua stessa esistenza, perché potrebbe sprofondare nelle acque come Atlantide, mentre i suoi amministratori organizzano il Mose solo per spartirsi le tangenti invece di risolvere davvero il problema, e ancora discutono se fare passare o non fare passare le navi da crociera sul Canal Grande, che portano tanti schei, ma producono più danni alla Laguna delle dieci piaghe d’Egitto, a passare a setaccio i libri per bambini alla ricerca di eventuali tracce di “apologia gender” per poterli mettere al bando in una riedizione assurda dell’Index Librorum Proibitorum creato dal sant’Uffizio sotto Paolo IV.
Con la differenza che allora, siamo nel periodo cosiddetto della “controriforma”, o della “riforma cattolica”, tempi in cui Giordano Bruno veniva arso vivo a Campo de’ Fiori in Roma, Tommaso Campanella viene torturato, dovette subire ben cinque processi e fu imprigionato per 27 anni della sua vita, Galileo Galilei viene incarcerato, costretto a dare chiarimenti sul suo pensiero scientifico, minacciato di tortura e costretto ad abiurare, alle figure michelangiolesche della Cappella Sistina papa Pio IV impone che vengano ricopertele nudità con dei mutandoni deturpando così un capolavoro artistico assoluto, Venezia era un’isola felice e relativamente libera e autonoma dal fanatismo cattolico e dal puritanesimo protestante, uno dei pochi fai illuminati nell’Occidente che sprofondava in tenebre di follia.

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E adesso la città più bella del mondo passa in poco tempo da un sindaco come Orsoni, impelagato nella violazione della normativa in materia di finanziamento ai partiti, in pratica avrebbe ricevuto dei soldi che sono serviti a pagare le campagne elettorali del suo gruppo, in cambio dell'interessamento politico ai maxi-appalti del MOSE, ciò vuol dire autorizzazioni facili e nessun controllo: Venezia nelle mani di un gruppo per cui il loro potere personale valeva di più del bene della città intera, erano disposti putre a passar sopra alla massiccia cementificazione della laguna e all’inutilità complessiva dell’opera (perché il livello delle maree è oggi ben al di sopra l’alzata massima delle paratie del MOSE, l’acqua passerà comunque, al sindaco attuale Luigi Brugnaro.
Un imprenditore, dicono, e cosa “imprendeva”? Cosa produce/produceva Brugnaro? Nel 1997 Luigi Brugnano fonda un’agenzia, la Umana (che diventerà in seguito una Holding), che in meno di dieci anni giunge ad un fatturato di circa 300 milioni di euro, in questa agenzia egli raggruppa 20 aziende operative nei servizi, nella manifattura, nell’edilizia e nell’agricoltura.
Cosa vuol dire? Che Brugnaro si occupa di fornitura a tempo di manodopera in tutti quei settori indicati (servizi, manifattura, edilizia e agricoltura), in “somministrazione”, cioè in dosi interinali (cioè quando gli servi ti chiamano, quando non gli servi non ti chiamano, se rompi le palle o accampi diritti sei tagliato fuori … faceva parte del “pacchetto Treu” … proprio un bel pacchetto, che ha consentito a gente come Brugnano, con metodi di caporalato legale, di guadagnare 300 milioni di euro).
Tralascio qui i suoi trascorsi in Confindustria e a sua ascesa politica, ma non posso tralasciare il fatto che Brugnaro possiede, avendo fatto un’offerta di 513.000 euro nel maggio 2014, che è stata accolta, un’isola della laguna di Venezia: Poveglia; l’idea di base era di farne dei resort meta esclusiva di persone piene di schei (perché quelli contano, nella testa di Brugnaro, dei suoi elettori e, ormai di quasi tutti i veneti dal Presidente di Regione fino al più scalcagnato mozzo di sentina o contadin della bassa polesana, ci sono solo schei, venderebbero Venezia, la laguna intera come brodo Star, le Dolomiti, la cappella degli Scrovegni e la Basilica del Santo in cambio di schei sonanti e tintinnanti).
Ma, dal momento che Brugnaro è sindaco e proprietario (pro tempore) di un’isola nella città che amministra, gli sembrava brutto speculare così apertamente, per cui ha di recente dichiarato di non voler realizzare un hotel per turismo, ma un centro internazionale di ricerca e cura dei disturbi alimentari con approccio multidisciplinare, che avrebbe creato 200 nuovi posti di lavoro… vedremo danarosi turisti travestiti da ricercatori dei disturbi alimentari, gente che gira per i resort col camice bianco da ricercatore griffato, intenti ad assaggiare i piatti più prelibati della cucina italiana allo scopo di prevenire i disturbi alimentari propri e quelli di Brugnaro.
Sul sindaco di Padova, Massimo Bitonci, stendo un velo pietoso, amo troppo questa città per infierire, dico solo che l’ultima volta che l’ho vista in municipio pendeva un cartello: “Riportiamo a casa i marò!”, e già mi vedo Bitonci come John Miller di “Salvate il soldato Ryan”, armato fino ai denti, seguito dai suoi consiglieri comunali, mettere a ferro e fuoco l’India intera e riportare a casa la pellaccia dei due marò.

