venerdì 17 aprile 2015

HAPPY MEAL (SE LI CONOSCI LIEVITI)







"E penso a te che mi hai ascoltato. E mi hai reso diverso, nei mille pezzi di specchio, perché sarò diverso ogni volta che mi rileggerai, e diverso per ognuno che mi leggerà, svogliato o rapito."
(Stefano Benni, Di tutte le ricchezze).







Se tuo figlio in pizzeria dovesse esordire ordinando un Happy Meal, sappi che ti è lecito sopprimerlo, anzi, è un tuo preciso dovere civico farlo; la modalità è affidata alla tua sensibilità di padre o di madre, ma sulla necessità dell’esecuzione non devi avere dubbi: potresti affogarlo, strafogarlo di Happy Meal fino a soffocarlo, appenderlo per i piedi in una cantina umida e buia, oppure legarlo in un banco di segheria finché morte non lo separi, puoi anche accettarlo così com’è … nel senso di farlo a pezzi con l’accetta e dare i suoi pezzi a McDonald perché ne faccia hamburger, o ancora inserirlo in un centro programmato per la rieducazione mentale o nella lavatrice durante la centrifuga.
Mia nonna, donna d’altri tempi, d’altri secoli e d’altro millennio, che aveva in testa un modello educativo normativo secondo cui bisogna educare i bambini ad essere dei cittadini rispettosi della legge, delle regole e dei codici vigenti ed imperanti in un territorio, quando ero particolarmente vivace mi apostrofava con l’epiteto: “Vicariotu!”.
Nel suo dialetto da sicula sud orientale voleva significarmi che ero così ribaldo da meritarmi di comparire davanti alla Gran Corte della Vicarìa, “ il tribunale [istituito in età rinascimentale] cui, nel regno di Sicilia, spettava la suprema giurisdizione, dopo che, con la riforma di Alfonso il Magnanimo di Aragona, furono fusi i due alti tribunali della Magna Curia e della Curia (o Corte) della Vicaria. Era divisa in due ruote, una per le cause civili e una per le cause penali”. (fonte: Enciclopedia Treccani)
A mia scusante posso dire che non è che andassi a scippare le vecchiette o tagliassi la gola a qualcuno nei vicoli, io volevo soltanto giocare, e gli spazi del quartiere mi stavano sempre più stretti, non esisteva nel mio paese d’origine in Sicilia alcun tipo di struttura di svago o sportiva per un bambino o per un ragazzo, non c’erano campi di calcio pubblici o privati, non c’erano piscine, non uno stadio di atletica, non un parco giochi, non c’erano i giardinetti pubblici (l’unico, la villa vicina alla stazione, era troppo distante, si trovava in un quartiere malfamato ed era in stato di abbandono dall’800 quando era stata costruita).





Non c’era niente che possa costruire l’uomo, potevamo saziarci solo di bellezza naturale, sole, mare, cielo terso e quasi sempre azzurro, aria fine che portava in paese gli effluvi delle zagare dei limoni che circondano ad anello tutto il paese, prima che qualcuno ci mettesse le mani e distruggesse tutto con una colata di cemento, con uno sversamento in mare, con l’inquinamento dell’aria perché si decise che avremmo dovuto avere anche noi le industrie.
Se volevi giocare a calcio c’erano dei terreni incolti, dei campi di terra battuta su cui tracciavamo un rettangolo col gesso in cui i metri “regolamentari” erano misurati con i nostri passi, ergevamo due pali per parte sui lati meno estesi, segnavamo il centrocampo, l’area di rigore, pochi altri elementi, un pallone quasi sempre di plastica, chi con le scarpine chiodate e chi con le scarpe da ginnastica si iniziava la partita.
Oppure si giocava in quartiere, per le strade meno trafficate o nei momenti di meno ressa (in estate, ad esempio, nelle ore più calde, quando non giravano quasi macchine o altri veicoli, e dovevi fermarti poche volte per farli passare bloccando il gioco e creando infinite polemiche circa quanto ti eri avvicinato alla porta avversaria a gioco fermo).
Mia nonna forse lo capiva che eravamo pieni di energia come una molla, però capiva pure che a molti che magari riposavano, a quelli che dovevano attraversare la strada, a quelli che volevano un po’ di pace, questa nostra esuberanza poteva dare fastidio, senza contare le possibili pallonate sulle porte o sui vetri, i danni che potevamo creare giocando in un luogo così inopportuno.
Era una donna abbastanza tollerante, ma quando gli altri esageravano, protestava e si faceva valere; una volta chiese a dei ragazzini che gli avevano lanciato già una volta il pallone sulle lenzuola fresche di bucato stese al sole di andare a giocare altrove e non accettava rifiuti, la mamma di uno di questi ragazzini la apostrofò dicendole: "Che vuole, donna Amalia, sono bambini, da qualche parte devono pur grattarsi i cornetti ...", lei serafica rispose: "E devono venirseli a grattare proprio sulle mie lenzuola di bucato?". 