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Oppure, si è distinto per aver dato del “Terùn” ad Antonio Foresta, consigliere comunale nato in provincia di Cosenza, scatenando la satira di alcuni padovani originai del sud e di padovani autoctoni che all’Arcella hanno organizzato un party di solidarietà tutti rigorosamente con la scritta: “Je suis terùn”…sembra che Bitonci a tutt’oggi non abbia ancora chiesto scusa … di esistere.
E che posso dirvi di Treviso, città in cui vivo, passata dal sindaco sceriffo Gentilini, che era più una macchietta da avanspettacolo, a Manildo, il primo sindaco di centro-sinistra in questa città, praticamente un connubio innaturale in una città in cui gli abitanti sono affetti da destrocardia e spesso il cuore coincide con la tasca destra dei pantaloni … dove si trova il portafogli.
Qualche mese fa ci fu la bagarre fra la giunta e Goldin, per cui la collaborazione fra il curatore di mostre d’arte e il Comune andò in frantumi e la mostra prevista a Ca’ dei carraresi non si fece più; poi, all’insegna del: “Non c’è solo Goldin”, si ventilarono altri nomi, fra cui quelli di Daverio e di Sgarbi (e già quest’ultimo nome da solo vi dice qual è la serietà di questa giunta), infine si è deciso di fare una mostra esponendo alcune opere di El Greco a Ca’ dei Carraresi e di affidarne la realizzazione e la cura a quelli che il consigliere regionale Diego Bottaccin definisce: “personaggi di dubbia reputazione per le vicende giudiziarie in cui sono stati coinvolti".
Il riferimento, nemmeno troppo velato, è ad Andrea Brunello, imprenditore della cultura trevigiano, che a Brescia aveva organizzato una mostra finita sotto inchiesta della Procura per truffa, in base a un presunto numero di "ingressi gonfiati".
In questi tempi di crisi economica in cui per prima la Grecia fa fatica a stare a galla e a onorare i suoi debiti, evocare “El Greco” dopo i fasti degli impressionisti da tutta la misura della crisi anche artistica, un El Greco poi non internazionale, ma, come recita il titolo della mostra, un El Greco in Italia, con l’esposizione di 25 delle 35 opere che questo pittore realizzò durante il soggiorno nella nostra penisola.
Non che Goldin mi piaccia in maniera particolare, ha l’abitudine di mettere insieme cose incredibili con un filo logico e artistico che spesso vede solo lui, da alle sue mostre titoli werthmulleriani, che devi stare mezzora solo a leggere quello, però ha successo, ha portato parecchia gente a Treviso (e altrove) quando esponeva gli impressionisti, in questo caso specifico, cioè in merito alla sua collaborazione con la giunta di Manildo, aveva pensato di esporre nel complesso di Santa Caterina, più spazioso e luminoso, mentre a Ca’ dei Carraresi le opere degli impressionisti, soprattutto le più grandi, sono state sacrificate agli spazi limitati e alla scarsa luminosità delle sale, a quest’ultima si era cercato di rimediare malamente con fari direzionabili che creavano un fastidioso riflesso sulla superficie delle opere.
Inoltre, aveva in mente il progetto di celebrare finalmente alcune figure che appartengono alla storia artistica e culturale del capoluogo della Marca, basti citare per tutti Arturo Martini, Gino Rossi, Alberto Gianquinto e Carlo de Roberto, tutti artisti sottostimati dai critici e poco considerati persino nella loro stessa città di origine.
Se queste sono le beghe, questo il livello culturale imperante, questi i valori dominanti, non deve stupire che in tutto il Veneto (e nel nord-est in generale) sia molto difficile trovare una buona pizza; la pizza è compatibile con la mafia, con qualsiasi criminalità organizzata, con tutti i difetti politici e culturali che può avere il sud, ma non è compatibile con l’aridità del nord.

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Mancano proprio le basi, le fondamenta, l’ABC per fare una buona pizza, l’impasto ad esempio, che assomiglia di più al pane carasau, che si sbriciola ai bordi quando tenti di tagliarli, manca una salsa di pomodoro decente, manca la mozzarella, è proprio inutile provare a tirala su con la forchetta, non fila, non è fiordilatte, è formaggio fuso e, infine, manca il forno a legna nella stragrande maggioranza dei casi … come si fa a fare una pizza senza forno a legna … sono sconfortato.
Questo non vuol dire che setacciando tutto il Veneto in lungo e in largo non si trovi una piazza decente, vuol dire che ciò è estremamente difficile, nemmeno in alcune pizzerie dal titolo evocativo “Bella Napoli”, “O Vesuvio”, “Mergellina”, “Santa Lucia”; ma non impossibile, inspiegabilmente, dopo anni di croste spacciate per pizza, quando ormai ci avevo perso le speranze, avevo trovato proprio nel posto che meno mi aspettavo di trovarla, un’ottima pizza.
Era una pizzeria di Falcade, dolomiti bellunesi, comprensorio dell’agordino, quasi non ci credevo, un buon impasto, un pomodoro denso e gustoso, una mozzarella autentica, che si univa ai buoni sapori della montagna, i funghi, lo speck, la salsiccia, il radicchio selvatico … poi ho scoperto che il pizzaiolo era napoletano finito chissà come in quella landa di terra ad oltre 1100 m. sul livello del mare a far pizze per turisti e montanari.
Quando il pizzaiolo andò via, per motivi che non ho mai saputo, né ho mai saputo se si fosse trasferito a lavorare presso un’altra pizzeria o ne avesse aperta una tutta sua, passarono soltanto pochi mesi e la pizza ritornò sconsolatamente ad essere una semplice e banale pizza veneta, cotta in forno a legna, e mi faceva la stessa tristezza e l’impressione di quelle città e quei monumenti bellissimi ricoperti di vegetazione dell’India del nord, ormai dominati da clan di scimmie che ti impediscono di avvicinarti … mestamente e velocemente passai dalla pizza al tagliere di polenta funghi e speck di montagna.

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Da qualche anno, poi, ho scoperto, molto vicino a casa mia, una pizzeria in cui la pizza è decente e ciò mi ha riconciliato almeno un  po’ con l’universo pizza del Veneto; ora, è pur vero che i titolari sono di origini napoletane (dove per napoletane in genere si intende talvolta tutta la Campania … ho conosciuto alcune persone che mi hanno detto di essere di Napoli, ho scoperto solo dopo che erano della provincia di Avellino, ma potrebbero essere anche delle regioni limitrofe … Renzo Arbore, che pure è di Foggia, asseriva di essere napoletano … sembra quasi che esista a Napoli un’unica differenziazione: o sei del “Vomero” o sei di Napoli (un comprensorio indefinito che comprende tutta la Campania, il basso Lazio, la Ciociaria, il basso Molise, la Puglia del Nord, la Basilicata tutta impacchettata e col fiocco regalo, la Calabria del nord almeno fino a Cosenza, perché la Calabria del sud è già Sicilia, una Sicilia col peperoncino, e pure qualche cantone svizzero).
Ed è anche pur vero che vantano un’attività a Treviso fin dal 1957, ed è pur vero che la pizza che esce dal loro forno a legna, così com’è è già di buona qualità, tuttavia, quando siamo entrati in un minimo di confidenza col proprietario, “napoletano” di seconda generazione, nato e cresciuto in Veneto, mi sono sentito di dargli qualche suggerimento che ha migliorato un prodotto che già di base era buono di suo: qualche alleggerimento qui e la in alcune pizze, qualche aggiunta in altre per dare un po’ più di sapore, qualche mestolo in più di salsa di pomodoro in pizze che sostanzialmente mi sembravano anemiche, il bordo un po’ più sottile, in modo che si cucinasse meglio e diventasse più croccante all’esterno pur mantenendo la morbidezza interna.
Mi sono sempre chiesto perché il Venero e il nord-est in generale, siano così penalizzati per ciò che riguarda la pizza, a Milano ad esempio non è difficile trovare una buona pizza, non lo è neppure a Torino, nonostante io fossi partito con molti pregiudizi, a Genova, invece, è un disastro, ti presentano in genere delle croste enormi, quasi delle ruote di carro, e le definiscono pizza, per fortuna ho li dei parenti che lavorano da anni nel campo della ristorazione che, pur non facendo personalmente pizze, sapevano indicarmi dove potevo trovarne di molto buone.
A Roma è un terno al lotto, nella stragrande maggioranza dei casi c’è il pollice verso, se i pizzaioli romani dovessero essere soggetti al giudizio dei clienti come i gladiatori nell’arena, molti di loro sarebbero in pasto ai leoni, se fossero vissuti ai tempi di Diocleziano, invece della persecuzione e del martirio dei cristiani si sarebbe parlato della persecuzione e del martirio dei pizzaioli romani; poi, conosci un amico (chi non ha almeno un amico a Roma), che lavora al ministero, che da anni abita a Roma e che ti porta finalmente in una buona pizzerie dove c’è l’unico pizzaiolo scampato alle fauci dei leoni che ti fa una pizza come si deve.
E’ stato triste constatare che a Roma era più buona la pizza da Spizzico che quella delle pizzerie artigianali, a Lecce dopo qualche tentativo ci ho rinunciato, a salvarmi è stata la “puccia”, un panetto di pasta da pizza scaldato in forno, aperto come un kebab e riempito di qualsiasi cosa; e non va meglio altrove, forse sono io che sono difficile, incontentabile, ma trovo che la qualità della pizza in tutto il territorio nazionale sia appena mediocre o di scarsa qualità, e che poche isole, nel senso di pochi locali e ancor meno zone territoriali, fanno eccezione a tutta questa mediocrità.