Per lei valeva la regola che di fronte al benessere generale devi privarti del tuo piacere, che il benessere e la tranquillità di un adulto valessero più della gioia di un bambino (perché erano gli adulti che facevano girare il mondo), era una donna di cui le figlie si vantavano che in tutta la sua vita non avesse mai litigato con un vicino, per nessun motivo, una che “toglieva le convenienze”, vale a dire che eliminava sistematicamente a priori ogni possibile motivo di attrito con le persone.
Pur appartenendo ad una classe sociale che allora era considerata agiata, quella dei proprietari terrieri, non aveva voluto fin da giovane che la facciata della sua casa fosse adornata da un pergolato di vigna ornamentale, che si protendeva decorativamente per il portone e per la carretteria (devo forse ricordarvi che mia nonna è di altri tempi e a quell’epoca si girava col carretto?), che si affacciasse sul patio esterno e che rinfrescasse la parete della casa nelle sere d'estate.
Il motivo? Perché pergolato e frescura avrebbero attratto le "comari" vicine e con loro i pettegolezzi inevitabili sulle assenti; era convinta che non importasse poi tanto chi inizia a divulgare un pettegolezzo, nessuno se ne ricorda mai e il pettegolezzo cammina sempre sulle gambe del "si dice", "si mormora", ciò che viene ricordato è sempre chi te lo riferisce (l' "amica") e il luogo dove è stato fatto.
La padrona di quella casa viene ritenuta in qualche modo responsabile perché, anche se non avesse approvato dichiaratamente, era in dovere di tacitare sul nascere la maldicenza, per una forma di rispetto verso la persona presa di mira.
In questo modo lei troncava sul nascere ogni occasione e, se anche qualcuna le avesse voluto confidare qualche confidenza riguardante qualcun'altra, lei tagliava corto e troncava sul nascere ogni equivoco: questo aveva insegnato alle sue figlie, mie zie, e questo insegnò anche a sua nuora, mia madre. 
Altro simpatico epiteto è “malanova”, rivolto a qualcuno a cui si voglia graziosamente augurare che gli capiti qualche brutta novità oppure, riservato ai casi più ostinati di disobbedienza e di monelleria, “Jetta sangu”, (che fortunatamente mi è stato lanciato soltanto in poche occasioni e non da persone della mia famiglia),che letteralmente vuol dire: “Butta sangue”, ma ha un significato allegorico che va da: “Arrangiati” a “Che ti venga un’emorragia improvvisa, un improvviso fiotto di sangue”.