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Mentre la differenza al nord fra l’est e l’ovest e fra le grandi città e le piccole me la sono spiegata con le ondate migratorie dal sud in tempi diversi, con città come Milano e Torino invase da operai e contadini meridionali, alcuni dei quali, particolarmente dotati, rilevavano qualche locale nei quartieri dove alloggiavano tutti quelli che provenivano dal meridione, e facevano la cucina delle loro zone d’origine, perché tutti quanti sentissero un po’ meno la nostalgia di casa, e che poi si facevano arrivare i prodotti tipici dalla loro terra e che si perfezionavano fino all’eccellenza, in alcuni casi.
Al nord est e nelle piccole città sono arrivati successivamente quei meridionali che come me o hanno studiato in qualche città del nord e ci sono rimasti oppure hanno fatto qualche concorso e, aiutati certamente dai voti di laurea elevatissimi e regalati al sud, hanno prevalso sui loro competitor del nord e si sono aggiudicati chi una cattedra, chi un posto al ministero, chi un posto nella pubblica amministrazione.  
Si tratta di tutta gente come me che non sa fare niente, nessun lavoro manuale, non sa sistemare il tubo del lavabo, un guasto nell’automobile, montare una appliques o un lampadario, fare una derivazione elettrica senza rischiare che qualcuno rimanga fulminato, sa solo leggere i decreti e le circolari del ministero e protocollare un documento, ma soprattutto oltre a non saper cucinare, non fa fare una pizza.
Questo forse spiega, almeno in parte, la situazione al nord, non certo il perché anche al sud o al centro non sia così facile trovare una buona pizza, spero che qualche storico del gusto ci illumini su questa questione, perché in fondo io faccio lo psicoanalista, e dovrei occuparmi di dinamiche mentali e relazionali, non dell’elasticità o della croccantezza dell’impasto di una pizza.

GASSA D'AMANTE 2


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"Da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose".
(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere).


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"Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere alla piccola conquista mercanteggiando placido,
in oblio come tuo padre, come il farmacista…
Non posso
vedere le lacrime delle ragazze! Sì,
perché far piangere una ragazza
è più irreparabile che
sposarla!
Perché le
lacrime son tutta infanzia.
Perché le lacrime versate manifestano
semplicemente una pena così
profonda,
che tutti
gli anni d’incallimento sociale
e ragionevolezza scoppiano e
affogano
in quella
fonte riaperta dell’infanzia
della creatura primitiva, incapace di male.
Si fa tardi.
A domani i baci e le teorie".
(Carmelo Bene, Hommelette per Hamlet da Hamlet Suite)

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Comunque io, nonostante faccia lo psicoanalista e non il piazzaiolo, dovendo comunque difendermi e sopravvivere, e dopo anni di tentativi disastrosi, la pizza la faccio così (per quattro persone):
- 500 gr. di farina di semola di grano duro rimacinata, si, lo so che in molte ricette indicano l’uso della farina di grano tenero di tipo 00, persino nella ricetta della pizza napoletana DOC la farina consigliata è questa, ma la pizza (specie se la fate nel forno elettrico di casa, viene o troppo croccante e biscottata oppure troppo molle e si fa fatica a digerirla); alcuni fanno degli strani impasti con altri tipi di farine, come la 0, o la farina integrale di tipo 1 o di tipo 2, o quella di soia, o di farro, c’è chi aggiunge un po’ di fecola di patate (soprattutto nella pizza alta al taglio, per renderla più soffice), io le ho provate tutte, da sole o in vari amalgama e alla fine sono sempre tornato alla farina di semola di grano duro rimacinata semplice, ma ho ottenuto degli ottimi risultati anche con la farina di kamut o con una miscela saggiamente dosata fra le due.
- acqua minerale, quanto basta perché venga assorbita dall’impasto, non importa che sia gassata o naturale, l’importante che sia acqua povera di elementi, molte delle acque che escono dal nostro rubinetto sono troppo dure per l’impasto della pizza, e non è nemmeno necessario intiepidirla, come consiglia qualcuno, basta che sia a temperatura ambiente.
- Quattro cucchiai di olio extravergine d’oliva.
-Dieci grammi di sale.
- Dodici o quindici grammi di lievito madre in polvere, lo trovate in molti supermercati ormai, è diventato di moda, ma è una moda che ha migliorato sensibilmente il modo di fare la pizza in casa o in pizzeria. Prima si usava il lievito di birra, che oltre a dare un odore quasi sgradevole durante la cottura in forno della pizza,  è più difficile da digerire e mette anche molta sete. Col lievito madre si ritorna alle origini, alle tradizioni, quando si panificava col “crescente”, in sostanza erano tocchetti di pasta lievitata e conservata da aggiungere all’impasto successivo … un po’ come i lactobacilli che vengono ripescati dallo yogurt già prodotto e immersi in altro latte perché producano altro yogurt. In questo caso, se ho capito bene, il lievito madre sarebbe il vecchio “crescente” seccato e ridotto in polvere.
Fate in modo che il sale e il lievito madre non si incontrino mai direttamente nell’impasto, ma si incontrino già sciolti nell’acqua oppure aggiungeteli all’impasto in momenti diversi, ad esempio mettete il sale (o il lievito) quando l’impasto è già a buon punto. Il contatto diretto fra il sale e il lievito provoca dei danni alla lievitazione, dandovi o un impasto pieno di bolle d’aria o uno estremamente duro e difficile da stendere.
Impastate il tutto rigorosamente con le mani, l’impasto di una piazza è qualcosa di vivo e vitale (ve ne accorgerete mentre lo impastate), è come una bella donna che esige le sue giuste carezze, affidarlo alle pale di un’impastatrice meccanica o al bimby è un delitto che priverà la vostra pizza di ogni poesia, anche quando stenderete la pizza sarà opportuno usare le mani, palmo e dita, ma ne riparleremo fra poco. Impastate per alcuni minuti, con entrambe le mani (usando le dita, i palmi le nocche), finché non otterrete un impasto morbido, elastico, un blocco unico che si ripiega su se stesso prendendo senza difficoltà di volta in volta la forma che vorrete dargli.
Formate una palla unica ben levigata, ponetela su un asse di legno, o di marmo, o in un recipiente abbastanza ampio, tracciate una leggera linea orizzontale con un coltello (alcune donne particolarmente religiose tracciano una croce) e lasciatelo riposare per circa tre ore con un telo di cotone sopra per evitare che entri in contatto con polvere o insetti.
Passato questo tempo riprendetelo di nuovo in mano e manipolatelo ancora un po’. fategli un po’ di solletico, valutatene ancora una volta l’elasticità e l’amalgamabilità, se dovesse essere un po’ asciutto (dipende dalla stagione e dall’umidità dell’aria) bagnatevi appena i palmi delle mani con un po’ della stessa acqua che avete aggiunto all’impasto in origine. Poi, suddividete l’impasto iniziale in panetti di 125/130 gr. ciascuno (dividetelo cioè in quattro parti uguali), se volete fare quattro pizze normali, altrimenti potete dividerlo a metà o lasciarlo intero e fare un’unica grande pizza, avvolgete ciascun panetto nella pellicola del domopack, tenendo presente che lieviterà, quindi non avvolgetelo stretto, lasciategli lo spazio per espandersi, e rimettetelo nell’asse o nel contenitore di prima, facendo attenzione che i panetti abbiano spazio sufficiente l’uno dall’altro. Lasciatelo lievitare per altre 8 o 9 ore.