Come potete arguire, dunque, durante la mia infanzia (peraltro felice) ho dovuto scansare strali e tempeste di maledizioni che mi volevano col pigiama a righe della Vicarìa, o alle prese con lunghe catene di disgrazie o affetto da improvvise malattie emorragiche pre-eboliche (della serie Cristo si è fermato ad Ebola, mentre io sono sceso la fermata dopo).
I bambini vanno educati, anche senza necessariamente ricorrere a minacce e a maledizioni (che sottolineavano piuttosto la rassegnazione delle madri di fronte a figli riottosi e ribelli ad ogni educazione), ma con fermezza e con dolcezza; non si tratta soltanto di imporre loro una serie di norme morali da rispettare, di familiarizzarli con i valori della loro famiglia d’origine e della cultura a cui appartengono, si tratta anche e forse soprattutto di permettere loro di fare esperienze positive e negative.
Pino Daniele in Yes I know my way cantava: “Siente fa' accussì nun da' retta a nisciuno/fatte 'e fatte tuoie/ma si haje suffri' caccia 'a currea/siente fa' accussì/miette 'e creature 'o sole/pecché hanno sape' addo' fa friddo/e addo' fa cchiù calore”, ‘e creature (i bambini) devono sapere dove fa freddo e dove c’è più caldo, devono assaggiare sia l’happy meal e i prodotti delle multinazionali (perché McDonald non fa cucina statunitense, l’hamburger proviene dalla città di Hamburg in Germania, ma polpette schiacciate di carne macinata sono note praticamente in ogni civiltà presente o remota, e l’hot dog non è altro che il würstel anch’esso di origine germanica, ma anche in questo caso l’insaccato è noto ovunque e se non è di carne suina a causa di tabù religiosi, può essere di carne bovina, equina, ovina, caprina o di pollame (presso gli ebrei sono diffuse le salsicce d’oca), sia la pizza o i prodotti della tradizione.
Esiste, ed è una delle più importanti, un’educazione al gusto, anzi, direi che dopo quella del tatto è l’educazione primaria per un bambino, possiamo dire tranquillamente che per un lattante il mondo passa per la sua bocca e per la sua pelle, è di importanza fondamentale che il bambino possa conoscere le sensazioni di caldo e di freddo, di contatto e il distacco, di matching e di mismatching con la madre, che impari a riconoscere i gusti che gradisce e ingoia da quelli che non gradisce e sputa (ausstossung, sputare, scrisse Freud, segnalando così il primo dei meccanismi di difesa e chiama bejahung, affermazione, il primo dire di si e verneinung, denegazione, l’ultimo dire di no).





Se non educhi un bambino a riconoscere le cose buone da mangiare dalle schifezze, lo lasci preda dei fast food, del cibo spazzatura, del tritato, dell’omogeneizzato, dove non si riconosce più cosa compone cosa, cosa c’è dentro, delle salse forti che danno sapore a della carne insipida, troppo cotta, a delle verdure e a dei pomodori che sanno solo d’acqua, a del pane che sbriciolato non mangiano neppure gli uccelli (provatelo, io l’ho fatto!) e che non è mangiabile se non grigliato.
Se tuo figlio si nutre di cose cattive allora non può che diventare cattivo, perché è vero ciò che dice Ludwig Feuerbach: “Mann ist, was er isst” (l’uomo è ciò che mangia) («Der Mensch ist, was er iβt», in Blätter fur Literarische Unterhaltung, 12 novembre 1850, tr. it. Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia) e se mangia schifezze diventa una schifezza, come se mangi maiale diventi un maiale, se mangi oca un’oca, se mangi pollo un pollo, se mangi carciofi un carciofo, se mangi provolone un provolone, se mangi bietole una barbabietola da zucchero.
C’è, poi, un livello collettivo, culturale, da tenere in considerazione quando si parla di alimentazione e di educazione al (buon) gusto, dove la cultura è solida, dove le tradizioni hanno messo profonde radici, dove i pilastri dei valori sono strutturati nel tessuto sociale e non si riducono a vuoto rituale, alla conservazione della sola forma alterandone la sostanza, alla delega all’industria degli usi condivisi e non all’artigianato casalingo, ci possono essere escursioni anche approfondite nell’altrove, integrazioni (non mi piace il termine “contaminazioni”, sa tanto di diffusione di malattie, di contagio di virus o di batteri), fusioni, incorporazioni di tradizioni esterne che vengono così a far parte del nostro tessuto culturale, ma si mantiene la valutazione, la scelta, senza perdere l’identità.
Quando le tradizioni sono inconciliabili, quella che non si amalgama alla nostra viene semplicemente ignorata e soppressa, Roberto Alajmo ad esempio a proposito di Modica racconta che:

“Qui è il regno della gastronomia povera, quella che fa espediente di ciò che offre la terra e lo eleva in altezza. Soprattutto, il Modicano da secoli è terra di scaccia: una sfoglia di pane molto sottile e variamente farcita, che si fa in casa o si compra nei panifici e nelle rosticcerie. Ebbene, qualche anno fa un imprenditore decise di aprire da queste parti un McDonald’s. La casa madre fece le sue verifiche, trovò che tutti i parametri aziendali erano a posto e diede l’approvazione. Durò un anno: dopodiché l’imprenditore fu costretto a chiudere. I parametri aziendali erano rispettati, ma non tenevano conto di un fattore essenziale. Non prevedevano il radicamento della scaccia modicana, competitiva su un piano non solo sanitario, nel senso che risulta meno dannosa, ma anche secondo criteri di gusto e di economicità. Di fronte alla scaccia, la polpetta americana fu costretta a soccombere. Sarà pure un’eccezione, ma è un’eccezione esemplare” (L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia, Laterza, 2010, 9,50 €, p. 256).




C’è un altro motivo molto solido per cui i modicani (gente estremamente coerente, si direbbe oggi, gente con la testa dura, secondo il resto dei siciliani … tanto che il massimo gradiente di durezza cerebrale interinsulare e termine di paragone è espresso con “testa di modicano”, così come il “testa di moro” esprime il marrone più intenso in pelletteria) non avrebbero mai scambiato la loro scaccia per gli amburger di McDonald, e cioè l’eterna rivalità con la vicina Ragusa che si esprime in ogni campo: anche quello culinario della preparazione delle focacce di farina.
Esistono delle differenze che sono subito evidenti se si mettono in confronto le scacce modicane con quelle ragusane, le prime hanno una sfoglia più sottile delle seconde, che tendono ad essere più spesse e più morbide; anche la maniera di ripiegare la pasta è differente, con orli molto più regolari le prime, molto più artistiche le seconde; anche la farcitura è differente: tenendo presente che dentro una scaccia teoricamente ci si può mettere tutto ciò che è commestibile o, meglio, tutto ciò che la tradizione offre di commestibile, le scacce modicane hanno una varietà più ampia di farciture rispetto a quelle ragusane.
Naturalmente, la voglia di differenziarsi e la rivalità accesa fra le due cittadine, spiega gran parte delle differenze, la rimanente parte viene spiegata dal fatto che mentre a Modica si sta perdendo l’uso di preparare in casa questi manicaretti, affidandosi sempre di più a forni, rosticcerie, gastronomie, locali pubblici che garantiscono comunque una qualità elevata, a Ragusa ci si affida ancora alla tradizione familiare e si tramandano di madre in figlia i segreti per un’ottima riuscita.
Questo spiega l’uniformità e la regolarità di forme e di orli, della cottura, dei sapori che si trovano a Modica (perché il forno e la rosticceria possiedono macchinari a cui la casalinga deve supplire con le sue mani) e la varietà di quelle ragusane che sono affidate all’estro della cuoca in quel momento e alla qualità dei prodotti che riesce a trovare.






Il passo dall’artigianato di qualità alla produzione industriale, però, è molto breve, il piccolo non potrà mai competere col grande per ciò che riguarda grosse forniture e i prezzi, e sulla qualità bastano soltanto poche generazioni abituate a mangiare roba mediocre in famiglia e fuori perché si perdano gli usi e le tradizioni e perché più nessuno ricordi come faceva nonna a fare così bene quelle robe che mangiavo quand’ero bambino.
Di solito, poi, queste malinconie, queste vaghe nostalgie del passato, vengono riempite da mostri, le regioni del nord più ricche, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e il Friuli, non solo hanno devastato il loro territorio costruendo un continuo corollario di capannoni industriali, di centri commerciali e di agricoltura industriale che frutti però il massimo per cm², come i vigneti di pregio estirpando tutti quelli che davano un buon vino locale ma di difficile collocazione nel mercato internazionale e di incerto prestigio, ma hanno sostituito alle tradizioni locali (che dovevano essere molto più simili a quelle del film l’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi), un’improbabile discendenza dai celti.
Ecco che si raccoglie in un’ampolla la sacra acqua del fiume Eridano (il Po di Olmi) direttamente dalla sua sorgente sul Monviso e si porta in sacra processione (con Suv, Mercedes, Porsche, Maserati, Bmw celtiche), non sulla foce dell’Eridano, come sarebbe corretto, nei pressi di Rovigo in Polesine, ma a Venezia, che non c’entra un tubo, ma è uno scenario più prestigioso dove ambientare la saga e oltretutto si mangia molto bene.
Qualche tocco di colore verde in un territorio in cui di verde è rimasto ben poco, solo le aiole in mezzo alle rotonde, muniti di scudi e di spade di legno scolpito o di cartone pressato, con un elmo di plastica, con le corna, con la moglie Sue-Ellen (nome tipicamente celtico) e il figlio Kevin o Brian o George (in onore del re celtico George Clooney), vestito da cartone animato giapponese, migliaia di scalmanati festeggiano invadendo i bar, i fast food, i McDonald’s del capoluogo veneto (perché i ristoranti tipici sono cari) e beandosi così di questa pagliacciata pseudo-culturale.   