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A questo punto, su un’ampia superficie, mettete un bel po’ di farina, e cominciate a stendere ciascun panetto con il palmo delle mani e con le dita, dall’interno verso l’esterno, cercando di allargare l’impasto, fino ad assumere una ragionevole forma circolare, in considerazione del fatto che voi non siete né Giotto né Raffaello, sarà sufficiente che dia l’idea di una ruota dal diametro di circa 30/35 cm. misurati ad occhio, non serve che contattiate un geometra.
Fate riposare ancora le “pizze” per altri 10 minuti circa, e solo a questo punto aggiungete il condimento; ora, qui bisogna intendersi, perché per condimento sembra che in una pizza si possa mettere o togliere quasi qualsiasi cosa, e in linea teorica potrebbe davvero essere così, potrete anche fare una pizza con cavallette e zucchine grigliate, o con formiche rosse e funghi di bosco, o l’orrore estremo di una pizza con la nutella, siete liberi di fare qualsiasi cosa.
Ma esistono certi limiti quando fate una pizza, ad esempio andrebbero evitati i sottaceti, o la maionese, almeno, o il ragù (anche se qualcuno ha provato dicono con buoni risultati), dalle mie parti usano aggiungere anche i piselli (cotti o anche surgelati che si cucinino in forno), provateli prima di dire: “Che schifo!”. Anche l’uovo sodo una volta era molto presente (seppure a me non piacesse affatto), ora in Sicilia lo trovate solo nella capricciosa (per distinguerla dalla quattro stagioni, altrimenti sarebbero uguali), mentre l’uovo semplicemente spaccato sopra la pizza e cotto soltanto in forno era nell’occhio di bue, mentre al nord ho visto una variante dell’occhio di bue con le punte di asparagi cotte.
Potrete mettere di volta in volta tutto ciò che avete in casa o che la vostra fantasia vi suggerisce, naturalmente, realizzare la pizza che vi piace di più, variare in base alla stagione, all’estro, agli allineamenti astrali, all’oroscopo cinese o ai ching, ma non usate cose troppo liquide (la salsa di pomodoro dev’essere sufficientemente densa, seppure spalmabile e non ancora affettabile, la mozzarella senza gocce di latte o tagliata in precedenza e scolata), questo per evitare che si formi in mezzo alla pizza l’effetto laguna, che non permetterà alla base di cucinarsi alla perfezione.

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Parlando di ingredienti, di cose strane che pure hanno avuto successo, mi viene in mente una pizza che dalle mie parti era diventata un must, la chiamavano paper moon, ed era il cavallo di battaglia dell’omonimo locale, la pizza più richiesta in inverno, la base era una margherita a cui veniva aggiunto sopra degli spinaci cotti tritati in maniera molto sottile e passati in padella con della panna e, infine, veniva aggiunta la salsiccia, quella tipica, buonissima, delle mie parti, che quando arrivava in casa iniziavamo a mangiarla già da cruda, da tanto che era buona, una salsiccia rossa non molto grassa, di carne di maiale al 100%, condita con vino rosso di buona qualità, peperoncino rosso, semi di finocchio selvatico, sale e non so dirvi quale altro aroma perché poi ciascun macellaio aveva i suoi segreti.
Sulla passata di pomodoro, ci vorrebbe un post a parte solo per descrivere come si fa una buona passata, sempre ammesso che la facciate voi e non la compriate già fatta, nel primo caso il tipo di pomodoro che userete darà risultati diversi, i pizzaioli napoletani usano il pomodoro san marzano, e questo è indicato nella pizza napoletana DOC, io non trovo un pomodoro san marzano saporito né in Veneto né in Sicilia, o non è san marzano o è particolarmente acquoso e non sa da niente.
Sappiate che se usate pomodori come il ciliegino, il merinda, il marmande, la salsa vi verrà leggermente dolciastra, e se usate, invece, pomodori come il piccadilly, il datterino, il costoluto o quello a grappolo, vi verrà più o meno acidula … è buona norma, prima di fare una salsa, assaggiare il pomodoro e la salsa stessa una volta realizzata ... in ogni caso non fatevi tentare dalle aggiunte per aggiustare il sapore, del tipo un pizzico di zucchero o qualcuno anche un pizzico di bicarbonato: meglio una salsa con poco sapore, che una "dopata".
Qualcuno si chiede alche se mettere o meno la salsa di pomodoro in una pizza, io dico di si, non solo perché per me le pizze bianche sono un errore e un orrore genetico, qualcosa contro natura, sono come un matrimonio non consumato, ma anche per la cottura, la pizza bianca, anche quella ricoperta di mozzarella (che se in parte attenua i disastri della mancanza di pomodoro, appesantisce in modo incredibile tutta la pizza) o anche quelle spalmate d’olio d’oliva, si cucinano in modo irregolare e si creano nell'impasto all'interno delle enormi  bolle e crateri … c’è poco da fare, è una legge di natura, la salsa di pomodoro va usata in ogni caso, altrimenti fatevi la focaccia ligure.

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La mozzarella deve essere appunto mozzarella, cioè fiordilatte e non formaggio fuso, la dovete vedere filare quando la tirate su con la forchetta, ma non è necessario che sia mozzarella di bufala anzi, io credo che la mozzarella di bufala, se davvero buona, sia sprecata per una pizza, andrebbe mangiata cruda con del pomodoro crudo, nella classica caprese.
E poi, la mozzarella di bufala in genere è più acquosa di quella normale, e in quanto tale non sarebbe indicata per una pizza, ma … de gustibus … in ogni caso se la volete usare non mettetela ad inizio cottura, ma alla fine o addirittura quando tirate fuori la pizza dal forno … la stessa regola vale per gli affettati e per tutto ciò che non tiene la cottura o che non ha bisogno di cottura … zero cottura ad esempio necessitano il prosciutto crudo, la rucola, la mortadella o il salame e la soppressa.
Un’ultima cosa: basilico o origano? I napoletani direbbero basilico senza battere ciglio, e così sta scritto nella ricetta DOC depositata, un pizzaiolo napoletano una volta mi disse che le foglie di basilico servivano ad avvisarlo della cottura della pizza, quando il basilico è annerito la pizza è cotta … resta però il problema estetico di questo ciuffo di basilico annerito … “allaccaratu” (flaccido, avvizzito, appassito) aggiunse un pizzaiolo siciliano che era presente e che sosteneva invece l’uso dell’origano sia su un piano estetico sia su un piano più puramente gustativo.
Ora, se volete usare a tutti i costi il basilico e non vi piace che sia “allaccaratu”, vi consiglio di tritarlo in precedenza sottilmente nella salsa di pomodoro.

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La cottura dovrebbe essere effettuata rigorosamente in un forno a legna, dove ardono ceppi di cirmolo e di larice, o di sandalo e di palissandro, o di abete rosso e di frassino ... scherzo ... e dove li trovate? E anche se li trovaste, quanto vi costerebbe la pizza? Dalle mie parti un tempo si usavano ceppi di limone e di arancio amaro e tronchi di olivo o di mandorlo, frutti della potatura o di alberi vecchi estirpati perché malati o per far spazio a piante più giovani ... non avete idea dell'odore indescrivibile che si sprigionava dalla cottura delle pizze, un odore che per me rimane per sempre associato alla pizza e che non sento più da nessuna parte (ma che riconoscerei ovunque), perché usano ormai tutti legname proveniente dall'Europa dell'est, magari dalla bielorussia dopo il disastro di Cernobyl, legname radioattivo che produce una pizza psichedelica. 
Se non avete il forno a legna, mandate a manetta il vostro forno elettrico o a gas, non raggiungerete comunque gli oltre 400 gradi di un forno a legna o gli oltre 300 gradi di un forno elettrico industriale che servirebbero per avere una buona pizza, ma ne sono la migliore approssimazione che ne otterrete; la pizza ha bisogno di solidificare dalla base, quindi scegliete un programma di cottura in cui il calore giunga da sotto e ponete il piano di cottura più basso possibile; mettete la pizza a forno molto caldo, non prima, su una teglia di alluminio sottile sopra uno strato di carta forno perché non si attacchi.
Non credo di avervi detto tutto, anzi non vi ho detto niente, spero solo di avervi messo addosso, a fine lettura, la voglia di una buona pizza e l’idea che non è poi così complicato farvela con le vostre mani, solo se decidete di farlo evitate di inseguire l’idea della pizza perfetta, finché anelate alla perfezione non vi verrà mai nulla di buono, cercate di realizzare piuttosto ciò che piace a voi e alle persone che inviterete all’assaggio.
Inizialmente perderete qualche amico, qualcuno che non vi frequenterà più per timore che lo invitiate di nuovo a mangiare la vostra pizza e qualcun altro perché ricoverato in ospedale con disturbi intestinali, ma alla fine anche se forse non sarete felici, potreste essere almeno soddisfatti.
La pizza che mi piace di più è costituita da una base di margherita semplice, poi preparo in parte del pomodoro concassè (scegliete i pomodori che più vi piacciono, o li tritate semplicemente togliendo i semi e l'acqua di vegetazione oppure, se siete dei perfezionisti, immergete i pomodori in acqua bollente per qualche minuto e subito dopo in un recipiente di acqua con ghiaccio, lo shock termico faciliterà l'operazione di sbucciatura, quando si saranno raffreddati spellateli e tritateli a dadini piccoli e fateli insaporire per almeno mezzora con scocche di cipolla di Tropea, che poi toglierete quando aggiungerete il pomodoro nella pizza) e del pesce spada affumicato.
Il pesce spada lo affumico io personalmente, facendomi provenire della legna pregiata dall’oriente … scherzo, come tutti cerco la busta di affumicato commerciale “meno peggio”, quella di migliore qualità, con un buon filetto di spada possibilmente non affumicato artificialmente con sostanze chimiche o con un fuoco di copertoni usati.
L’ho chiamata “gassa d’amante”, come il nodo marinaro, noto anche come nodo di bolina o cappio bombardiere, un nodo ad occhiello semplice da eseguire da chiunque con qualsiasi cima, esattamente come l’amore è accessibile a chiunque, qualunque mezzi possiedano; pur essendo un nodo solido e sicuro (potreste trascinarci un capodoglio o una balena bianca a poppa con un’unica gassa d’amante e una buona cima) non è un nodo che “slitta”, un nodo scorsoio per intenderci, non vi stringerà mai troppo, e questo vi garantisce che non vi sentirete soffocati, proprio come dovrebbe essere l’amore. Infine, è molto utile e molto usato proprio perché pur essendo un nodo sicuro, può essere sciolto facilmente anche con una mano sola e con la corda bagnata, proprio come l’amore quando viene bagnato dalle lacrime e basta un solo individuo della coppia per sciogliere il legame.