4 commenti:

  1. Sono nettamente contrario a tutto ciò che l'America in particolare ci propina come cibi; non solo.
    Con i giovani è una lotta impari, limito i danni andandoci non più di una volta l'anno con il nipote; lui un po' di più con i suoi, ma di rado.
    A casa nostra si mangia benissimo, genuino e la lasagna non si batte; ma non solo. Ecco un modo per distrarlo dalle schifezze che fanno tendenza, maledetta pubblicità.

    Ciao da luigi (buongustaio a tavola; non solo!)

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  2. Boicotto questo expo. Non voglio dare un solo cent per questi sponsor e per questo malaffare sugli appalti. Not in my name!

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  3. @ Luigi,
    l’americano medio è un barbaro di proporzioni spaventose, con un gusto orrendo per l’abbigliamento, il gusto, è in generale per l’estetica. Poi, tendono a industrializzare tutto, ad ingigantirlo, senza badare a cosa ne sarà della qualità del prodotto. Ricordo che durante gli anni di università mi capitò di coabitare con un ragazzo statunitense, William, per un certo periodo; con l’altro mio coinquilino avevamo la dispensa in comune e quando era possibile (spesso a cena) mangiavamo insieme e stabilivamo i turni di cucina e di lavaggio piatti.
    William si inserì molto bene con noi, era curioso e ci guardava fare, in particolare gli piacevano gli spaghetti al pomodoro o al ragù della mamma dell’altro coinquilino, una sera che era rientrato prima di noi bloccò la solita pentola con l’acqua che stavamo per mettere sul fuoco, tirò fuori dal frigo la scodella più grande che avevamo dove c’erano degli spaghetti al pomodoro che lui aveva già cucinato in precedenza e che voleva scaldare: un impasto inguardabile.
    Aveva cucinato un chilo intero di spaghetti e quasi un litro di passata di pomodoro, s aveva pensato che è da matti mettersi a fare ogni volta la giusta dose di pasta, quando si poteva cucinarla tutta insieme e poi scaldarla.
    L’abbiamo lasciato fare con padella, coltello e forchetta, finché non si è reso conto da solo che non si riuscivano nemmeno ad attorcigliarli sulla forchetta i suoi spaghetti.
    Da McDonald sono stato una sola volta in vita mia, erano già le due del pomeriggio passate e cercavamo qualcosa da mangiare a Ravenna, dove eravamo di passaggio, ma i pochi locali aperti ci dicevano che la cucina aveva già chiuso.
    Per cui, obtorto collo, ho dovuto sedermi sui tavoli di McDonald ordinando, nel tentativo di limitare i danni, un’insalata di riso, condita sicuramente con l’olio dei freni usato.
    I tuoi nipoti sono giovani, McDonald fa parte del loro mondo, è giusto che frequentino anche quello e che ci portino anche il nonno, purché conoscano i veri sapori della propria terra e della tradizione.
    Ciao

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  4. @ Berica,
    sembra che sia l’Expò di Renzi, quello delle multinazionali, quello in cui spenderemo un miliardo e mezzo di euro solo per nascondere il non finito, per creare scenografie finte … perché non organizzarlo a Cinecittà? Ma, se riesco a trovare qualche giorno libero, sarei curioso di vederlo da vicino, di farmi un’idea di persona … in fondo se sono sopravvissuto alla Biennale di Venezia posso affrontare di tutto :-).
    Benvenuta.

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