lunedì 10 agosto 2015

FIGLI DELLE STELLE - TRILOGY - 3




“ Come le stelle in cielo, intorno  alla luna lucente,
brillano ardendo, se l’aria è priva di venti;
si scoprono tutte le cime e gli alti promontori
e le valli; nel cielo s’è rotto l’etere immenso,
si vedono tutte le stelle; gioisce in cuore il pastore;
tanti così, fra le navi e lo Xanto scorrente,
lucevano i fuochi accesi dai Teucri davanti a Ilio;
mille fuochi ardevano nella pianura, e intorno a ciascuno
cinquanta erano seduti, alla vampa del fuoco fiammante;
i cavalli, mangiando l’orzo bianco e la spelta,
ritti accanto ai carri, l’Aurora bel trono aspettavano”.

(Omero,Iliade, Libro VIII, 555-565).





Il cielo di Giotto agli Scrovegni 

Il cielo di Giotto agli Scrovegni




























Namibia, parco naturale di Etosha


In queste notti, osate alzare la testa e gli occhi al cielo, all'inizio sentirete un cigolio, qualche dolorino qui e li, infatti non siamo più abituati a guardare lontano e in alto, qualcosa più grande di noi, qualcosa di elevato, siamo miopi, abituati a non oltrepassare la punta del nostro naso, a non riuscire ad andare oltre a noi stessi, le nostre esigenze, le nostre voglie, i nostri capricci.
E non guardate il cielo per scorgere la stella cadente ed esprimere così un desiderio, ne ho ascoltati a centinaia di desideri, persino i più intimi e inconfessabili, e vi assicuro che ancora scuoto la testa nel constatare quanto siano gretti, meschini e patetici i nostri desideri; in ogni caso, ho visto molta più gente piangere, disperarsi, andare in rovina perché un loro desiderio si era avverato e non quando non si avverava.
Guardate nel cielo semplicemente la bellezza di uno spettacolo stupendo, provate stupore per quei fuochi lontani, molti dei quali non esistono più se non come luce, mentre stelle più giovani non ci sono visibili perché la loro luce non è ancora arrivata fino a noi.
Avrete cantilenato non so quante volte la frase: "Così in cielo, come in terra ...", ebbene, provate a scorgere il riflesso degli astri non soltanto sulle superfici riflettenti (il mare ad esempio), ma anche dentro di voi, provate ad abbandonarvi al gioco di luci, al respiro del mondo, al ritmo dell' universo (che io immagino debba essere per forza un reggae o la musica celestiale di un'orchestra sinfonica o il ritmo martellante di un tamburo in sintonia col battito del nostro cuore), provate a scatenare il caos dentro di voi, perché è solo dal caos che può sorgere una stella danzante.

"Stars, hide your fires! Let not light see my black and deep desires". [Stelle ,nascondete i vostri fuochi! non permettete alla luce di illuminare i miei oscuri e profondi desideri]. 
(William Shakespeare, Macbeth, atto I, scena V).